L’industria degli adolescenti produceva tutto ciò di cui un giovane poteva avere bisogno: i pantaloni strappati e sgualciti a regola d’arte, i tatuaggi, le attrezzature per il karaoke, i preservativi, di cui, peraltro, si faceva scarso uso in quanto l’impulso sessuale si era molto ridotto e la fertilità naturale era diventata una rarità, quasi un’anomalia.

La riproduzione, di cui si occupava l’industria degli adulti, seguendo le direttive dell’Ente planetario per la procreazione (PPI: Planetary Procreation Institute), avveniva prevalentemente per inseminazione artificiale in provetta e successivo trasferimento nell’utero, ricorrendo alla banca degli spermatozoi e delle cellule uovo.

Da anni si conservavano le cellule riproduttive delle persone con alto quoziente intellettivo, si moltiplicavano con tecniche di ingegneria genetica, si rendevano attive mediante l’uso di ormoni androgeni ed estrogeni.

Le persone sposate che desideravano avere un figlio o una figlia, anziché ricorrere a metodi artigianali imprecisi e faticosi, si rivolgevano al PPI per prenotare l’utilizzo di cellule uovo e spermatozoi. Dopo una serie di accertamenti approfonditi sullo stato di salute dei richiedenti e sulla loro consistenza patrimoniale, generalmente l’autorizzazione era concessa e si avviava la procedura standard. Se una coppia, raramente, concepiva un nuovo essere umano seguendo il metodo antico, ugualmente la donna era seguita e aiutata a portare a termine la gravidanza, ma guardata con espressione severa dai medici e dagli infermieri e trattata, lei e il compagno, con modi poco gentili.

Si cercava di spingere i giovani, attraverso una campagna di prevenzione, a verificare la presenza di gameti vivi nel liquido seminale e nelle ovaie e all’uso del preservativo o della pillola anticoncezionale maschile e femminile, per evitare nascite non programmate.

Ciononostante, circa il venti per cento delle nascite era conseguenza di rapporti sessuali all’antica. Una parte consistente della popolazione, quasi esclusivamente costituita da adulti, rifiutava i controlli e i sistemi di contraccezione. Questa era, secondo gli scienziati, la causa della difficoltà, inizialmente non prevista, a innalzare il quoziente intellettivo (QI) medio della popolazione.

Gli scienziati ritenevano che i bambini nati con il metodo antico, senza la preventiva selezione dei caratteri ereditari, agivano, per vicinanza, per imitazione, negli asili nido e nelle scuole, sui bambini nati in provetta, riducendo la loro tendenza ad acquisire regole e schemi mentali e, in definitiva, a sviluppare un QI superiore.

Assodato che il quoziente intellettivo è una misura della capacità di conformarsi alle regole della società e alle opinioni più diffuse, risulta evidente che i nati con metodi naturali, meno dotati di questa capacità, trasferiscono, con l’esempio, la loro propensione alla ribellione ai bambini normodotati, figli dell’inseminazione artificiale. Erano state avanzate proposte dagli studiosi più eminenti per risolvere il problema: una di esse prevedeva la formazione di classi, o, addirittura, di scuole separate; un’altra, più drastica, l’allontanamento dalla famiglia dei bambini nati in conseguenza di un rapporto sessuale e la creazione di colonie di recupero.

Mentre tra gli scienziati si dibattevano queste proposte, un problema assai più grave apparve all’orizzonte e costrinse a concentrare tutte le energie per cercare di risolverlo.

Si tratta dell’aumento inaspettato del numero dei suicidi, raddoppiato ogni anno negli ultimi dieci anni.

L’Ente per la procreazione aveva provveduto a incrementare le nascite aumentando il numero delle autorizzazioni concesse in modo corrispondente all’aumento del numero dei morti. Agendo sull’unica leva disponibile (non si poteva obbligare ad allevare figli) si era riusciti a mantenere stabile la popolazione complessiva e la distribuzione in ciascuna area del pianeta.

Poiché l’aumento dei suicidi – inizialmente attribuito a situazioni particolari e temporanee (si era notato che riguardava soprattutto persone anziane prive di interessi) – cominciava a investire l’età adulta, gli scienziati avevano calcolato che, dopo pochi anni, non sarebbe stato possibile sopperire all’aumento del numero dei morti con un corrispondente aumento del numero delle nascite. In altri termini: l’umanità rischiava l’estinzione.

Furono condotte indagini da personale altamente specializzato per individuare le persone a rischio suicidio. Grande fu la mia meraviglia quando il problema investì i miei vicini di piano, in una delle principali torri cittadine: una famiglia che mai e poi mai avrei ritenuto a rischio. Nel modulo che avevamo ricevuto per segnalare le persone malinconiche, apparentemente demotivate e depresse di nostra conoscenza, mi ero guardato bene dall’inserire il nome del capofamiglia, Maximilian Spock, un giovane che mi sembrava assolutamente realizzato e lontano da ogni proposito di suicidio.

Una persona tranquilla: due figli piccoli, gemelli omozigoti che la moglie Peppenella aveva fortemente voluto. Nel modulo inviato all’Ente per la procreazione aveva specificato e sottolineato “gemelli omozigoti”; nel colloquio successivo con la commissione Peppenella aveva ribadito con decisione: «Io e mio marito desideriamo dare il nostro contributo al progresso dell’umanità allevando due gemelli intelligentissimi, due futuri premi Nobel».

Ricevuta l’autorizzazione, si erano recati alla sede locale dell’Ente; Peppenella si era sottoposta all’introduzione nell’utero di una singola, preziosa cellula uovo fecondata in provetta; era stata indotta la divisione della stessa per ottenere due embrioni identici, avviato il processo di segmentazione, e, dopo nove mesi, aveva partorito questi due bambini meravigliosi che, si diceva, avevano nel DNA i geni del direttore della equipe cinese a cui era stato assegnato il premio Nobel per la realizzazione del primo uovo artificiale.

Questo faceva capire la mamma quando gli amici in visita notavano i caratteri tipicamente orientali del volto dei due gemelli. Era vietato scegliere i donatori degli spermatozoi e delle cellule uovo, ma lei parlava del suo desiderio di essere madre di due geni, della sua ammirazione, fin dagli anni di scuola, per lo scienziato che aveva guidato l’equipe, a cui era dedicato l’Istituto centrale per l’alimentazione artificiale (CANI: Central Artificial Nutrition Institute “Ciù En Lai”), di alcune sue conoscenze nella banca degli ovociti e spermatociti.

Riguardo alla donatrice della cellula uovo, ogni volta che si entrava in argomento Peppenella portava il discorso sulla figura femminile, nella storia, che l’aveva maggiormente affascinata fin da piccola: Yoko Ono. Mitica compagna del musicista John Lennon (anni ‘60, ’70 del 1900), era riuscita a liberare il marito dall’influenza nefasta degli altri componenti dell’orchestra classica di quattro elementi, molto meno dotati dal punto di vista intellettuale. Peppenella aveva deciso di chiamare i figli Yoko e Ono, senza trovare obiezioni da parte del marito.

Maximilian era un uomo silenzioso, per questo considerato con rispetto da tutti, perché chi tace sembra una persona saggia, riflessiva. Probabilmente lo era.

Era nato in seguito a un rapporto sessuale non protetto, quando il padre, dottor Julian Spock, e la madre, signora Rosalina Cellamare, sembrava non avessero più la possibilità di far nascere figli col sistema naturale, per l’età (la menopausa e l’andropausa arrivavano intorno ai cinquant’anni) e in seguito alle analisi a cui si erano diligentemente sottoposti.

Il padre era medico di famiglia e si sforzava di far applicare ai pazienti le direttive dell’Ente per la procreazione; si era sempre sottoposto a tutti i controlli e non aveva mai avvertito il desiderio di avere figli.

Raggiunta la soglia dell’età in cui quelle “maledette ghiandole riproduttive” (in un manuale a uso delle famiglie le aveva così definite, per far passare il concetto in modo efficace) dovevano limitarsi a produrre un po’ di ormoni e poco altro, aveva allentato i controlli, pur mantenendo una discreta attività sessuale, agevolata dall’uso delle pillole per l’erezione, sostanzialmente come misura igienica finalizzata a stimolare il buon funzionamento della prostata.

Una volta alla settimana, solitamente il sabato sera, ingoiava quattro pillole, calcolando un’erezione di otto minuti (due per ogni pillola), e diceva alla signora Rosalina: «Cara, per favore, stenditi sul letto».

La signora, obbediente, si spogliava rapidamente, si stendeva sul letto con le gambe divaricate, umettava l’apparato genitale con un fazzolettino imbevuto di un liquido lubrificante e si metteva in attesa. In quei cinque minuti il dottor Spock guardava un video porno risalente all’altro secolo, trovato in un negozio di antiquariato, poi, quando era pronto, la raggiungeva nel letto e, nel tempo dovuto, con precisione assoluta, al centesimo di secondo, raggiungeva l’orgasmo e l’eiaculazione.

Si staccava dalla moglie, scendeva dal letto, continuava a spogliarsi (spesso l’erezione sopravveniva prima che si fosse tolto completamente i pantaloni del pigiama), andava nella stanza da bagno, faceva la doccia.

La signora Rosalina si affrettava a raggiungere il bagno annesso alla stanza degli ospiti e, dopo avere lavato e risciacquato profondamente la zona genitale, si immergeva lungamente nella vasca.

A questo punto la serata era conclusa e potevano addormentarsi tranquillamente, ciascuno nel proprio lettino, nella propria stanza.

Il dottor Spock era preciso, metodico e fedele alle direttive dell’Ente per la procreazione. Però non aveva tenuto conto di un fenomeno che non era ben conosciuto, un fenomeno che la scienza non era ancora riuscita a spiegare. Se l’avesse conosciuto, sicuramente avrebbe prestato la massima attenzione, sottoponendosi alle analisi anche dopo avere raggiunto la certezza della sterilità delle “maledette ghiandole riproduttive” sue e di sua moglie.

Gli scienziati avevano deciso di non rendere noto a tutti il fenomeno, fino a che non fossero riusciti a trovarne una spiegazione convincente; volevano evitare il diffondersi di dubbi sull’intera costruzione scientifica alla base delle loro direttive.

In un certo numero di casi, un piccolo numero ma significativo dal punto di vista statistico (si parla del 2% delle persone di età compresa tra cinquantacinque e sessantacinque anni) si verificava il risveglio inaspettato delle ghiandole riproduttive: improvvisamente, per un periodo di tempo limitato, le ovaie e i testicoli si risvegliavano e si davano a una produzione febbrile di cellule uovo e spermatozoi vitali e molto attivi.

Il fenomeno era mascherato e passava inosservato in quanto, spesso, non aveva conseguenze dal momento che avveniva o solo nell’uomo o solo nella donna, i quali, data l’età, avevano interrotto i controlli sulla fertilità, seguendo le direttive dell’Ente per la procreazione. Nei rari casi in cui il fenomeno si verificava contemporaneamente in entrambi i partner, il risultato era, ovviamente, una gravidanza inaspettata.

Quando gli fu chiaro di essere incappato in questo errore statistico, dopo le spiegazioni che, opportunamente, gli furono date, al dottor Spock si presentò la prospettiva di una vita completamente scombussolata. Non aveva mai desiderato divenire padre, tanto meno con il metodo antico. Per un po’ pensò alla soluzione più semplice: l’aborto.

C’era un problema.

Questa soluzione gli avrebbe causato conflitti interiori rispetto ai principi della religione in cui era cresciuto: la Religione Universale, la più diffusa (80% della popolazione mondiale), sostanzialmente l’unica rimasta: il restante 20% era diviso tra adoratori del caso, adoratori della necessità e agnostici.

La Religione Universale ha ridotto il numero dei Comandamenti delle antiche religioni: li ha portati a tre (ha girato a lungo nelle televisioni il remake di un antico colossal, rinominato: I Tre Comandamenti).

Il Terzo, definitivo, è il seguente: 3) Non abortire né agevolare l’aborto; se sei medico dichiarati obiettore di coscienza.

Il dottor Spock era dotato di un alto quoziente intellettivo, dunque non sopportava il tradimento degli schemi logici e comportamentali assorbiti fin dall’infanzia. Per non entrare in conflitto con i principi della Religione Universale, in particolare con il Terzo, definitivo Comandamento, dovette accettare la nascita del figlio.

Rosalina fu seguita con cura e attenzione e senza gli sguardi severi e i modi poco gentili che accompagnavano quel tipo di gestazione.

I nati con metodo antico, anche se non ancora sottoposti a segregazione, erano guardati con diffidenza dai genitori dei compagni di classe, i quali cercavano di evitare che i propri figli frequentassero gli appartenenti a quel gruppo, temendo il calo del quoziente intellettivo per imitazione.

Per non creare difficoltà al figlio, il dottor Spock aveva diffuso la falsa notizia di una sperimentazione dell’inseminazione artificiale estesa ai genitori anziani per sopperire all’aumento del numero dei suicidi. Ma a quell’epoca il problema non era così rilevante, si era manifestato da poco, ed era quasi visto con favore dagli scienziati, che lo consideravano una specie di auto selezione naturale.

Non tutti i colleghi del dottor Spock avevano creduto alle sue spiegazioni; qualcuno gli aveva rivolto uno sguardo ironico, però la cosa, con la nascita del bambino, la sua crescita, il quoziente intellettivo nella media, piano piano fu dimenticata.

Maximilian poté condurre la vita normale dei ragazzi di allora. Non del tutto normale. Per il padre era la testimonianza vivente dell’unico errore, sebbene non voluto, della sua vita. Non riusciva a nascondere una profonda avversione nei confronti del il figlio.

Dell’errore c’era una sola traccia, conservata nell’Anagrafe Profonda, il database che riportava tutte le caratteristiche, ma proprio tutte, di ciascun abitante del pianeta, tranne gli appartenenti a piccoli gruppi isolati che si nascondevano in regioni poco frequentate e si era deciso di abbandonare al loro destino. Accanto al nome dei nati col metodo antico, subito prima del nome, c’era un piccolo segno, un trattino basso, il cosiddetto underscore.

Ai dati raccolti nell’Anagrafe Profonda solo alcuni potevano accedere ed era assolutamente vietata la loro diffusione, per rispetto della privacy.

Cap 2 (Dove siete? – Giovanni Guarino)

Fu quell’anno … no, qualche anno dopo, non ricordo con esattezza; d’estate.

Un’estate caldissima. Qualche anno dopo.

Gli insetti avevano cominciato a moltiplicarsi in modo incredibile.

Nuvole scure rotolavano sopra le nostre teste, così fitte da non riuscire a distinguere all’interno, formate da migliaia, forse milioni, di piccolissimi insetti. Si spostavano da un albero all’altro. La nuvola lasciava l’albero su cui si era depositata per qualche minuto e le foglie, coperte di puntini neri, si accumulavano alla base: minuscoli fori ricoprivano la pagina fogliare superiore.

Da alcuni anni avevamo notato la moltiplicazione anomala di insetti sempre più piccoli; le finestre delle case erano provviste di robuste zanzariere a maglie fitte, che lasciavano entrare poca luce. Ci eravamo abituati a stare quasi al buio, o alla luce dei lampadari, accesi anche di giorno.

Quell’estate le zanzariere furono inutili. Gli insetti più grossi – api, vespe, zanzare, mosche, formiche, farfalle, coccinelle, grilli, scarafaggi – e gli aracnidi (ragni, acari, zecche, scorpioni), erano scomparsi, alcuni con nostra grande soddisfazione.

Nel secolo precedente la produzione del miele si era di molto ridotta. Poi gli alveari erano rimasti vuoti, le api sparite. Da tempo si parlava, a periodi alterni, della scomparsa delle lucciole, a volte in senso metaforico, a volte come fatto reale.

Le piante producevano frutti solo grazie all’impollinazione artificiale. Eserciti di lavoratori stagionali precari, muniti di spazzolini, svolgevano il compito che era stato degli insetti impollinatori. Era disponibile e perfettamente funzionante una macchina per meccanizzare l’operazione, ma le autorità governative ne rallentavano la diffusione, temendo l’aumento della disoccupazione tra gli immigrati dai paesi nordici, dove si era sviluppata una diffusa povertà in conseguenza dei cambiamenti climatici.

Lo spostamento da un paese all’altro era regolato dall’Ente planetario per l’emigrazione (EPI: Emigration Planetary Institute) con regole ferree, per impedire modifiche della distribuzione della popolazione in base alle risorse disponibili. Negli ultimi anni, tuttavia, si era verificata una fuga dal Nord, particolarmente colpito dall’aumento della temperatura e dal conseguente scioglimento dei ghiacciai, verso il Sud, che aveva subìto meno danni. Molti poveri provenienti dalla parte settentrionale del pianeta, privi di permesso di emigrazione, si imbarcavano su gommoni. Rischiavano di morire annegati per raggiungere l’Africa, dove il clima non è cambiato molto (faceva caldo prima, fa caldo ora) e c’è ancora benessere.

Solitamente i migranti clandestini erano intercettati poco dopo la partenza e respinti; a volte riuscivano a raggiungere le coste italiane e spagnole. Qui facevano tappa (il loro sogno era l’Africa) e si adattavano a tirare avanti con lavoretti stagionali, come, appunto, l’impollinazione.

Le popolazioni dei paesi invasi dagli immigrati e i governi locali reagivano in modi diversi. Alcuni erano disponibili a stringersi un po’ per fare spazio ai nuovi arrivati, altri sostenevano la necessità di catturare i clandestini privi di permesso di emigrazione e rispedirli nei paesi di origine, dimenticando che la penisola Scandinava e la parte settentrionale della Germania e della Gran Bretagna erano quasi interamente coperte dall’acqua per buona parte dell’anno, e negli altri paesi, con il cambiamento del clima, erano sparite attività che davano lavoro a milioni di persone.

Era sparito il turismo invernale. In un primo tempo si era pensato di riconvertire i maestri di sci alpino in istruttori di sci nautico. Il tentativo era fallito: attrezzatura pesante, bastoncini inutili. Gli sciatori assumevano una postura che li faceva affondare non appena toccavano l’acqua.

Analogamente, nel continente americano si era verificata l’emigrazione in massa dei poveri dagli Stati Uniti e dal Canada semisommersi verso la prosperosa America Latina.

I più insofferenti nei confronti degli immigrati nordici affermavano di non voler contribuire con le tasse al mantenimento di quei bighelloni nullafacenti o facenti lavori che rallentavano lo sviluppo dell’occupazione locale (la diffusione della macchina per l’impollinazione avrebbe consentito l’assunzione di molti giovani tecnici).

Quell’estate l’attenzione della gente e delle autorità fu distolta dai problemi dell’emigrazione e catturata dai microinsetti, che si moltiplicavano con velocità sorprendente: qualcuno sosteneva, non si sa in base a quali conteggi, che il loro numero raddoppiava ogni quattro giorni; questo dato non è mai stato confermato.

Molti scienziati si convertirono all’entomologia e, nelle interviste televisive, presentati come “il famoso esperto di insetti”, davano spiegazioni che sarebbero risultate più utili se avessero tenuto conto del principio di non contraddizione.

Le nuvole nere passavano attraverso le maglie delle zanzariere, entravano in casa, si depositavano sulle pareti, sui mobili, sui letti, sul pavimento, su noi stessi.

Non lasciavano buchi su di noi: non ci uccidevano. Dopo pochi minuti si risollevavano e s’infilavano attraverso la finestra, che intanto avevamo aperto; bastava una doccia per toglierci di dosso la sensazione angosciosa di essere stati completamente ricoperti da migliaia, forse milioni, di minuscoli insetti.

Quando la nuvola entrava in casa mettevamo gli occhiali da subacqueo (qualcuno era così terrorizzato da non toglierli mai, neanche quando mangiava, o a letto, mentre dormiva); chiudevamo la bocca, aprivamo le finestre e accendevamo la luce, come ci era stato consigliato nei programmi televisivi, perché, dicevano gli esperti, i microinsetti amano il buio e, dopo avere assorbito la clorofilla depositata sulla pagina superiore delle foglie, cercano un posto al buio per elaborare le sostanze di cui si nutrono.

Non bastava lasciare la luce accesa, giravano per la casa alla ricerca degli spazi meno illuminati.

Aprendo le finestre, facendo entrare la luce dall’esterno, illuminando con una torcia gli angoli dove la luce arriva con difficoltà (sotto il letto, sotto i mobili, nei cassetti, fra le pagine dei libri, nei ripostigli pieni di roba accatastata), dopo un po’ vedevi la nuvola sollevarsi dal pavimento, dal soffitto, dai mobili, dal nostro corpo e da quello dei nostri famigliari e dirigersi verso le finestre, tornare all’aperto alla ricerca di piante o di posti bui. Bastava aspettare con calma, senza farsi prendere dal panico.

Difficile era convincere i bambini a restare fermi, immobili, ad aspettare. A volte piangevano (le lacrime non erano trattenute dagli occhiali: non appena rigavano il viso, gli insetti si precipitavano a succhiarle), o si agitavano (gli insetti gradivano restare fermi sui corpi in movimento).

Gli esperti televisivi ci consigliavano vivamente di non tenere animali in casa, perché era impossibile farli stare immobili. I cani, i gatti, i coniglietti, i criceti furono abbandonati in massa, senza causare, per fortuna, il temuto aumento del randagismo.

Le gabbie dei canarini furono aperte e i loro padroncini, o i vecchi pensionati, salutavano con la mano gli uccellini mentre, svolazzando smarriti fuori dalla finestra, erano catturati dalla nuvola e non ne uscivano più. Come ho detto, agli insetti piaceva depositarsi sugli oggetti in movimento.

Per strada vedevi le macchine tutte dello stesso colore grigio scuro; i tergicristalli si muovevano lentamente, consentendo ai guidatori una visuale approssimativa; al semaforo rosso il cofano riacquistava il colore originale, tranne le stanghette del tergicristallo: coprendosi di insetti, si scurivano, si ingigantivano, poi si bloccavano.

A questo punto il guidatore spegneva il motore. Nell’automobile restavamo immobili, muti. Spiavamo la luce attraverso i finestrini laterali, col cuore sospeso, pieni di paura. Dopo qualche minuto, che ci sembrava eterno, la nuvola abbandonava i tergicristalli. Il guidatore girava la chiave per riaccendere il motore, inutilmente se il tubo di scappamento non era stato protetto con gli appositi filtri, assai costosi, messi in commercio dalle case automobilistiche.

Davvero agli insetti piaceva viaggiare sugli oggetti in moto: finché c’era movimento non li mollavano. Non si usavano più i veicoli a due ruote, dopo lo spettacolare incidente registrato dalle telecamere di sicurezza sull’autostrada, causato da una moto trasformata in un’enorme palla rotolante.

Non si facevano più le belle passeggiate di una volta.

Gli esperti televisivi ripetevano: se siete catturati, non vi agitate, non drammatizzate, non fatevi prendere dal panico: restate fermi, immobili; gli insetti, dopo un po’, se ne andranno e vi troverete fuori della nuvola.

I pesciolini rossi erano stati buttati nei fiumi, che avevano cambiato colore, erano diventati una massa scura, formicolante di puntini, fra i quali la luce stentava a penetrare.

Secondo le analisi dei tecnici, l’acqua dei fiumi, dei laghi, dei mari, fino a una profondità variabile, conteneva più di, più di … un numero enorme di insetti per centimetro cubo.

I tecnici avevano perso il conto; chi diceva centomila, chi diceva un milione, chi restava per ore a fissare la provetta contenente un centimetro cubo di acqua di mare, o di fiume, o di lago, o dell’acquedotto municipale, attraverso una lente d’ingrandimento che mostrava un formicolio di puntini neri; ogni tanto cominciava a contare, s’interrompeva, si guardava intorno smarrito, disperato, ricominciava daccapo, s’interrompeva di nuovo, lo sguardo perso nella lente d’ingrandimento.

Qualcuno provava ad applicare un calcolo statistico, ma non si era riusciti a isolare uno dei microinsetti, a pesarlo da vivo. Quando moriva diventava un puntino microscopico che si confondeva con le impurità presenti nell’acqua. I microinsetti pesavano pochissimo; non si riusciva a misurare la differenza di peso, che pure doveva esserci, tra un centimetro cubo di acqua scura, brulicante di insetti, presa in superficie, e un centimetro cubo della stessa acqua prelevata in profondità, dove sembrava che gli insetti non arrivassero.

Gli esperti suggerivano di portare a ebollizione l’acqua che usciva dai rubinetti e di filtrarla, operazione noiosissima e costosa – non bastavano i filtri normali, bisognava comprare filtri di un materiale speciale, dotati di maglie strettissime, attraverso le quali l’acqua passava goccia a goccia e non sempre priva di insetti. Impiegavo un’ora per riempire il fondo di un bicchiere, eppure aspettavo, poi bollivo e aspettavo che raffreddasse; avevo in odio la possibilità di ingerire, con l’acqua, gli insetti, anche se ci avevano assicurato che l’ambiente acido nello stomaco li avrebbe rapidamente uccisi. L’idea che qualcuno di quei mostriciattoli potesse sopravvivere e mettersi a passeggiare dentro di me mi faceva vomitare. Qualche esperto asseriva che gli insetti ingeriti avrebbero fornito amminoacidi utili, altri opponevano la struttura ancora sconosciuta delle proteine che li costituivano, trovate intatte, non digerite, nelle feci di tutti gli individui sottoposti a controllo.

Gli scienziati non erano riusciti a ricostruire il genoma di questa mutazione, che restava sostanzialmente sconosciuta.

Gli insetti si trovavano benissimo nell’acqua e si allontanavano da essa solo per andare in cerca delle foglie, di cui erano ghiotti.

Le prime a sparire erano state le alghe. Gli scienziati, all’inizio, avevano interpretato favorevolmente questo segno. Si sa che la proliferazione incontrollata delle alghe nei laghi e nei mari, nel periodo estivo non si era mai realmente interrotta. Le alghe si nutrivano delle sostanze scaricate in acqua dai natanti, dagli scarichi industriali e fognari, si moltiplicavano senza controllo, morivano, si decomponevano, rendevano puzzolenti le spiagge a vocazione turistica, causando gravi danni all’industria della balneazione.

Ricordo il volto raggiante della giornalista, nel telegiornale, quando disse: «L’Istituto ecologico planetario (PEI: Planetary Ecology Institute), a seguito di un’indagine approfondita, ha confermato la buona notizia trapelata a inizio stagione: l’impegno profuso per risolvere il problema della proliferazione delle alghe nel periodo estivo ha dato, finalmente, risultati che sembrano definitivi. Le alghe sono definitivamente scomparse».

Calcò la voce su “definitivi” e, prima di “definitivamente”, fece una breve pausa per sottolineare l’importanza del risultato ottenuto. Subito dopo il ministro dell’ambiente si affrettò a ricordare che questo era un obiettivo che il suo partito aveva messo al primo posto nell’ultima campagna elettorale e concluse con lo slogan che l’aveva portato a vincere le elezioni: “Noi siamo coerenti, manteniamo le promesse”.

Gli esperti di comunicazione del ministero realizzarono un video che fu trasmesso in continuazione su tutte le reti televisive.

Nel mare, di notte, una massa mostruosa, priva di forma; s’ingrandisce, conquista la spiaggia; dettaglio: le alghe; secondo dettaglio: volti terrorizzati; terzo dettaglio: bambini in fuga; campo lungo: alle prime luci dell’alba, come il vampiro Nosferatu, l’ammasso di alghe si dissolve lentamente; sul mare sorge il sole: il nuovo giorno.

Un video bellissimo.

Non si era capito, ma è naturale, trattandosi di un fenomeno inedito, che i piccolissimi insetti, dopo avere distrutto le alghe, si sarebbero rivolti alle piante come fonte della clorofilla, l’unica sostanza di cui, apparentemente, si nutrivano.

Gli animali di taglia media e grande erano spariti da tempo. Con l’invasione degli insetti cominciammo a disabituarci alla presenza degli animali da compagnia. Poiché non partecipavano alla nostra vita, li vedevano solo in televisione, gli animali con i quali avevamo da sempre convissuto sparirono dalla coscienza; quasi senza accorgercene li dimenticammo: più lentamente, e con un po’ di malinconia, gli anziani, velocemente i bambini, che li avevano conosciuti per poco tempo.

I disegni nei libri per l’infanzia, i giocattoli, non avevano più la forma di animali; i peluche riproducevano piccoli bambini pelosi, realizzati per abituare le famiglie allo sviluppo di una folta peluria, che cominciava a manifestarsi circa un mese dopo la nascita in un certo numero di neonati, un piccolo numero, ma in aumento. I peli si sviluppavano sulle guance, sulla fronte, sulle braccia, sulle gambe, sul petto.

Di questo fenomeno non si era trovata una spiegazione definitiva; qualche scienziato riteneva fosse un buon segno, perché i bambini pelosi erano sani e mentalmente attivi, precoci, dotati di buone capacità di apprendimento. Commendevole impegno era stato profuso per evitare forme di discriminazione ai danni di questi bambini e per far sì che gli altri, e le famiglie in genere, si abituassero alla loro presenza.

Gli scienziati aspettavano che crescessero, per cercare di capire quali potenzialità avrebbe espresso questa tendenza. Alcuni la vedevano in positivo. I creazionisti attribuivano a Dio l’intenzione di dotarci nuovamente dei peli abbondanti che ci aveva dato in origine e avevamo perduto per l’abitudine acquisita di sottrarre la pelliccia agli animali. Ricordo l’opinione categorica espressa da Edoardo Teller, capo dipartimento del Ministero della ricerca, che mi capitò di intervistare in quel periodo: «Stiamo studiando il fenomeno, però le posso anticipare che un fatto è fuori discussione: Dio ci preferisce coperti di peli, come ci ha creati».

In attesa di una teorizzazione convincente, si cercava di rendere popolari i bambini pelosi, di convincere i genitori ad accoglierli considerandoli quasi una fortuna; i pediatri e i dermatologi erano invitati a non medicalizzare il problema, a non avviare tentativi di eliminazione alla radice dei peli. Era in corso di realizzazione una serie televisiva con protagonisti due amichetti, uno peloso che aiutava l’altro, privo di peli, a uscire da situazioni pericolose.

«Da grande mi farò crescere la barba, per essere almeno un po’ come te», era la battuta prevista dalla sceneggiatura a conclusione di ciascuna puntata, pronunciata, ovviamente, dal bambino privo di peli; seguiva un’allegra risata degli adulti presenti e dell’altro bambino; musica, titoli di coda.

Degli insetti impollinatori si è detto: erano stati sostituiti ricorrendo alla impollinazione artificiale con spazzolini manovrati dagli immigrati poveri del nord del mondo, e utilizzando tecniche antiche come la clonazione.

La gente era contenta di vedere le file di mele, di pere, di susine, di arance, di albicocche, tutte uguali, pulite fuori e dentro, tanto da poterle mangiare senza lavarle, con la buccia, in ogni stagione. Naturalmente era venuta meno la molteplicità dei cultivar utilizzati nei tempi antichi, fonte di confusione per i produttori e per i consumatori. Era stata selezionata una sola varietà per ogni specie di pianta da frutto, scelta per le sue proprietà organolettiche. Non c’era più la complicazione antica, parlando di mele, per esempio, di dover specificare: Renetta, Golden Delicious, Stark Delicious, Granny Smith, Fuji, Annurca, eccetera; dal fruttivendolo bastava dire: «un chilo di mele»; ci s’intendeva immediatamente.

Una sola variante per ogni pianta fruttifera: molto più semplice, pratico, efficiente.

Le fragole erano belle, grosse, quasi insapori, ma salutari, prive di quelle sostanze nocive che ci avevano angosciato nei tempi antichi, quando erano coltivate in aperta campagna o nelle serre irrorate continuamente con sostanze velenose. La pubblicità insisteva soprattutto sull’assenza dei disinfestanti e dei loro residui, da quando la frutta non era più prodotta in campagna ma in grandi laboratori chiusi in cui anche l’aria era controllata e le piantine, dopo essere state spazzolate dagli immigrati impollinatori, erano seguite in tutte le fasi dello sviluppo e della produzione dei frutti con sistemi automatici.

Ci eravamo liberati delle galline: gli scienziati erano riusciti a rifare, con una macchina, l’apparato riproduttore, ottenendo il primo uovo artificiale della storia (premio Nobel alla equipe cinese, guidata dal mitico professore Ciù En Lai).

Le uova prodotte con questa macchina non avevano esattamente il sapore che alcuni di noi ricordavano – la frittata, soprattutto, non veniva tanto bene – ma, tutto sommato, potevano piacere, erano prive di colesterolo e non ci facevano correre il rischio dello stafilococco e delle altre infezioni intestinali diffuse dalle uova antiche non ben lavate e disinfettate. Si potevano mangiare tranquillamente, fornivano proteine ed erano particolarmente adatte a un pasto rapido.

In realtà tutti i pasti erano rapidi, si consumavano in fretta, senza il fastidio di preparare la tavola, disporre i piatti, le posate in un certo modo. Data la composizione dei pasti, l’unico utensile da tavola, oltre al piatto, che continuavamo a utilizzare, era il cucchiaio, un po’ più largo degli antichi: si trattava, generalmente, di prelevare dal piatto cucchiaiate di una specie di minestrone e portarle alla bocca. Di solito il pasto finiva dopo due, tre cucchiaiate, che ognuno faceva per conto suo e servivano a placare la fame. Anche la bistecca si mangiava in questo modo, sbriciolata in un sugo al gusto di pomodoro pachino (l’unica varietà sopravvissuta). Si trattava, ovviamente, della bistecca artificiale, un’invenzione che risaliva all’altro secolo e ci aveva liberati dai pascoli e dai gas nocivi emessi attraverso tutte le aperture dalle mucche, dalle pecore, dalle capre, dai maiali; su questo punto insisteva molto, nella pubblicità, la multinazionale che si era accaparrato il brevetto. Mangiavamo solo sostanze prodotte da industrie che davano lavoro a milioni di persone.

Il grano era stato eliminato dall’alimentazione (sappiamo quali problemi ha causato per secoli: obesità, diabete, celiachia). I carboidrati semplici erano ricavati dai frutti, che avevano tutti lo stesso sapore, ma erano salutari; disidratati, polverizzati, venduti in bustine, erano usati come dolcificanti nel caffè, nel tè, nella cioccolata, nei gelati. Partendo dai combustibili fossili gli scienziati avevano ottenuto la caffeina, la teina, il cacao e la vanillina, la molecola responsabile dell’aroma di vaniglia; la possibilità di utilizzare la vanillina estratta dal petrolio al posto di quella estratta dalla pianta per dare ai dolci e ai gelati il sapore della vaniglia era stata scoperta e ampiamente utilizzata nel lontano 1900.

Gli stessi carboidrati semplici, ricavati dai frutti, erano assemblati per formare i carboidrati complessi e ottenere spaghetti, pasta, riso, pane, patate. Tutti artificiali, compreso il riso, comprese le patate.

Il sapore era più o meno sempre lo stesso, ma non creavano problemi ai celiaci, a chi soffriva di allergie o di disturbi alimentari; non spingevano a un consumo eccessivo: ognuno ne mangiava il minimo indispensabile, attenendosi alle tabelle dietetiche, anzi tenendosi sotto ai valori prescritti in base all’attività svolta e all’età. Il problema dell’obesità era sparito da tempo, insieme ai campi di grano: si mangiava poco e velocemente, per dedicarsi ad attività più piacevoli, come … come, per esempio, il karaoke.

Nota dell’editore

– Per evitare accuse di plagio, che coinvolgerebbero autore ed editore, si dichiara che l’incipit di questo capitolo è ispirato al famoso inizio di un famoso romanzo di uno scrittore che in tempi antichi è stato assai famoso. Come questo romanzo sia pervenuto all’autore, data la sua abissale ignoranza, è un mistero – Fine della Nota

Tra le torri che costituiscono il panorama delle nostre città, ve n’è una per la quale ciascun abitante è passato almeno una volta nella vita: la Torre Ospedaliera.

In questa torre fu ricoverata la signora Rosalina Cellamare quando la gravidanza raggiunse il nono mese, per un parto che si prevedeva non privo di difficoltà, data l’età della signora.

Sebbene non sia disposto a sostenere che nascere da una madre anziana e da un padre che non ti desidera costituisca, in sé, un caso invidiabile e fortunato, devo ammettere che le difficoltà incontrate da Maximilian per portare a compimento la spinta naturale a trasformarsi gradualmente da cellula uovo fecondata a morula, poi a embrione, a feto e, infine, a neonato, sono nulla in confronto agli ostacoli che un altro essere umano si era trovato ad affrontare per svolgere lo stesso percorso, molti, molti anni prima, in un Ospizio per i poveri di Londra.

Venuto al mondo, Oliver (chi cazzo è?) aveva trovato solo una vecchia alcolizzata e un letto sporco; invece per Maximilian ci fu tutta l’assistenza a cui un nuovo essere che si accinge a farsi largo in questo mondo possa aspirare: dottori e infermieri pronti a intervenire, esami clinici rigorosi per prevenire qualunque pericolo per il feto, per il neonato, per la madre.

Come Oliver (ancora? Ma chi è?), Maximilian era motivato da una straordinaria voglia di vivere, che gli consentì di ignorare la sensazione sgradevole di non essere desiderato che gli arrivava attraverso le pareti dell’utero materno quando nella stanza entrava quell’uomo e chiedeva, con un tono di voce fintamente preoccupato: «Va tutto bene?».

In realtà il dottor Spock desiderava che qualcosa andasse storto e impedisse la nascita del bambino senza compromettere l’apparato genitale della madre, che si era dimostrato così utile per le sue pratiche igieniche.

In questo periodo scoprì che l’apparato riproduttivo esterno, e in parte interno, di Rosalina, oltre a essere utile, gli era necessario in quanto non era facile trovare un sostituto.

Ci aveva provato con la signorina che riceveva i clienti nello studio, appoggiandole improvvisamente una mano sul seno e ricevendo un vigoroso diniego, dal quale il dottor Spock aveva desunto un’idea precisa, anche se ipotetica, riguardo all’orientamento sessuale della ragazza. La supposizione diventò certezza quando ci provò di nuovo, spostando l’attenzione e l’appoggio sul sedere; fu allontanato con un sonoro ceffone in pieno viso, seguito dalla minaccia di una denuncia.

Il dottor Spock non capiva che qualunque donna, indipendentemente dalle preferenze sessuali, avrebbe reagito ai suoi modi bruschi e troppo diretti esattamente come aveva reagito la ragazza.

Un tentativo con una paziente, anch’esso non riuscito, determinò un po’ di trambusto nello studio e lo convinse a desistere.

Il dottor Spock non aveva mai corteggiato una donna e non era tipo da impegnarsi in una ricerca lunga e laboriosa. Tantomeno aveva voglia di frequentare i luoghi d’incontro dei giovani, dove, peraltro, si cercava amicizia, affetto, qualcuno da tenere per mano, con cui cantare al karaoke.

Si è detto che la spinta sessuale, negli ultimi decenni, si era molto ridotta tra i giovani.

Gli adulti s’incontravano poco al di fuori dell’orario di lavoro, generalmente erano sposati o abituati a vivere da soli. Quando due persone di età giovanile avvertivano il desiderio di vivere insieme, si sposavano e, da quel momento, l’attività sessuale era incanalata in una specie di liturgia fatta di baci, carezze, giochi; ogni tanto, ma raramente, erano coinvolti gli organi sessuali.

Il dottor Spock era estraneo a tutto questo.

Apparteneva a un’altra generazione; conservava un genuino interesse per l’attività sessuale, anche se la viveva come qualcosa di intermedio tra un fatto idraulico e una misura igienica. Per lui il sesso era l’attività che da sempre aveva praticato con la moglie. Nessun corteggiamento, nessuna tenerezza, niente preliminari; una specie di pompaggio, come se con il movimento avanti e indietro dell’organo eretto dovesse gonfiare il copertone di una ruota. Non si era mai posto il problema del piacere di Rosalina: non era affar suo.

In realtà non si poneva neanche il problema del proprio piacere. Per lui, fin da giovane, l’orgasmo era un guizzo, uno sfogo, l’allentamento di una tensione dopo averla portata al massimo, il piacere di eliminare una roba che, evidentemente, non doveva restare dentro. Con l’avanzare dell’età si era aggiunto l’uso delle pillole, prima per agevolare, poi per rendere possibile l’erezione.

Avrebbe potuto risolvere il problema ricorrendo a quello che nei libri di storia era definito “il mestiere più antico”, ma quel mestiere non si praticava più da tempo: i professori facevano fatica a spiegare e a far capire ai ragazzi che cosa, anticamente, alcune donne vendevano e per quale motivo gli uomini le pagavano.

Aveva anche pensato di procurarsi una bambola gonfiabile. Se ne era dissuaso dopo avere scoperto che l’acquisto doveva avvenire via internet. Le bambole erano unicamente prodotte e distribuite in Giappone, dove le vestivano da geishe per utilizzarle nella cerimonia del tè. Gli acquisti su internet erano registrati e finivano in un elenco a disposizione della polizia; si rischiava di essere inseriti fra gli individui con tendenze particolari, ai quali era impedito ogni avanzamento di carriera.

La nascita del figlio continuava a creare problemi al dottor Spock.

Rosalina era rinata.

Non aveva più l’aria che tutti definivano signorile, altera, ma che, in realtà, era depressa, lugubre. Le aveva fatto bene la liberazione provvisoria dall’obbligo di allargare le gambe una volta alla settimana, di sentire quell’uomo freddo, privo di dolcezza, penetrare nel suo corpo; quell’uomo che non aveva mai pensato a una carezza, a un bacio, a un minimo gesto di tenerezza.

Era contenta di nutrire un nuovo essere che sentiva crescere dentro di sé e non le importavano gli sproloqui del dottor Spock: la necessità di migliorare la razza, le direttive che, senza volere, avevano violato, il pericolo di far crescere un bambino ribelle, dotato di un basso quoziente intellettivo.

A Rosalina quei discorsi non importavano; non era abituata a interloquire quando parlava il marito, non lo contraddiceva mai, però, in cuor suo, gli diceva cose che non aveva mai pensato prima. Fra sé e sé ridacchiava quando sentiva il dottor Spock, esasperato, arrivare a prendersela con gli scienziati dell’Ente per la procreazione, che non l’avevano avvertito.

Lei, invece, pensava: quei tromboni pretendono di dominare la natura, di ingabbiarla dentro alle loro regole e si trovano continuamente a scoprire eccezioni.

Era questa l’idea che gli scienziati avevano voluto evitare di diffondere, il motivo della decisione di non rivelare il fenomeno che aveva portato al concepimento di Maximilian, un fenomeno abbastanza limitato, in attesa di trovare una spiegazione convincente.

La coincidenza di interessi tra gli scienziati dell’Ente per la procreazione e il dottor Spock gli consentì di non far conoscere con certezza ai vicini di casa, ai colleghi, ai clienti, il modo in cui il figlio era stato concepito, di lasciare un margine di dubbio.

Purtroppo, però, non era possibile cancellare il trattino basso dall’Anagrafe Profonda, nella quale i dati erano inseriti da sistemi di intelligenza artificiale non controllati dall’uomo. Era un cruccio continuo per il dottor Spock, anche perché sapeva che erano allo studio sistemi per la segregazione degli individui nati con il metodo antico e temeva di essere messo, in futuro, di fronte alla palese falsità delle spiegazioni che aveva fornito in giro.

Insomma, un bel casino.

Fortunatamente, l’aumento del numero dei suicidi, non compensato da un corrispondente aumento delle nascite, contribuì a distrarre l’attenzione dei governanti e degli scienziati dalla mancata crescita del quoziente intellettivo medio delle nuove generazioni.

Ma un altro, più immediato problema, spuntò all’orizzonte.

Dopo avere distrutto le alghe, gli insetti, rimasti a corto di sostanze nutritive, avevano cominciato a dirigersi in massa verso le piante, in particolare verso le maestose conifere che, dopo l’assalto, restavano prive di foglie e seccavano. Dopo un po’ le radici cominciavano a marcire, non riuscivano a reggere il peso della pianta, la pianta crollava, causando, a volte, gravi danni.

Il numero degli insetti aumentava: ormai non c’era fiume, lago, mare, oceano che non presentasse quelle larghe macchie nere in superficie che si estendevano fino ad alcuni metri di profondità.

Di giorno la luce del sole faceva fatica a farsi strada tra le nuvole dense di puntini neri, sospese nell’aria o avvinghiate ai cipressi, ai pini, alle querce, alle robinie, ai tigli, agli olmi, agli olivi selvatici (i frutti erano prodotti da bonsai coltivati in laboratorio).

Le terre emerse stavano per precipitare in una notte senza fine; solo in mare era possibile avvertire l’alternanza tra il giorno e la notte in quanto gli insetti invadevano la superficie delle acque ma lasciavano libera l’aria soprastante.

Nei primi tempi la nuvola si depositava su tutte le piante, grandi o piccole che fossero, e sui prati, soprattutto su quelli più rigogliosi di fili d’erba. Si notò che i prati e gli arbusti, nonostante fossero stati ricoperti da un numero enorme di insetti, ne uscivano indenni, non subivano danni, come gli uomini e gli animali (questi, tuttavia, rimanevano prigionieri della nuvola fino a quando la morte li immobilizzava). Le piante di alto fusto perdevano le foglie, seccavano, crollavano.

Furono condotte indagini approfondite; grazie all’intuizione di un giovane ricercatore americano, Gaspar Esposito, di origine italiana, si stabilì che la clorofilla delle piante di alto fusto è legata ai carotenoidi (i pigmenti che si mettono in evidenza nelle foglie quando seccano), mentre le piante piccole e l’erba sono prive di carotenoidi. Si avanzò l’ipotesi che fossero i carotenoidi, non la clorofilla, le sostanze cercate dagli insetti.

Quest’ipotesi trovò conferma quando si accertò che alcune specie di alghe, prive di carotenoidi, erano sopravvissute alla distruzione operata dagli insetti.

Sembrava che queste alghe avessero tratto giovamento dalla situazione in quanto tutti i loro competitori, animali e vegetali, erano stati eliminati. Si erano sviluppate in maniera assai rigogliosa sulla superficie delle acque (la luce non arrivava in profondità); addirittura sembravano in competizione con i microinsetti.

Fra le macchie scure che ricoprivano la superficie dei mari si vedevano ampie distese di alghe verdi, che facevano un bel contrasto, molto apprezzato dagli artisti, in particolare dai fotografi e dai videoamatori.

Era dunque assodato che gli insetti cercavano i carotenoidi nelle foglie delle piante di alto fusto.

Quando Gaspar Esposito – insieme ai collaboratori: Mel Stuart e Baldassar Bembo – presentò le conclusioni della ricerca, corredate da una nutrita serie di misurazioni, di immagini e video dei diversi ambienti in cui si era sviluppata, un applauso spontaneo si alzò dai compassati componenti dell’Istituto planetario della scienza (PSI: Planetary Science Institute).

Il direttore dell’Istituto si alzò e, dopo avere elogiato il giovane e la sua equipe, unì i tre scienziati in un lungo, commovente abbraccio e annunciò la sua intenzione di proporre all’Accademia svedese (si riuniva a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana) di conferire il premio Nobel per la biologia ai valenti ricercatori.

Nella mente di tutti gli scienziati presenti, nessuno escluso – si trattava degli uomini e delle donne fornite del più alto quoziente intellettivo nell’intera popolazione – apparve subito la soluzione del problema che stava angosciando il mondo: la moltiplicazione incontrollata dei feroci piccoli insetti (destructive micro insects).

Fino a quel momento l’uso degli insetticidi, anche dei più pericolosi, sparsi abbondantemente sulle macchie scure, non aveva sortito alcun effetto; anzi le nuvole sembravano uscire da quell’immersione nelle sostanze tossiche, letali per tutti gli altri viventi, ancora più energiche e, direi quasi, baldanzose di prima. I microinsetti erano resistenti a tutti i veleni conosciuti in quanto presentavano un metabolismo inedito, mai riscontrato prima in alcun essere vivente.

La soluzione del problema, semplice, come tutte le idee scientifiche importanti, consisteva nell’eliminazione di tutte le piante di alto fusto presenti sul pianeta.

Dal momento che i microinsetti distruggeranno le piante di alto fusto – ragionavano gli scienziati – dopo avere causato problemi crescenti alla popolazione per la loro moltiplicazione esponenziale, se eliminiamo l’unica fonte di carotenoidi riusciremo ad anticipare l’estinzione degli insetti.

Idea semplice, lineare, perfettamente coerente con la logica di quelle menti eccelse.

Nonostante l’atteggiamento rigoroso che caratterizza gli scienziati, abituati a far prevalere il ragionamento sull’emotività, bisogna dire che l’immagine di quei pestiferi micro scassatori di cabasisi, alla ricerca disperata dei carotenoidi, rallegrava più di uno, costretto a rimandare le ferie per affrontare un problema che, fino a quel momento, sembrava lontano dalla soluzione. Su una lavagna del severo Planetary Science Institute apparve un disegno che rappresentava un piccolo mostriciattolo baffuto (i microinsetti erano provvisti di ciglia vibratili) che si guardava intorno con aria abbattuta, mentre dalla sagoma saltellante di un uomo in camice bianco usciva una nuvoletta con la scritta: «È inutile cercare i carotenoidi. Non ci sono più, non ci sono più» e alcune note musicali disegnate accanto. L’uomo in camice bianco non solo ballava, ma aveva il braccio destro piegato e la mano sinistra appoggiata al gomito nel caratteristico gesto dell’ombrello.

Si trattava, evidentemente, dello scherzo goliardico di uno studente, ma faceva capire il clima di tensione che si era vissuto nell’istituto.

La scritta rimase sulla lavagna per diversi giorni, prima di essere cancellata, con un sorriso, dal professore di Analisi matematica superiore (Master di specializzazione per laureati) e sostituita da un elenco di numeri da un milione a un milione e cinquecento, che il professore scrisse con precisione e gli studenti ricopiarono diligentemente e cercarono, successivamente, di memorizzare.

Si avviò, dunque, un piano di abbattimento delle piante di alto fusto su tutto il pianeta.

Per convincere la gente della necessità di un intervento così drastico, gli esperti di comunicazione del ministero dell’ambiente realizzarono un video, trasmesso in continuazione su tutte le reti televisive.

In un bosco, di notte, intorno agli alberi di alto fusto, una massa mostruosa, priva di una forma definita; la massa s’ingrandisce sempre di più; dettaglio: i microinsetti; secondo dettaglio: volti terrorizzati; terzo dettaglio: bambini in fuga; campo lungo: ruspe al lavoro abbattono gli alberi; alle prime luci dell’alba, come il vampiro Nosferatu, le nuvole di insetti si dissolvono lentamente; sulla landa deserta sorge il sole: il nuovo giorno. Un video bellissimo.

Nelle aree in cui le piante erano numerose si utilizzarono bulldozer; dove ce n’erano poche: motoseghe. Nelle foreste e nelle zone montagnose, per affrettare i tempi, si procurarono incendi controllati, dopo avere verificato l’assenza di esseri viventi – in realtà solo di uomini, perché gli animali erano spariti da tempo – e convinto, con le buone o con le cattive, alcuni personaggi classificati come originali e anomali a desistere dalla protesta, che consisteva nell’arrampicarsi sugli alberi di alto fusto per impedirne la distruzione. Quando i ribelli in procinto di manifestare si accorsero che l’incendio era avviato nonostante la presenza dei contestatori sui rami più alti, e videro i lanciafiamme pronti per essere usati al posto degli idranti, la protesta rapidamente si spense.

I tentativi di opposizione furono rari; la massa della popolazione era abituata ad accettare le decisioni delle autorità scientifiche ed era distratta dalle ultime fasi del campionato di calcio planetario, lo sport più popolare, che si giocava rigorosamente al chiuso e combinava le regole del calcio europeo con quelle del football americano.

Utilizzando un sistema satellitare, si faceva arrivare negli stadi vuoti la voce dei tifosi proveniente da ogni casa, cosicché ognuno cercava di urlare il più possibile, sperando di riuscire a distinguere la propria voce nell’urlio generale. Dalle case partivano boati che sovrastavano qualunque rumore, rendendo in quelle ore impossibile la circolazione nei centri abitati: i guidatori perdevano l’orientamento e andavano a sbattere contro i muri. In un caso si era verificato un incidente aereo, dovuto al vuoto d’aria prodotto dalle urla di un’intera città che l’aereo stava sorvolando proprio mentre la squadra locale segnava una meta – goal.

Nei momenti di pausa alcuni lanciavano frasi divertenti o espressioni colorite negli stadi vuoti, raggiungendo il massimo della soddisfazione se riuscivano a provocare una reazione degli altri spettatori a distanza: una risata, uno scroscio di applausi, anche urli di disapprovazione. Un sistema automatico traduceva le frasi sullo schermo del televisore nella lingua scelta e provvedeva alla censura delle espressioni sconvenienti o non attinenti alla partita.

Quel pomeriggio sembrò il più adatto per l’abbattimento degli alberi di alto fusto nelle aree verdi vicine alle case. Si rimandò alla notte successiva l’incendio programmato delle foreste e dei boschi nelle zone montagnose.

L’operazione fu portata a termine con efficienza; gli incendi durarono alcuni giorni e non sempre si riuscì a controllarli; alcuni villaggi sperduti, con tutti gli abitanti, furono distrutti dal fuoco.

Dopo una settimana sulla Terra non esistevano più i giganteschi alberi preistorici, veri e propri fossili viventi. Una grande malinconia invase le torri, dove gli uomini cominciavano a domandarsi: dove arriveremo?

Alla televisione si spargeva ottimismo.

Furono riprese le nuvole di microinsetti che giravano impazzite, a conferma della teoria del brillante Gaspar Esposito, perdevano energia, si abbattevano al suolo, si dissolvevano, come il vampiro Nosferatu nel film di Murnau.

Era inquadrata l’acqua dei fiumi, dei laghi, dei mari, degli oceani: acqua azzurra, acqua chiara; con le mani si poteva finalmente bere, come cantava un’antica litania religiosa, di origine sconosciuta. Sul mare, rigogliose, le belle estensioni di alghe verdi.

Sorgeva il sole. Da tempo sulle terre emerse si era intravisto con difficoltà, riuscendo a distinguere il giorno dalla notte solo con un’applicazione sullo smartphone.

Nei commenti degli esperti televisivi, degli opinionisti, dei tuttologi, degli scienziati, dei ministri, si ripeteva con convinzione: «Un incubo ha attanagliato il nostro pianeta negli ultimi anni: il pericolo concreto di essere interamente ricoperto da una enorme nuvola di insetti. Grazie all’ingegno umano questo pericolo si è definitivamente allontanato».

Anche qui: prima di definitivamente, una pausa, per sottolineare il concetto.

Maximilian Spock era un bambino tenero, molto legato alla madre, che aveva fatto di tutto, fin dal primo giorno del trasferimento dall’ospedale al quinto piano di una delle torri più antiche, per proteggerlo dal marito.

Lei conosceva l’avversione, inutilmente mascherata, che il marito nutriva per quel bambino nato contro i suoi principi.

Dai discorsi ascoltati in precedenza, sapeva che il dottor Spock era favorevole alle misure più drastiche nei confronti di chi faceva figli col metodo antico e dei ragazzi che portavano in sé questo difetto di fabbricazione; considerava un dovere sociale manifestare sdegno nei confronti dei genitori e isolare i prodotti della loro disubbidienza alle regole della società.

Il bambino avvertiva l’astio del padre e si avvicinava alla madre ogni volta che lui entrava nel loro campo di azione. Tenendosi per mano si confortavano e si facevano forza a vicenda, perché non solo Maximilian aveva paura del dottor Spock, ma anche Rosalina.

Il giorno dopo il ritorno dall’ospedale il marito le disse: «Cara, per favore stenditi sul letto», senza guardarla negli occhi, come sempre, ma con un po’ di esitazione nella voce, perché erano passati molti mesi dal giorno in cui aveva dovuto interrompere le sue pratiche igieniche svolte con l’ausilio del corpo di Rosalina. Questa lunga interruzione, alla sua età, nonostante l’aiuto delle pillole, poteva essere fatale.

Lei finse indifferenza, in realtà dentro tremava: per la prima volta stava per opporre un rifiuto a quell’uomo incapace di amare, che da tempo non amava. Interruppe il lavoro a maglia che stava completando (una sciarpa e un cappuccio di lana per il bambino), alzò la testa senza guardarlo, rispose: «Mi dispiace, ho un forte mal di testa».

In quel momento entrambi arrossirono.

Il dottor Spock non insistette, soprattutto perché si era accorto che le pillole non avevano l’effetto di tanti mesi prima e, forse, il diniego da parte della moglie gli aveva evitato una brutta esperienza. Tuttavia non poté fare a meno di notare il cambiamento di atteggiamento della donna, la punta di sarcasmo apparsa nel suo sguardo e nel tono della voce.

Avvertì la sfida, che prima non esisteva o era ben nascosta.

Attribuì questo cambiamento della moglie al contatto con un esserino che non era nato in modo regolare e, probabilmente, conteneva i germi della ribellione all’ordine costituito, germi che si trasmettevano, per imitazione, a chi gli stava vicino. Decise di evitare ogni contatto con il figlio, tranne quelli strettamente necessari, e si convinse ancora di più dell’idea che aveva sempre sostenuto: i ragazzi nati in modo anomalo devono essere separati dagli altri, perché la loro influenza può essere nefasta, non solo sui coetanei ma anche sugli adulti, su tutti i componenti della famiglia, compresi i genitori.

Non poté, però, sostenere apertamente questa tesi, come faceva prima, per non darsi la zappa sui piedi nel caso quel “maledetto segno”, che registrava la verità sulla nascita del figlio, venisse, prima o poi, per un motivo qualsiasi, allo scoperto.

Dopo il secondo rifiuto, «Questo mal di testa non vuole passarmi!», capì che non c’era nulla da fare: Rosalina non era più la stessa.

Anche se avesse accettato il rapporto, se fosse stato possibile costringerla, obbligarla con le minacce, lei non sarebbe stata un oggetto, una schiava, il copertone di una ruota da gonfiare col suo organo eretto. Era diventata – la cosa lo spaventava – un essere umano autonomo; anche se si fosse sottomessa, i suoi occhi gli avrebbero trasmesso il disprezzo da cui lui non sapeva difendersi.

Il dottor Spock si accorse di avere perso interesse per il sesso e pose termine alle pratiche igieniche che aveva condotto con precisione prima che l’anomalia entrasse nella sua vita con la forza.

Quando il figlio, crescendo, cominciò a mostrare qualche segno di autonomia, ne fu profondamente offeso e s’impegnò per riportarlo all’ordine con urli che rivolgeva soprattutto alla madre. Da profondo psicologo, capace di leggere dentro gli altri per manovrarli, aveva capito che il modo migliore per dominare il ragazzo era colpire la madre; infatti riusciva sempre a raggiungere lo scopo.

La vita in famiglia divenne difficile.

Se Rosalina o, qualche volta, Maximilian, a una richiesta perentoria lanciavano un timido «Perché?», urlava, con gli occhi di fuori, al colmo dell’esasperazione: «Perché così dev’essere. Dio e le autorità così vogliono e così dev’essere». L’ironia che intravedeva nello sguardo di Rosalina era come un interruttore, faceva scattare la sua irritazione. Nei confronti di Maximilian non aveva bisogno dell’interruttore: era perennemente irritato.

Qualcosa era cambiato nel vecchio uomo d’ordine che non riusciva a tenere sotto controllo la sua famiglia. Gli sembrava che forze oscure tramassero contro la società e impedissero il naturale dispiegarsi delle benefiche energie liberate dalle disposizioni emanate dalle autorità.

Maximilian aveva sedici anni quando il dottor Spock si ammalò. Sembrava una cosa da nulla: una banale influenza.

Avrebbe dovuto fare i controlli di routine per verificare la presenza nella saliva della ennesima mutazione del Coronavirus (Covid-32750), che ogni tanto si presentava in una forma leggermente diversa e riusciva ad ammazzare un po’ di gente prima di essere scovato ed eliminato.

Ormai si conosceva tutto di questo virus narcisista (la corona era solo un abbellimento che usava per pavoneggiarsi e per farsi i selfie al microscopio elettronico). Si sapeva come distruggerlo, però il furbastro aveva escogitato un sistema per sopravvivere e far parlare di sé in televisione (oltre che narcisista era anche esibizionista).

Aggredito dal farmaco si trasformava un pochino: una zampetta un po’ più lunga, un disegnino leggermente diverso della corona, un nucleotide nell’RNA modificato na ‘nticchia. Di conseguenza il farmaco, che apparteneva alla categoria dei medicinali ottusi, non riusciva più a riconoscerlo. Quando si ripresentava bastava individuare la piccola variazione e modificare il farmaco. Questa operazione ormai si eseguiva in automatico: il primo contagiato doveva sottoporsi a un tampone; se risultava positivo, si inviava la foto elettronica segnaletica del virus mutato a tutte le volanti. Queste, sguinzagliate a cercare i possibili infetti con un sistema di tracciamento capillare, in poco tempo localizzavano il nemico e lo uccidevano.

Il dottor Spock non volle fare il tampone, nascose l’influenza, contagiò tutti i vicini di piano, i pazienti e la signorina che li riceveva, fino a quando fu individuata la variante da cui era stato colpito. Troppo tardi. Tutti i contagiati si salvarono, tranne lui.

Per un po’ ci si interrogò sul motivo che aveva indotto quest’uomo, sempre ligio e obbediente alle regole, a rifiutare il minimo controllo che l’avrebbe salvato. Da un biglietto che aveva lasciato sulla scrivania nello studio, prima di essere intubato, si capì che non si fidava dei medici. Sul biglietto era scritto: «Aiuto! Non usatemi come cavia!». Seguivano espressioni irripetibili rivolte ai suoi colleghi.

Morì in pochi giorni.

Solo due furono le vittime di quella mutazione del Coronavirus: l’altra era un medico di Shangai, che aveva lasciato un biglietto analogo sulla sua scrivania, però scritto in cinese.

Per Rosalina e per Maximilian fu una liberazione. Quell’uomo era veramente insopportabile!

Oltre all’astio perenne, ingiustificato, nei confronti del figlio, oltre alla pretesa di dominare la moglie, aveva delle fisime assurde.

Non tollerava di mangiare fuori orario. Se Rosalina tardava nella preparazione, anche di poco, cominciava a brontolare: «I succhi gastrici, i succhi gastrici!». Sembrava che i succhi gastrici, nel suo stomaco, avessero la sveglia, non potessero aspettare un minuto per cominciare a lavorare.

Non ammetteva che la moglie scambiasse due chiacchiere con i vicini. La povera donna era costretta a parlare di nascosto con gli estranei.

La domenica mattina si metteva in pigiama sul terrazzino a tracciare con fili e potature il percorso obbligato di una pianta rampicante che, secondo le sue intenzioni, avrebbe dovuto chiudere completamente allo sguardo il terrazzino limitrofo, sul quale ogni tanto si affacciavano un uomo anziano, una signora, due bambini che ostentatamente ignorava. Non riuscendo a raggiungere lo scopo – la pianta gli disobbediva, portandosi verso l’alto – la tagliò, la sradicò, la sostituì con un brutto pannello verde, coperto di foglie finte, che fissò in modo maldestro (non aveva agilità nelle dita e faceva paura, forse aveva paura anche lui, quando s’improvvisava chirurgo per piccoli interventi).

Una volta che Rosalina, incontrando per strada una signora anziana che abitava nella stessa torre, l’aveva gentilmente aiutata a portare la borsa della spesa fino all’ascensore, dove, sfortunatamente, aveva incontrato il marito che rientrava dallo studio un po’ prima dell’ora solita, l’aveva rimproverata per la sua cortesia affermando: «Sei una persona servile, ti metti al servizio di un’estranea per farti benvolere».

Gli capitava di trovare un calzino, verosimilmente appartenente a uno dei due bambini, portato dal vento sulla parte del terrazzino di sua competenza. Lo raccoglieva con dispetto e lo buttava nel secchio della spazzatura.

Odiava soprattutto il vecchio, che ogni tanto giocava con i bambini e cercava inutilmente di salutarlo. Questi tentativi, la ricerca del suo sguardo, quel sorriso melenso, l’intenzione evidente di stabilire rapporti cordiali o, perlomeno, civili, lo irritavano profondamente. Non sopportava l’idea che il vecchio potesse scambiare la sua aggressività per timidezza e pensasse di aiutarlo mostrandosi impermeabile ai suoi gesti bruschi, al suo atteggiamento scostante. Fra sé e sé pensava: che devo fare? Devo ammazzarti per farti capire che ti odio?

Quando era irritato cambiava espressione del viso, sguardo, postura. Gli piaceva l’idea di avere uno sguardo severo, di poter intimidire gli altri guardandoli in un certo modo. Credo che la mattina, davanti allo specchio, prima di uscire, controllasse di non avere un’espressione dolce, serena, che per lui era sinonimo di debole, perdente.

Se Rosalina gli disobbediva, anche su cose minime, tutto il suo essere esprimeva disapprovazione, infelicità e una punta di vittimismo: stai facendo soffrire un uomo che non lo merita, ma non la passerai liscia. Restava così, come una molla caricata, pronto a scattare; proiettava una sensazione di pericolo, di disastro incombente, fino a che raggiungeva lo scopo di imporre un comportamento, ma anche un atteggiamento interno, un modo di vedere le cose.

Non gli bastava essere obbedito, cercava di costringere l’altra persona a essere dentro come lui desiderava. Per questo non sopportava i vicini, perché non erano sotto il suo controllo. Avrebbe cambiato atteggiamento se gli si fossero rivolti come pazienti. In tal caso avrebbe risolto il problema imponendo, per la salvaguardia della salute del vecchio, della signora o dei bambini, la chiusura di quello spazio di comunicazione tra i due terrazzini.

Perché non lo chiudeva lui? Perché non chiamava qualcuno?

Non chiamava un operaio perché non amava avere estranei per casa. Sopportava il contatto con gli estranei solo nel suo studio, con i suoi pazienti, sui quali poteva dispiegare tutta la sua autorità. Cercava di risolvere il problema da solo, prima con la pianta, poi con il brutto pannello ricoperto di foglie di plastica che non era riuscito a fissare adeguatamente e lasciava passare le immagini attraverso gli spazi che il vento aveva cominciato ad allargare.

Dopo la nascita del figlio, quando era subentrata la paura che il suo segreto fosse scoperto, vedeva spie dappertutto e ancora di più pretendeva l’isolamento della sua famiglia dal mondo esterno. Controllava nascostamente i quaderni del bambino per verificare che le maestre non gli facessero domande sulla vita in famiglia, come se avesse qualcosa da nascondere, un delitto che gli altri volessero scoprire.

Se il bambino portava un amichetto a casa, il suo sguardo s’incupiva, poi, dopo che l’amichetto se n’era andato, assumeva un atteggiamento sarcastico, si avvicinava al figlio e gli chiedeva: «Chi è quello?»; il bambino, intimidito, rispondeva: «È un mio amico»; lui guardava il bambino con aria ironica e diceva, come se si rivolgesse a un adulto: «Perché tu credi nell’amicizia, vero?». Il bambino lo guardava, confuso, intontito, non avendo capito la domanda; lui, senza curarsi della sua espressione, che cominciava a volgere verso il pianto, fissandolo negli occhi, aggiungeva: «Sappi che l’amicizia non esiste, nessuno è tuo amico, tutti cercano di imbrogliarti, di prendere i tuoi giocattoli, di approfittare della tua ingenuità»; il bambino lo guardava sempre più impaurito e lentamente si avvicinava alla madre, che intanto si era lentamente avvicinata a lui fino a stringergli la mano.

Il dottor Spock si accorgeva del gesto e cominciava a urlare: «Ecco le mamme che rovinano i figli e non li fanno diventare uomini! Come farà questo bambino a crescere e capire che la bontà non esiste, esistono solo le regole, nessuno è buono, nessuno ti vuole bene, tranne …», si schiariva la gola, «… tranne i tuoi genitori!». Quando si rendeva conto dell’inutilità delle sue parole, si alzava furioso dalla sedia, sferrava un pugno calcolato sul tavolo, facendo cadere il lavoro a maglia di Rosalina ma non il portacenere di porcellana, e andava in un’altra stanza.

Rosalina abbracciava il bambino e gli leggeva una favola, per fargli passare la paura.

Sì, il dottor Spock era insopportabile e la sua morte, per Rosalina e per il figlio, fu una liberazione.

Anche come medico non lasciò un buon ricordo. Il suo studio era sempre pieno di pazienti in attesa di farsi visitare, ma solo perché – come il suo quasi omonimo, il dottor Knock, un grande medico dell’antichità che aveva fondato il “Trionfo della Medicina” (non so esattamente in che epoca collocarlo, ma non importa) – affermava con convinzione: «Coloro che si credono sani non sanno di essere malati».

Prescriveva una serie di indagini di laboratorio a chiunque si trovasse a passare per lo studio, anche per un malessere di poco conto o solo per chiedere un certificato medico.

«Qualunque sintomo può essere il segnale premonitore di una grave malattia, che abbiamo il dovere di prevenire o di curare finché siamo in tempo», diceva con severità ai pazienti che si erano presentati per un raffreddore o per un dolorino qualsiasi.

Se qualcuno chiedeva un certificato di sana e robusta costituzione per iscriversi alla palestra, e si aspettava di cavarsela senza una visita accurata, assumeva un’aria grave e diceva con severità: «Non possiamo dichiarare in un documento ufficiale, sotto la nostra responsabilità, il suo stato di salute fisica e mentale senza una visita approfondita che escluda la presenza nel suo organismo di condizioni patologiche in atto o in fieri».

Cominciava l’indagine come il poliziotto che deve scovare il colpevole nascosto, sicuro del delitto, e sicuramente trovava un battito cardiaco non perfettamente allineato con le lancette del suo orologio (amava gli oggetti vintage), una pressione arteriosa troppo vicina ai valori limite o troppo lontana da essi, un respiro affannoso, un polmone affaticato, un fegato bilioso, un colon pigro, una prostata troppo dura, o molle, o grossa, o piccola e bisognosa di ulteriori accertamenti sempre più invasivi, un rapporto tra peso e altezza, moltiplicato per l’età, sommato al quadrato della temperatura basale, troppo vicino ai valori critici.

Di solito il paziente usciva dalle sue visite con la prescrizione di una serie di analisi che l’avrebbero impegnato nei mesi successivi e costretto a passare più della metà delle sue giornate in ospedale.

Questi esami richiamavano altri esami, che ne richiedevano altri ancora e così via, fino a scovare, finalmente, la malattia, subdola, nascosta, solitamente asintomatica, quindi ancora più pericolosa, da cui il paziente era affetto o rischiava di essere affetto nei prossimi trent’anni.

Fatta la diagnosi, il dottor Spock, con grande soddisfazione e un discorso pieno di termini scientifici finalizzati a incutere terrore e la giusta disposizione, avviava la cura, che non consisteva mai in semplici consigli di buon senso, inutili palliativi («Nulla è più contrario alla scienza medica del cosiddetto buon senso», dichiarava con sussiego), ma facendo abbondante ricorso ai prodotti più innovativi inventati dalla farmacopea, anche di quelli in sperimentazione, che impiegava in quanto consulente della più importante industria farmaceutica.

Grazie ai suoi test, condotti, naturalmente, su pazienti inconsapevoli (condizione indispensabile per la validazione della sperimentazione di un farmaco), aveva segnalato gli effetti collaterali di numerosi medicinali, alcuni gravissimi, e consentito all’industria di apportare gli opportuni correttivi.

Usava i suoi pazienti come cavie, senza informarli preventivamente dei pericoli, con la coscienza di contribuire al progresso della Medicina. Per questa sua attività aveva ricevuto un premio; il suo studio era sempre pieno di pazienti, eppure, stranamente, quando morì fu subito dimenticato, nessuno lo ricordò con affetto.

Si potrebbe affermare: detto che il dottor Spock era morto, è detto tutto.

La frase precedente, come l’incipit del capitolo 2, mi è piovuta in testa non so da dove; anche l’espressione “piovuta in testa” viene da qualche parte, ma non riesco a ricordare.

È come il ricordo confuso di altre vite; nel sogno vedo due vecchi che litigano, una parrucca gialla, poi mi confondo, come se la mia mente si spostasse su un altro sogno. Leggo un nome: Prassede.

Chi era costei?

Grazie all’intuizione del giovane scienziato Gaspar Esposito, al quale non fu assegnato il premio Nobel a causa dei problemi che seguirono la sua importante scoperta, i microinsetti distruttivi erano spariti e noi potemmo di nuovo gustare la bellezza di una passeggiata all’aria aperta, liberi dalla paura, che ci aveva attanagliati per tanto tempo, di essere catturati da una nuvola nera.

Cominciammo lentamente a dimenticare il terrore di trovarsi immobili, con le labbra serrate, gli occhi chiusi per non vedere sulle lenti della maschera da subacqueo una massa indistinta di minuscoli esseri che si muovono freneticamente. Una sensazione angosciosa, di cui ci accorgemmo pienamente solo quando riuscimmo a relegarla tra i brutti ricordi e nel mondo degli incubi.

È esperienza comune: una situazione assai dolorosa vissuta ci fa soffrire soprattutto dopo che è finita. Nel momento in cui l’affrontiamo siamo concentrati nel tentativo o nella speranza di superarla, raccogliamo le forze, pensiamo solo a resistere, a evitare le peggiori conseguenze, ci impegniamo per non perdere il controllo dei nervi; sappiamo che se ciò accadesse sarebbe la catastrofe. Quando il pericolo cessa possiamo rilassarci e vivere di nuovo, liberamente, l’angoscia.

Sembra un comportamento masochista questo ritornare sulla sofferenza patita, ma non lo è; serve a liberarci dai residui del terrore, a far cicatrizzare le ferite. Non sempre.

Se dentro di noi abbiamo ferite profonde, che non si rimarginano, questo continuo rimuginare il passato le riapre, le fa sanguinare, diventa causa di altri terrori.

La gente dice: come mai la signora Rosalina è così prostrata, così distrutta proprio ora che la sua situazione si è risolta?

Già. Come mai?

A me non importava che la foresta amazzonica fosse sparita. Non ne sapevo molto.

Sapevo solo che nei secoli passati si era cercato di ridurne l’invadenza senza riuscire a portarla a una dimensione ragionevole che ne consentisse lo sfruttamento commerciale.

Un capo popolo aveva pensato di utilizzare quello spazio enorme per costruire strade asfaltate, case, palestre, parcheggi, centri commerciali. Quando qualcuno definiva quella foresta “il polmone del pianeta”, il capo popolo si arrabbiava. Diceva: «La foresta appartiene al popolo e ne faccio quello che voglio». Era riuscito solo in piccola parte a raggiungere l’obiettivo principale della campagna elettorale che lo aveva portato alla vittoria schiacciante sugli avversari politici. Il suo progetto di sfruttamento di quegli ampi spazi si era arenato di fronte alla resistenza di gruppi politici che pretendevano di far prevalere le esigenze delle piante sulle esigenze commerciali e abitative degli uomini.

Si trattava di gruppi che si opponevano al progresso e ignoravano i Comandamenti della Religione Universale.

Il Terzo Comandamento si è detto.

Primo Comandamento – 1) Dio disse, in maniera chiara e inequivocabile: l’uomo avrà il dominio assoluto su tutti i viventi; se un giorno vorrà distruggere una foresta potrà farlo senza chiedere il permesso a nessuno. Postilla – Dio aggiunse: non mi rompete le scatole con i diritti delle piante e degli animali.

Secondo Comandamento – 2) In caso di controversie sull’interpretazione delle parole di Dio, fanno fede le Tavole della Legge, sulle quali, non avendo a disposizione un registratore, Dio ha scritto di suo pugno i Tre Comandamenti.

Più chiaro di così!

In passato uomini di fede avevano fortemente ridimensionato le foreste della Transilvania, agevolando la trasformazione degli alberi in truciolato e pellet; nessuno aveva trovato da ridire, o solo pochi romantici sognatori e alcuni miscredenti.

Io non facevo parte né degli uni né degli altri.

Non m’importava che fossero spariti gli abeti di Paneveggio (Predazzo) sulle Dolomiti, dal cui legno risonante si ricavavano i violini Stradivari. Non avevo mai visto un violino da vicino e, se lo vedevo in televisione, dicevo subito: «Avanti», per cambiare canale. Di musica classica mi piacevano le canzoni di John Lennon e Fra’ Martino Campanaro, che avevo studiato a scuola.

Non comprendevo il testo di Fra’ Martino Campanaro, troppo complicato, pieno di parole obsolete, ma la musica mi sembrava «sublime!», come diceva il professore rivolgendo lo sguardo rapito su un punto al di sopra delle nostre teste.

Quelle foreste erano troppo lontane dalla nostra esperienza, dalla mia e da quella della mia famiglia, dei miei amici. Era come non fossero mai esistite; se gli scienziati, che ne sanno più di me, dicevano che bisognava distruggerle, per me andava bene, ero tranquillo.

Invece mi faceva impressione che la Versiliana, l’antica pineta sulla costa Toscana, privata degli alberi secolari, fosse diventata un prato. In quella pineta, in tempi antichi, facevo lunghe passeggiate, sperando che piovesse. Desideravo sentire la pioggia che, goccia a goccia, scorre tra le foglie.

Non so esattamente se si tratta di un ricordo – se è un ricordo non riesco a collocarlo nel tempo – o di un sogno.

Se ci penso bene mi sembra fosse un sogno: immagini non collegate tra loro, come quando vedo l’allegria di una famiglia che forse non è mai esistita: la stanza da pranzo inondata dal sole, il limone nel cortile, il profumo del gelsomino, il forno che si accende ogni quindici giorni per cuocere il pane, le pizze, le mele cotte; la casa si riempie di buoni odori. Poi mi pare di sentire la voce allegra del nonno, di vedere la mano della nonna; distinguo la pelle, le vene, le dita ossute. Il sorriso della zia si confonde con l’antica cornice di marmo del caminetto, i disegni interrotti da rotture, screpolature, riparazioni, macchie di fumo, segni del tempo. Sono immagini confuse, mescolate tra loro. Non so chi siano questi personaggi, da dove venga la parola caminetto.

È una di quelle parole obsolete, dimenticate, ormai prive di significato. Si trovano negli elenchi degli studenti dei licei classici. «Che cos’è?», domandano i compagni al ragazzo che ha aggiunto quella parola. «Non lo so, l’ha detta il nonno, ma neanche lui sapeva che cosa fosse. Ha detto: mi sono svegliato con questa parola nella mente. L’altro giorno ha raccontato di una passeggiata tra alberi altissimi che aveva visto in sogno. La mamma dice che il nonno comincia a preoccuparla. Chiediamo al professore».

Svegliandomi mi è rimasto impresso il desiderio di pioggia che avvertivo in sogno, mentre camminavo nella pineta. Si sa che i sogni sono irrazionali.

Quando facevo questo sogno – le lunghe passeggiate nella Versiliana, con la speranza di sentire la pioggia scorrere tra le foglie, goccia a goccia – provavo molta malinconia, al risveglio, al pensiero di quella pineta della mia giovinezza, in realtà di una giovinezza vissuta in sogno, trasformata in un prato privo di alberi, solo qualche arbusto qua e là.

Soprattutto non capisco come il Sistema Abitativo Toscana Nord-Ovest, con le sue centinaia di torri tutte uguali, sparse su una vasta area compresa tra le Alpi Apuane e il mare, un panorama che ricordo da quando avevo otto anni, nella mia immaginazione fosse diventato una pineta.

Non so che cosa ci fosse in quel posto prima della Grande Ristrutturazione. Credo le solite case singole, addossate una all’altra, con grande spreco di spazi, di cui parlano i libri di Storia e di Architettura.

Come in tutti i Sistemi Abitativi, c’erano alcuni alberi di alto fusto, che poi furono abbattuti, piantati tra le torri e in uno spazio un po’ più grande che si chiama “Giardino pubblico”, dove i vecchi passano un’ora al giorno, secondo prescrizione medica, portando i nipotini, se ne hanno, o altri bambini affidati dall’Ente Planetario Protezione Infanzia (PIPI: Planetary Infancy Protection Institute).

Le mamme non ci vanno, non hanno tempo.

Per me non c’era molta differenza rispetto a prima: solo qualche albero in meno, tra le torri e nel Giardino pubblico.

Eppure: che malinconia!

Cap 6

Poiché tutte le piante di alto fusto erano state distrutte, si provvide a far sparire dai testi scolastici ogni riferimento che potesse richiamarle.

Questa scelta fu motivata dall’esigenza di collegare lo studio all’esperienza concreta degli studenti, alle cose che essi possono toccare con mano, evitando gli errori della scuola antica, che non li preparava alla realtà, ma a un mondo fantastico, inesistente.

Anticamente gli alunni erano indotti a studiare una donzelletta che, al tramonto, veniva dalla campagna recando in mano un mazzolino di rose e di viole. A quei tempi le rose e le viole fiorivano. Ora non fioriscono più: abbiamo abolito i fiori per evitare le allergie. Ci sono i fiori finti. Le rose e le viole fiorivano in mesi diversi, dunque non è possibile che la donzelletta le avesse trovate insieme per comporre un mazzolino.

Adesso sarebbe facile. Rose e viole non si coltivano: si possono trovare in ogni stagione, artificiali e profumate. Non sfioriscono, inducendo pensieri deprimenti. Le rose non pungono. Tutti i fiori finti emanano un dolce profumo, lo stesso profumo, per evitare di confondere i bambini. Se abbiamo associato il profumo al concetto di fiore, dev’essere lo stesso per tutti i fiori, per non creare complicazioni difficili da spiegare; niente è più insopportabile di un bambino che continuamente domanda: perché questo? perché quello? – e ci costringe a inventare spiegazioni assurde che ci saranno rinfacciate quando il bambino crescerà.

La ragazzina potrebbe tornare a casa dopo avere falciato l’erba di un prato; reca in mano un mazzolino di rose e di viole artificiali, comprate al supermercato, con il quale, come d’abitudine (che è questo “onde, siccome suole”?), apprestarsi, l’indomani, giorno di festa, ad abbellire il petto e i capelli nel locale del karaoke. Si continua raccontando la giornata tipo dei ragazzi il sabato e la domenica, evidenziando la tristezza della domenica sera (dopo il karaoke, in realtà anche prima e durante) e concludendo con l’invito a divertirsi, perché avranno modo di annoiarsi da adulti (così ci facciamo entrare anche il pessimismo).

Ecco che una poesia assurda può essere sostituita da una descrizione legata alla realtà degli alunni, come previsto dai programmi ministeriali.

Gli alberi di alto fusto, che non facevano più parte dell’esperienza concreta dei ragazzi, furono cancellati dai programmi e dagli argomenti da svolgere, secondo il principio dell’orientamento alla situazione individuale, personale, attuale, di ciascun alunno.

Di quali argomenti un ragazzo e una ragazza devono occuparsi a scuola?

Dove sei nato, quando sei nato, che cosa mangi a colazione, quanto dista la tua casa dalla scuola, quale programma televisivo ti piace di più, eccetera. Questi sono i temi da sviluppare, da riprendere, con successivi approfondimenti, nei diversi gradi dell’istruzione.

Dove sei nato? Nei primi anni della scuola elementare ci si limita a insegnare ai bambini a pronunciare e a scrivere il nome del posto in cui sono nati: l’indirizzo.

Esempio: Sistema Abitativo Napoli Caracciolo, Torre 185, piano 81, interno 20.

Altro esempio: Sistema Abitativo Roma ex Colosseo, Torre 14, piano 9, interno 8.

Mi riferisco, ovviamente, alla organizzazione abitativa successiva alla Grande Ristrutturazione, che ha portato all’abbattimento degli edifici inutili, al recupero degli spazi, alla ricostruzione secondo criteri moderni.

Con ex Colosseo si fa riferimento a un edificio che ha occupato inutilmente un ampio spazio per molto tempo ed è stato sostituito da una torre altissima: credo sia la seconda dopo la torre che ospita i mercati generali, costruita al posto di un edificio religioso che si chiamava basilica o cupola di San Pietro (non conosco esattamente la differenza). Negli spazi circostanti sono state costruite numerose torri.

Negli ultimi anni della scuola elementare si comincia ad approfondire lo studio, sempre con riferimento alla propria abitazione: quando e da chi è stata costruita (storia), di quanti ambienti si compone (matematica), in quale zona del centro abitato è ubicata (geografia), con quali materiali è stata costruita (scienze, tecnologia), in che modo è intervenuto Dio nella scelta di costruire quella abitazione (religione). Per chi non si avvale dell’insegnamento della religione si fa riferimento al piano regolatore.

Alle scuole medie si fa un passo avanti, sempre girando intorno all’alunno, tenendo presente solo ciò che può toccare con mano, di cui può fare esperienza diretta.

L’alunno dev’essere il centro della scuola.

Matematica: si comincia a contare superando la limitazione delle dita (mani e piedi), senza inutili astrazioni; per operare con numeri più grandi si utilizzano i sassolini, tornando al significato etimologico di calcolo (anche se l’etimologia è ritenuta, dagli esperti del ministero, una perdita di tempo). Il concetto di infinito è stato abolito dalla terzultima riforma: nessuno ne ha avvertito la mancanza.

In scienze si studia l’anatomia dei famigliari e dei vicini di casa disponibili; in geografia la piantina della propria abitazione. Dal momento che gli alunni di una scuola abitano tutti nella stessa torre, in appartamenti identici, arredati allo stesso modo, si utilizza una sola piantina. Su quella piantina si impara a orientarsi: percorso stanza da letto – bagno; nel bagno: percorso water – bidet – doccia; uscita verso il terrazzino, uscita verso l’ascensore.

Nelle scuole superiori comincia la specializzazione; per chi sceglie il classico la materia principale è: “Lingua antica del posto dove abiti”.

Dal momento che è stato fatto ogni sforzo per non lasciare tracce degli agglomerati urbani precedenti la Grande Ristrutturazione e degli edifici inutili abbattuti, l’alunno non sa che cosa c’era nel posto dove abita. Poco male: si studia la lingua dei nonni e, in generale, dei vecchi in circolazione.

Il ragazzo chiede al nonno: «Nonno come si chiama quello?»; quello può essere una sedia, un tavolo, un qualsiasi oggetto presente nella casa. Se si scopre che il nonno lo chiama a modo suo, si mette quel nome in un elenco delle parole obsolete.

In un altro elenco si mettono le parole che il nonno non conosce. Parole antiche, parole nuove: storia della lingua.

Grammatica: si studiano solo i tempi, i modi, le coniugazioni, i prefissi, i suffissi più comuni, esercitandosi nella resa delle abbreviazioni utilizzate nella comunicazione scritta anche per la comunicazione orale.

«Se provate una particolare simpatia per qualcuno – può capitare, siamo stati tutti giovani», diceva la mia professoressa di italiano, con un sorrisino malizioso, «provate a dirgli o a dirle: “tvb” (ti voglio bene)».

«Pronunciate con trasporto, ma con precisione, separando le lettere: “ti vu bi”», la professoressa ripeteva, con voce languida.

«Se qualcuno vi dice “tvb”, potete rispondere “anch’io tvb”, o, se quella persona proprio vi piace, rispondete “tat” (ti amo tanto)».

«Pronunciate ciascuna lettera per conto suo: ti a ti; la voce dev’essere dolce, la pronuncia precisa; ripetete», diceva la professoressa, sempre con quel sorriso malizioso; e noi in coro: «ti a ti, ti a ti», un po’ imbarazzati.

«È inutile ripetere continuamente “comunque”, una parola che serve solo come riempitivo. Esercitatevi a dire “kmq”, da non confondere con “chilometri quadrati”, che, ovviamente, dev’essere seguito da un numero».

«Se riempite il vostro eloquio di “kmq”, di “ci sbarra è” (al posto del banale “cioè”), il discorso diventa più fluido e anche più logico, più articolato».

Sono lezioni che ricordo benissimo, perché ero iscritto per l’appunto al classico. Avevo frequentato il tecnico, ma, non riuscendo ad avvitare e svitare una lampadina a occhi chiusi, fui considerato inadatto a quegli studi e trasferito al classico. Poi dal classico fui trasferito a ragioneria, perché in un tema avevo utilizzato una metafora. Naturalmente non si chiamava così, infatti la professoressa l’aveva presa alla lettera, mi aveva guardato come si guarda uno uscito fuori di testa e, per non farmi ricoverare (le sarò sempre grato per questo), nel giudizio aveva scritto: “Utilizza fake news”.

A ragioneria riuscii a concludere gli studi, senza perdere un anno; la bocciatura era vietata, tutt’al più si era trasferiti da una scuola all’altra; così si riusciva a dare un diploma, poi una laurea, a tutti.

La nostra scuola si chiamava “Scuola albero” (dopo la distruzione degli alberi di alto fusto divenne “Scuola prato”), per sottolineare che manteneva costantemente un collegamento con la realtà degli alunni.

I ministri dell’istruzione insistevano molto su questo concetto: il collegamento con la realtà.

«Bisogna partire dall’esperienza concreta», ripeteva il ministro di turno, «Partire da ciò che il ragazzo può vedere con i propri occhi e toccare con mano. Non vorrei allarmarvi, cari insegnanti:  non dovete andare da nessuna parte; partire vuol dire cominciare, rimanendo fermi» (sospiro di sollievo).

«Come insegniamo, per esempio, la filosofia? Rivolgiamoci direttamente allo studente con una domanda: tuo nonno è filosofo? Tuo padre è filosofo? Tu ti puoi definire filosofo? Se la risposta è affermativa siamo a buon punto, se è negativa dobbiamo lavorarci su. Gli proponiamo: descrivi la tua stanzetta. Vedi? Tutti gli oggetti che hai elencato si domandano l’essenza delle cose. Questo è la filosofia: domandarsi l’essenza delle cose. Siccome tu non sei inferiore a quella piccola scrivania o a quel calzino sporco rimasto sul letto, spaiato perché l’altro è stato messo in lavatrice, la prossima volta alla mia domanda rispondi: sì. E non stare a fare troppo il difficoltoso».

Erano vere e proprie lezioni di didattica i discorsi che i ministri dell’istruzione rivolgevano all’inizio dell’anno scolastico agli studenti, ai professori, ai capi d’istituto, agli addetti alle pulizie riuniti stando ciascuno nella propria abitazione, collegati attraverso gli impianti satellitari e i sistemi di amplificazione utilizzati nelle attività sportive.

Ministro dell’istruzione: «La riforma di quest’anno pone, come sempre, al centro del percorso di apprendimento le ragazze e i ragazzi. Essa rappresenta un paradigma che ci consentirà di traghettarci verso il prossimo anno scolastico. Occorre chiarezza: gli insegnanti non sono rappresentanti delle case editrici; solo alcuni lo sono, e hanno il diritto di cambiare il libro di testo ogni anno, anche ogni mese, per agevolare il commercio.

Ma il libro di testo dev’essere messo da parte. Ricevuto, liberato dell’involucro che lo accompagna nel viaggio dal magazzino fino nelle mani del ragazzo, viene messo nella finta libreria e lasciato lì, come segno di una cultura dell’apparenza che noi abbiamo abbandonato. Noi badiamo alla sostanza e mettiamo al centro della nostra attività pedagogica i ragazzi e le ragazze, che sono la chiave di volta della scuola.

Che cos’è il libro? Uno strumento sopravvalutato, mitizzato, pesante e, diciamolo, vecchio, polveroso, poco dotato di appeal, poco empatico. Bisogna svecchiare! Gli studenti non devono imparare a studiare, ma a rielaborare, operazione che richiede solo un sapiente uso del copia e incolla.

Studiare, imparare, applicarsi, riflettere, sono categorie storiche vetuste, per certi versi. Sempre per certi versi è vetusta la parola studente, ma anche la parola certi, anche la parola versi. Bisogna sviluppare skill più soft, capacità che non richiedono impegno, applicazione, concentrazione; far sì che si guardi all’identità personale, puntare sul pensiero critico, sul pensiero laterale, attraverso il debate nelle chat, nei social; acquisire il linguaggio dei ragazzi, travestirsi da ragazzi, mettersi un paio di pantaloni sdruciti e andare a cantare nei locali per il karaoke.

Non devono essere i copiaincollanti a parlare come l’insegnante, che io chiamerei influencer; dev’essere l’insegnante-influencer a parlare come i copiaincollanti».

Qui il ministro alzava la voce: «Volete una didattica trasmissiva o una didattica attiva?»

Coro degli insegnanti: «Attiva, attiva.»

Ministro: «Non ho sentito bene.»

Coro, più forte: «Attiva, attiva.»

Ministro: «Siete pronti a mettervi in gioco?»

Coro degli insegnanti: «L’abbiamo già fatto.»

Ministro: «Siete pronti a rimettervi in gioco?»

Coro degli insegnanti: «Sìììììì»

Ministro: «Siete disponibili a formarvi in itinere?»

Coro degli insegnanti: «Dagli con l’itinere!»

Ministro: «Non ho capito bene.»

Coro degli insegnanti: «Sìììììì»

Ministro: «Allora vi saluto e vi auguro un buon inizio dell’anno scolastico».

Applauso.

I Dirigenti Scolastici, selezionati tra i professori più capaci di parlare senza dire nulla – la prova principale per la selezione consisteva nel mettere insieme frasi prive di senso per tre ore di seguito – ripetevano i discorsi dei ministri, aggiungendo un contributo personale, ai professori riuniti nei Collegi docenti, sempre stando ciascuno a casa sua, sempre tramite il collegamento satellitare e gli impianti utilizzati per trasmettere gli eventi sportivi.

Si può pensare che qualcuno dei docenti evitasse qualche volta di riascoltare gli stessi discorsi, ripetuti una volta al mese, per anni e anni di seguito. Questo sospetto getterebbe un’ombra di discredito sulla classe docente, che ha sempre dimostrato la propensione a pendere dalle labbra di qualunque autorità (ministri, dirigenti scolastici, sindaci, genitori degli alunni). Per evitare che qualcuno potesse avanzare sospetti oltraggiosi, i Dirigenti Scolastici avevano l’abitudine di fermare improvvisamente il profluvio di parole prive di senso e chiedere: «Professor Rossi, mi ripeta l’ultima parola che ho detto».

Dopo un po’ si sentiva la voce balbettante del professor Rossi: «Mi sembra abbia detto “pochi”».

«Bravo professor Rossi!» diceva il Dirigente scolastico e proseguiva il discorso interrotto: «pochi, sebbene molti in altro contesto; Piaget, la psicologia del profondo, le didattiche attive, le avanguardie educative, le competenze trasversali, insieme, naturalmente, a una nutrita serie di neuro skill psico pedagogiche, …».

Tre errori erano consentiti ai professori, al quarto si aveva un richiamo ufficiale e l’obbligo, nella riunione successiva, di trascrivere interamente il discorso del Dirigente Scolastico, a mano, con una penna d’oca, su carta pergamena. Naturalmente, data la loro competenza, i capi d’istituto spaziavano nell’intero scibile, i discorsi duravano ore, qualche professore si metteva una barba finta e spariva dalla circolazione. Si rifugiava tra le piccole comunità, nascoste in regioni remote, che non erano state raggiunte dalla civiltà o l’avevano rifiutata.

Era allo studio un progetto di individualizzazione estrema dell’attività scolastica e di valorizzazione della didattica a distanza, non più opzionale ma chiave di volta, come diceva il ministro, con l’eliminazione delle classi, delle aule, degli istituti. Questo progetto si chiamava “Scuola Aperta” e avrebbe consentito di risolvere il problema del contatto tra gli alunni normodotati e i nati con metodo antico.

Non fu difficile far sparire i riferimenti agli alberi di alto fusto dai testi scolastici: dopo l’ultima riforma ne erano rimasti pochissimi.

Una delle prime poesie eliminate dai programmi scolastici iniziava con i versi «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti / van da San Guido in duplice filare / …», una poesia che, tutt’al più, avrebbe potuto riguardare quei pochi alunni che si fossero recati da San Guido a Bolgheri in treno, una cosa che non esisteva più da tempo (il treno, ma anche San Guido e Bolgheri, oltre ai cipressi).

Dal momento che tutti i centri abitati della zona erano stati completamente ristrutturati e trasformati nel Sistema Abitativo Maremma Livornese, detto anche Maremma Maiala (una serie di alte torri), nessun alunno poteva essere interessato a studiare quella poesia.

Non parliamo della Divina Commedia, della sua lingua incomprensibile, di quelle situazioni assurde (non si è mai visto un nocchiero con gli occhi di brace: chiaramente una fake news) e il riferimento iniziale a una selva oscura.

Si faceva osservare che già in epoche passate (anni ’70, anni ‘80 del 1900), molti professori, sulla scia di grandi intellettuali, avevano fortemente ridimensionato poeti a cui si era data eccessiva importanza nei tempi antichi.

Dopo la morte del dottor Spock la situazione della vedova e del figlio era notevolmente migliorata e i due poterono vivere un periodo di relativa tranquillità.

Rosalina aveva preso a salutare e, ogni tanto, a scambiare due chiacchiere con la signora e con il vecchietto che abitavano allo stesso piano e avevano il terrazzino confinante con il suo. Quando il marito era vivo non poteva: anche un semplice scambio di saluti tra vicini gli dava fastidio. Maximilian aveva eliminato il brutto pannello di foglie finte applicato malamente da suo padre per impedire ogni contatto visivo con quella famigliuola.

Per Rosalina sentire le voci dei bambini, salutare il vecchio che giocava con loro, porgere un giocattolo, un calzino che ogni tanto il vento portava dalla sua parte, era un conforto, anche se accompagnato dal brutto ricordo del viso torvo del dottor Spock. Non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo feroce di quell’uomo che aveva sopportato e temuto per tanti anni. Il ricordo della sua disapprovazione l’angosciava. Per superare quei momenti cercava il figlio, lo guardava, lo accarezzava.

Eravamo nel pieno della moltiplicazione esponenziale dei microinsetti distruttivi e tutti vivevamo situazioni di grande stress e, in molti casi, di angoscia.

Per Rosalina, come per molti altri (una mia parente fu trovata morta in casa, soffocata) essere completamente ricoperta dalla nuvola di insetti, per quanto quest’esperienza durasse pochi minuti, era sconvolgente. Quando la nuvola si risollevava e usciva dalla finestra, dopo che Maximilian aveva aperto – lei non era in grado di muoversi e di reagire – restava per ore immobile, incapace di compiere qualunque azione.

Di notte dormiva con tutte le luci della casa accese, nel timore che gli insetti, attratti dal buio, entrassero nuovamente e la sorprendessero a letto. Dormiva poco; dopo essersi girata e rigirata per ore, precipitava in un sonno agitato, poi all’improvviso si svegliava, tutta sudata, il cuore in tumulto, in preda a un incubo che continuava per un po’ anche da sveglia. A letto teneva la maschera da sub, così premuta sul volto che il giorno dopo aveva mal di capo e una striscia rossastra disegnava il contorno della maschera sulla fronte, sul naso, sulle guance.

Quando il problema fu risolto con l’abbattimento degli alberi di alto fusto, trovò un momento di pace, ma, poco dopo, gli incubi notturni ripresero, ancora più violenti di prima. Di notte vedeva formiche muoversi sulla porta.

Maximilian si svegliava ai suoi urli disperati, si precipitava nella sua stanza. Una volta, nella furia di correre, scivolò e stava per slogarsi una gamba. Lei lo guardava con la faccia stravolta, urlava più forte: «Le formiche, le formiche. Scacciale! perché non le scacci?».

Urlava: «Sei come tuo padre, pensi solo a te stesso e non scacci le formiche; Maledetto! Ti maledico se non scacci le formiche».

Piano piano si calmava; riprendeva a dormire. Maximilian non poteva allontanarsi dalla sua stanza; dopo un po’ Rosalina apriva di nuovo gli occhi e, in uno stato di incoscienza, cominciava a parlare.

Diceva: «C’è una vecchina nel mio letto, una vecchina maliziosa; vorrebbe che invitassi quel vecchio che dorme sul fianco, con la testa girata dall’altra parte».

Abbassava la voce, parlava in un soffio, come per raccontare un segreto: «Sai chi è? È Julian. Lo vedi? Finge di dormire e ha mandato la vecchina per convincermi ad aprire le gambe».

I suoi occhi appannati prendevano un’espressione lubrica, poi diceva: «La vecchina sa che qualche volta mi è piaciuto quello che Julian faceva, ma non gliel’ho mai fatto capire. Più lui si mostrava freddo, più io fingevo indifferenza, anche quando provavo …».

Non completava la frase; Maximilian non ce la faceva a sentire quel racconto della madre, non sopportava il suo tono, capiva che in quei momenti si stava rivelando una parte di lei che non voleva conoscere. La scuoteva, la risvegliava. Uscendo dall’incubo, la sua espressione tornava serena, la sua condizione normale; diceva: «Dai Max, non stare sveglio, va a letto, domani devi alzarti presto!». In quel momento era di nuovo lei.

Alternava momenti di coscienza, in cui era una signora dolce e timida, a momenti in cui veniva fuori una forte aggressività, una paura infantile; perdeva ogni freno e rivelava pensieri nascosti che aveva, forse, sempre coltivato in una parte della sua mente, nel corso di una vita di sopportazione accanto a un uomo oppressivo, prepotente, egoista.

Povera donna!

Maximilian guardava la madre, ricordava il padre, guardava una fotografia che li ritraeva insieme da giovani. Ricordava la freddezza dell’uomo, la sua severità. Avvertiva una grande pietà per la madre. La vedeva ragazzina ingenua, semplice, sposata giovanissima con il giovane promettente, di sicuro avvenire: il dottor Spock.

Per quale motivo il dottore aveva sposato Rosalina? Aveva pensato: questa ragazza di famiglia modesta non metterà mai in discussione la mia autorità, il mio dominio assoluto sulla casa. Sarà ben felice di passare dalla tutela del padre, piccolo impiegato ottuso, alla tutela di un uomo di sicuro avvenire. Tutto vero; con quel matrimonio Rosalina aveva pensato di “sistemarsi”. In qualche modo si erano imbrogliati a vicenda. Solo un elemento il giovane dottore, l’acuto psicologo, non aveva colto: Rosalina aveva bisogno di tenerezza e sperava, con tutta la sua anima, di poterla ricambiare. Quando si accorse che quell’uomo voleva solo essere ammirato, obbedito, mai contraddetto, quando vide che guardava con sospetto ogni segno, anche minimo, di autonomia e non sapeva che farsene della tenerezza, si rassegnò. Accettò la condanna a una vita di solitudine.

La maternità, casuale, inaspettata, contro le regole, avversata, offesa anche da chi, senza volere, aveva contribuito a determinarla, diede un senso a tutti quei rapporti sessuali in cui il suo corpo era stato violato: dal primo all’ultimo. La maternità le restituì la coscienza di sé. Si guardò intorno e distinse nettamente il proprio corpo, la propria personalità da tutto il resto. Quell’uomo le apparve nella sua totale miseria.

Capì che la vera vittima, tra loro due, vittima di sé stesso, senza speranza, era lui, il ladro che aveva rubato la sua giovinezza. Molto più infelice, molto più solo, molto più disgraziato di lei.

Dopo questa scoperta, un grande rimpianto, un grande dolore l’aveva invasa, in parte compensato dall’amore per il bambino, che la riempiva di tenerezza, ma anche di pena, perché in lui vedeva sé stessa bambina: ingenua, obbediente, giudiziosa, votata al sacrificio.

I periodi di incoscienza diventavano sempre più frequenti, sempre più disperati i suoi urli quando era catturata da un incubo. Per alcuni mesi Maximilian riuscì a reggere da solo la situazione, poi non ce la fece più.

Una notte in cui Rosalina non usciva dall’incubo, sbatteva la testa sul cuscino, urlava disperatamente, non restò altra possibilità che chiamare il pronto soccorso. Venne l’ambulanza, le fecero un’iniezione calmante, la portarono via.

Da quella notte non riuscì più a vederla.

Non gli avevano dato il permesso di accompagnarla, non sapeva neanche dove fosse ricoverata. Aveva solo un numero di telefono; «Chiami questo numero. Le daranno tutte le informazioni». Chiamava, forniva i dati; una voce metallica, registrata, ripeteva: «La paziente è assopita, deve riposare, non può ricevere visite».

Arrivò un telegramma: La signora Rosalina Cellamare, vedova Spock, è deceduta in data odierna. I funerali si svolgeranno domani alle ore 15.00, presso l’Inceneritore Comunale (sezione Forno Crematorio). firmato: Ente planetario per la dolce morte (Planetary Sweet Death Institute).

Il giorno dopo si trovò da solo (Rosalina aveva perso tutti i contatti con i parenti) davanti all’Inceneritore Comunale, nel quale erano trattati, in locali situati a poca distanza, rifiuti combustibili e cadaveri. Su un cartello erano segnate due frecce; accanto a una era scritto “sezione smaltimento immondizie”, accanto all’altra “sezione forno crematorio”. Le due sezioni si trovavano sui due lati dell’Inceneritore, di cui costituivano la base. Trovò una porta con su scritto “Sala Mortuaria”. La porta era chiusa; Maximilian provò a bussare: niente. Non si vedeva anima viva.

Non restava che attendere.

Alle tre esatte del pomeriggio la porta si aprì; ne uscirono due carrelli che si muovevano su binari. Sui carrelli c’erano quattro bare, due per carrello, una sopra e una sotto. Su ogni bara era incollato con lo scotch un pezzo di carta con un nome. Su uno era scritto Rosalina Cellamare.

I carrelli si spostarono sui binari, lentamente, con sistema di trasporto automatico, fino a raggiungere l’ingresso del forno crematorio, chiuso da una porta metallica. La porta si aprì; entrarono i due carrelli con le bare, uscirono i carrelli vuoti; completarono il giro fino all’ingresso della sala mortuaria. La porta metallica si chiuse.

Dall’imboccatura di un tubo altissimo, che correva lungo la parete dell’Inceneritore, Maximilian vide uscire una nuvola di fumo nero, poi la nuvola divenne grigia e fu dispersa da un grande ventilatore che si era messo in moto.

Maximilian stette a lungo con la testa piegata in alto, fino a quando avvertì un leggero dolore fra il collo e la nuca.

Dal momento che i parenti degli altri tre morti non erano venuti ad assistere ai funerali, rivolse un pensiero malinconico a quelle persone, morte da sole, come la sua mamma, e immediatamente dimenticate. Rosalina sarebbe vissuta nel suo ricordo.

Pensò: finché sarò vivo.

Provò una fitta dolorosa, quasi un presentimento.

Un’immagine si formò nella sua mente, poi una scena: Rosalina entra nella sua stanzetta, gli dà un bacio, appoggia con delicatezza un vecchio libro sul tavolo dove il bambino sta disegnando. Gli dice: «Ti piace?».

Maximilian non sa che rispondere, è preso dalla curiosità: «Che libro è?»; intanto lo sfoglia.

Ricordò il fruscio delle pagine, ricordò che l’aveva colpito l’odore, che non conosceva, e ora non riusciva a ricordare.

«È un libro di quando ero bambina».

Gli piaceva.

Su una pagina c’erano uomini primitivi, coperti di pelli, accanto a un buco ricoperto di foglie e di sassi, nel quale – gli spiegò la mamma – avevano seppellito uno di loro, morto.

«Perché l’hanno seppellito?» chiese il bambino.

«Perché così potranno venire qui, ogni tanto, e ricordarsi di lui», rispose Rosalina.

Maximilian ricordò di avere guardato di nuovo le immagini e avere notato le lacrime, disegnate sulle guance degli uomini primitivi.

Alzò un’altra volta la testa, guardò il fumo trasparente di ceneri finissime, attraverso il quale si vedevano le nuvole bianche. Sulle sue guance scesero le lacrime.

«Come gli uomini primitivi», pensò.

Altri carrelli con bare uscirono dalla sala mortuaria.

Maximilian tornò a casa.

Aveva appena compiuto diciotto anni, era maggiorenne e padrone di sé.

Cap 8

Importanti riforme si erano seguite con cadenza annuale e avevano progressivamente ridotto la complessità degli studi e diminuito la durata dei corsi universitari.

Dopo il diploma, che tutti conseguivano a diciotto anni (la bocciatura era vietata), c’erano due strade: il mondo del lavoro, l’iscrizione all’Università. I corsi universitari completi duravano un anno ed erano seguiti da specializzazioni.

Maximilian Spock si iscrisse al corso di “Matematica da zero a centomila”. All’esame di laurea riuscì a ripetere a memoria (senza leggere) tutti i numeri compresi tra zero e centomila. Fece alcuni errori solo alla fine e conseguì il titolo di studio con il giudizio PFP (“Potrebbe fare di più”). Non si davano i voti, ritenuti offensivi, ma solo giudizi che partivano da NCM (“Non c’è male”).

Con il titolo di Dottore di Primo Grado in Scienze Matematiche avrebbe potuto continuare per conseguire il Dottorato di Secondo Grado (“da centomila a duecentomila”) o una Specializzazione: numeri naturali, numeri artificiali, immaginari, reali, ottimisti, simpatici, sfigati, ecc.

Preferì entrare nel mondo del lavoro.

Partecipò al concorso per un posto di Copiatore di fogli di calcolo presso il Ministero della salute. Era un ragazzo preciso e, superato l’esame, fu assunto, con un buon stipendio. Il suo lavoro consisteva nel copiare i fogli di calcolo che altri riempivano di dati. Era un lavoro di precisione e responsabilità.

Una delle conseguenze dell’abbattimento degli alberi di alto fusto era la scarsità della carta, divenuta un bene raro, che non si poteva sprecare. Le stampanti erano sparite dagli uffici e i dati ottenuti sugli schermi con i programmi informatici erano copiati a mano su un foglio di carta, unico, prezioso, da laureati nelle diverse discipline. C’era chi copiava i testi, chi copiava i disegni, chi, come Maximilian, copiava i fogli di calcolo. Dal momento che nei fogli di calcolo del Ministero della salute non si superava il numero centomila (finanziamenti, spese, attività ludiche), il suo titolo di studio era sufficiente per svolgere quel lavoro. Se capitava, raramente, un numero superiore a centomila, Maximilian passava il foglio a un altro ufficio, dove lavorava un Dottore di Secondo Grado. Il suo lavoro, all’inizio, poteva anche sembrare interessante, poi si rivelò per quello che era: una grande rottura di scatole.

Maximilian era circondato da gente che s’impegnava per ore in discussioni accese sul modo migliore di copiare una parola o, quelli del suo ufficio, il numero contenuto in una casella. Si faceva a gara nel mettersi in evidenza davanti al capufficio per la chiarezza e la precisione della propria copia; si nascondevano gli errori e, casualmente, ma con perfetta scelta dei tempi, si faceva cadere il discorso su una macchiolina presente sul foglio di un altro impiegato, che denunciava un errore frettolosamente corretto. La concorrenza era spietata, la ruffianeria gratuita. C’era poco da guadagnare: alcuni facevano i ruffiani per abitudine, altri per vocazione.

Gli impiegati si guardavano l’un l’altro con finta amicizia, si scambiavano saluti e salamelecchi, pacche sulle spalle; in realtà avrebbero fatto volentieri grandi sacrifici pur di mettere in cattiva luce i colleghi. Negli uffici, come dappertutto, si manifestava l’atteggiamento acquisito fin da piccoli, fin dai primi anni di scuola, indotto dai genitori, dai professori, dalle maestre d’asilo, da tutti gli adulti, che s’impegnavano per insegnare ai bambini a vincere senza badare ai mezzi.

Maximilian non aveva subito l’influenza positiva del padre: anche da piccolissimo aveva avvertito solo odio provenire da quella parte. Avrebbe potuto reagire coltivando odio nei confronti dell’autorità (sarebbe divenuto un ribelle) o terrore (sarebbe divenuto un ruffiano privo di dignità) o entrambe le cose più o meno mescolate e alternate. Il forte legame con la madre lo aveva portato a un atteggiamento distaccato, a un disincanto, che sfociava nel fatalismo.

Non era competitivo e, nel clima meschino dell’ufficio, fu considerato uno snob, uno che non voleva mischiarsi con gli altri; era taciturno e timido, diventò solitario.

Il Dirigente Superiore del Ministero, a cui era affidata la responsabilità di tutti gli uffici, dottor Ulderico Buffardi, era rimasto favorevolmente impressionato quando aveva visto il giovane la prima volta e saputo che si trattava del figlio del dottor Spock. Il padre di Maximilian era abbastanza noto e stimato da chi non si era mai sottoposto alle sue cure e, inoltre, aveva fama di uomo d’ordine, intransigente, obbediente e rispettoso delle direttive provenienti dall’autorità.

Il Dirigente Superiore non aveva avuto l’occasione di conoscere personalmente il defunto dottor Spock, non sapeva a che età era morto, dunque non poteva fare il confronto con la giovane età di Maximilian. Se avesse fatto questo confronto, si sarebbe insospettito riguardo alla modalità di procreazione che aveva determinato la nascita del giovane e, sicuramente, avrebbe avviato una doverosa indagine presso l’Anagrafe Profonda, che a lui, per la sua alta responsabilità, era accessibile, superando alcuni ostacoli dovuti alla necessità di giustificare e registrare la sua ricerca. Soprattutto quest’ultimo aspetto era pericoloso: qualcuno, prima o poi, avrebbe potuto chiedergli conto della sua curiosità. Ricordo che a quei tempi una modalità diffusa di rapporto con gli altri era il ricatto, che consideravamo uno dei modi legittimi per raggiungere un obiettivo. Era necessario, però, che fosse efficace. Un tentativo di ricatto andato a vuoto era considerato grave reato in quanto rivelava una debolezza e metteva il ricattato in una posizione di forza rispetto al ricattatore. Naturalmente il dottor Buffardi non avrebbe corso pericoli se avesse avuto un motivo valido per accedere a quell’enorme database, riempito con i dati personali completi, fisici e spirituali, di ciascun abitante del pianeta, tranne pochi individui appartenenti a piccoli gruppi nascosti in regioni remote.

Il dottor Buffardi aveva una figlia.

Questa ragazza non aveva mai risposto «anch’io tvb» a un ragazzo che le sussurrasse «tvb» o «tat» (ricordo: «ti voglio bene» e «ti amo tanto»). Inoltre era completamente stonata, quindi non poteva frequentare i luoghi d’incontro più utilizzati dai giovani, in realtà gli unici luoghi d’incontro, per conoscersi, fare amicizia, cantare insieme: i locali del karaoke.

Peppenella, la figlia del dottor Buffardi, non aveva neanche un’amica del cuore, di solito una ragazza grassa utilizzata per uscire insieme, farsi confrontare con lei e trovare più bella e interessante da eventuali corteggiatori. L’amica del cuore è ingenua, si fa da parte quando è necessario, poi, dopo avere svolto la sua funzione, sparisce, si perde nel nulla.

A volte l’amica del cuore si materializza di nuovo dopo la nascita del primo figlio, avendo il compito di prendere in braccio il bambino e dire, con aria rapita: «Come ti assomiglia!».

Devo correggere due errori, in cui sono stato indotto dai miei ricordi antichissimi di un’altra vita (a furia di pensarci mi sono convinto di avere vissuto altre vite, in epoche remote; di queste vite mi appaiono in sogno immagini, scene, parole che mi fanno confondere). Ho usato la parola “corteggiatori”, una di quelle parole obsolete che si trovano negli elenchi dei ragazzi iscritti al classico.

«Nonno chi è quello?», chiede lo studente, indicando il giovane, piuttosto fastidioso, che sta sempre attaccato alla sorella e la segue come un’ombra.

«È un corteggiatore di Clara», risponde il nonno (se è proprio vecchio e rincoglionito). Accanto alla parola “corteggiatore” lo studente annota: «Usata dal nonno vecchio e rincoglionito per designare il fiancé di mia sorella». Per indicare il prossimo sposo di una ragazza, uno che si è scambiato i «tvb» e qualche «tat» con lei, si usa la parola fiancé, di origine francese: l’origine antica si perde nella notte dei tempi; qualche studioso parla di latino, senza sapere di cosa stia parlando. La parola “latino” non è conosciuta neanche dai nonni, ma solo usata dai Capi d’istituto nei discorsi sul nulla che svolgono durante i Collegi Docenti.

Il secondo errore – causato da ricordi ancora più antichi (spero di non essere preso per pazzo) – è l’espressione pronunciata dall’amica del cuore tenendo in braccio il neonato. È impossibile che questa ragazza, per quanto un po’ tonta, dica, con sguardo rapito: «Come ti assomiglia!».

Questa espressione anticamente era un complimento, attualmente non sarebbe un complimento, sarebbe un modo per avanzare il sospetto di una procreazione con metodo antico e, di conseguenza, di una anomalia del neonato.

L’amica grassa, di cuore buono, certamente non pronuncerebbe una frase ritenuta gravemente offensiva.

«Come ti assomiglia!» potrebbe essere detto non dall’amica grassa, ma dall’amica invidiosa: la ragazza magra, molto truccata, che si materializza quando la situazione, troppo tranquilla, rischia di annoiare i telespettatori.

L’amica invidiosa sposterebbe lo sguardo indagatore dal bambino alla puerpera, dalla puerpera al bambino, ancora alla puerpera, quindi, cogliendo un attimo di silenzio degli astanti, scandendo bene le parole, direbbe: «Come ti assomiglia!»; poi, soddisfatta del gelo creato intorno, depositerebbe il bambino nella culla e si affretterebbe a togliere il disturbo, senza, però, sparire, pronta a tornare ogni volta che si rendesse necessaria una cattiveria.

Corretti i due errori, andiamo avanti.

Stavo raccontando che Peppenella Buffardi rischiava di rimanere single, di superare l’età ottimale per la procreazione assistita – si suggeriva dai venticinque ai trent’anni – senza avere dato al dott. Ulderico Buffardi la soddisfazione di un nipote genio.

Peppenella era più vicina ai trenta che ai venticinque, Maximilian aveva da poco compiuto vent’anni, ma questo non sembrò importante al Dirigente Superiore, dato il ruolo marginale dei maschi nella procreazione e, in generale, nel matrimonio.

Qui la storia prende la solita piega: incontro casuale (in realtà Buffardi aveva calcolato tutto, nei minimi dettagli) tra i due giovani; scambio di occhiate valutative. Maximilian, stanco della solitudine, si fa coraggio, pronuncia nell’orecchio della ragazza la fatidica «tvb»; la sventurata risponde (scusate, è la mia vita precedente, sono confusi ricordi a dettarmi certe espressioni di cui non riesco a individuare l’origine).

Come risponde? Risponde subito “tat”, perché non solo il padre, ma anche lei aveva maturato il fondato timore di non riuscire a realizzare il suo sogno: diventare madre di due gemelli omozigoti che avessero nel DNA i geni di due geni (scusate il bisticcio): il famoso Ciù En Lai, premio Nobel nel secolo scorso per l’invenzione dell’uovo artificiale, e Yoko Ono, compagna di John Lennon.

Il sogno di questa dolce fanciulla si realizzò: i due giovani si sposarono (trecento invitati, tutti della sposa) e, dopo i regolari nove mesi, grazie alle conoscenze del dottor Buffardi nella banca degli ovociti e degli spermatociti, ebbero la soddisfazione della nascita di due bambini con i connotati orientali: Yoko e Ono.

Tutto procedeva per il meglio, non fosse per il clima corrosivo presente nell’ufficio dove Maximilian si rompeva le scatole dalle otto di mattina alle due del pomeriggio ogni giorno, tranne il sabato e la domenica.

Il matrimonio del giovane con la figlia del Direttore Superiore aveva aumentato di molto l’invidia dei colleghi di ufficio. Il lavoro di Maximilian fu sottoposto ad attento esame; si provvide a segnalare al capufficio ogni cancellatura sui fogli di calcolo copiati, fingendo di parlarne per caso, di sfuggita. Questa tecnica collaudata avrebbe certamente portato risultati concreti se si fosse esercitata nei confronti di raccomandati medi o bassi; in questo caso non poteva sortire alcun effetto, anche se applicata con il massimo scrupolo e con professionalità, perché il capufficio si trovava su un gradino molto più basso del Direttore Superiore e doveva stare attento a non inimicarsi il genero di un uomo dotato di tanta autorità.

Fino a che fu trasferito, nell’ufficio dove Maximilian lavorava, il famoso Spirulicchio.

Non conosco il nome vero di questa persona, sto facendo man bassa dei nomi di parenti e conoscenti; so che tutti lo chiamavano Spirulicchio, forse per l’abitudine di piluccare continuamente tortine e altri dolcetti che conservava gelosamente nel cassetto dove erano riposti i documenti d’ufficio.

Questo signore, abbastanza avanti con gli anni quando entra in scena, era affetto da un tic nervoso: tendeva continuamente le narici, come volesse allungarsi il naso.

Era stato cliente del dottor Spock.

In realtà si era presentato nello studio per un malessere passeggero, che neanche più ricordava, ma era stato sottoposto a tali e tanti trattamenti, aveva dovuto ingurgitare tali e tante pillole, a digiuno, a colazione, appena sveglio, dopo pranzo e prima di andare a dormire, da ricavarne un esaurimento nervoso, da cui era guarito, in parte, dopo la morte del dottor Spock, conservando, come promemoria, il curioso tic da cui era affetto.

Spirulicchio ricordava le maldicenze risalenti a una ventina d’anni prima, circolate tra i clienti in attesa nello studio del dottor Spock. In particolare, gli era stato riferito un episodio che aveva fatto molto scalpore, avvenuto in ospedale nei giorni successivi alla nascita di Maximilian.

Quella nascita era sembrata a tutti molto strana, in relazione alla tecnica adottata per generare una nuova vita che lasciava ipotizzare. In particolare aveva incuriosito i clienti del dottor Spock, radunati nello studio in pianta stabile – alcuni dormivano in piccole tende fissate sul terrazzo superiore della torre, alle intemperie, per essere i primi quando, alle sette di mattina, si faceva l’appello.

Una delle direttive in vigore a quell’epoca stabiliva che l’inseminazione artificiale, consigliata a donne di età compresa tra venticinque e trent’anni, non doveva essere autorizzata per nessun motivo se gli aspiranti genitori avevano superato i quarant’anni.

Il dottor Spock aveva passato la soglia dei cinquanta quando la gravidanza di Rosalina si rese evidente; di conseguenza una valanga di sospetti e maldicenze precipitò sui due coniugi.

Rosalina fu dipinta come una donna dedita alla ricerca di amanti, per vendicarsi del disinteresse del marito: i tentativi maldestri del dottor Spock di conquistare la segretaria e una cliente furono descritti, amplificati, arricchiti di sempre nuovi dettagli.

Detto fatto: l’amica invidiosa si presentò nella stanza d’ospedale dove Rosalina aveva da poco partorito, recando in mano un mazzolino di rose e di viole, naturalmente artificiali, onde, come avviene di solito, farne omaggio alla puerpera. Dopo gli abbracci, i convenevoli, gli scambi di opinioni sul tempo e un po’ di cazzeggio, quando le sembrò il momento giusto per attrarre il massimo dell’attenzione, sollevò il neonato dalla culla, lo guardò fissamente, spostò lo sguardo sulla puerpera e disse, con fare ingenuo, calcando la voce su ogni parola: «Rosalina, sai che questo bambino ti assomiglia molto?»

Guardò in direzione del dottor Spock, che era appena entrato nella stanza e aveva sul volto un’espressione stranamente, per lui, smarrita, come un bambino che ha fatto una marachella e viene rimproverato dalla mamma. L’amica invidiosa gustò fino in fondo il silenzio teso che si era determinato, poi, prima che qualcuno lo interrompesse, con un risolino di scherno, aggiunse: «Certo che l’inseminazione artificiale fa miracoli, dicono».

Gelo nella stanza d’ospedale e sul volto del dottor Spock.

Rosalina, che giaceva nel letto appoggiata a due guanciali, non mutò espressione, come non avesse inteso o non desse importanza alla cosa.

L’amica invidiosa, un po’ delusa, ma soddisfatta per avere svolto il proprio compito, depose il bambino nella culla e uscì dalla stanza dopo avere salutato in fretta.

Spirulicchio odiava il dottor Spock; tra l’altro era stato indotto a sperimentare, inconsapevolmente, un componente del latte artificiale destinato all’alimentazione dei neonati, aggiunto da poco. La nuova sostanza, estratta dai residui della combustione del carbone, secondo gli scienziati avrebbe dovuto svolgere la funzione di stimolo delle attività cerebrali, ma si era in attesa di sperimentazione per determinarne gli effetti collaterali.

Il dottor Spock, che collaborava con la principale industria farmaceutica, non avendo, in quel periodo, neonati in cura, aveva utilizzato Spirulicchio come cavia. Un effetto della somministrazione in dosi elevate di quella sostanza fu la comparsa di una fitta peluria sulla fronte, sul collo, sulle braccia, sulle gambe, sul petto di Spirulicchio. Il dottor Spock riferì diligentemente gli effetti rilevati ai ricercatori dell’industria che produceva quel componente sperimentale del latte artificiale; i ricercatori si diedero una pacca sulla fronte e dissero: «Ora abbiamo capito come mai i neonati ai quali abbiamo dato il latte contenente quel componente, senza aspettare l’esito della sperimentazione, hanno sviluppato una curiosa peluria!»

Spirulicchio era stato abbandonato dalla moglie, che non ce la faceva a stare accanto a Mr Hide. Era una intellettuale e così si espresse quando fu convocata dal giudice conciliatore per il divorzio; non è dato sapere, neanche il giudice riuscì ad appurare, chi fosse questo signor Hide, evidentemente inglese, che la signora aveva scovato tra i ricordi di un libro antico, oramai introvabile.

Ci fu un’inchiesta giornalistica che apparve sul principale quotidiano online con il titolo “Latte per i neonati. Un esperimento mal riuscito”. Il giornalista autore dell’inchiesta e il direttore del giornale furono prontamente licenziati; nessuna indagine fu avviata dalla magistratura. La notizia, annacquata con il sapiente uso di condizionali, passò dalla prima alla sedicesima schermata, fino a perdersi fra gli spot pubblicitari; nessuno più la seguì (i commenti furono bloccati), tranne Spirulicchio, che aveva abbastanza elementi per comprendere il ruolo svolto dal dottor Spock e, involontariamente, da sé stesso.

Scoprire di avere fatto da cavia per una importante industria farmaceutica, stranamente, non lo riempì di orgoglio ma di amarezza e di odio nei confronti del dottor Spock e di tutta la sua discendenza, nei secoli dei secoli (almeno fino al figlio e ai nipoti).

Cominciò, dunque, a sfruttare ogni occasione per lanciare delle osservazioni riguardo a Maximilian; la più ficcante di tutte fu questa: «Avete notato come il caro, stimato, egregio collega, questo bravo giovane intelligente e puntuale, assomiglia sempre più alla madre?»

Il capufficio, presente, per caso, quando questa frase fu lanciata in un momento di pausa, colse subito il passaggio per fare il tiro in rete. Siccome, a sua volta, odiava il Direttore Superiore, perché la sua presenza in quel posto bloccava a tutti i capuffici qualunque avanzamento di carriera, ripeté questa frase – anche se lui, in realtà, non conosceva Rosalina – davanti ai suoi colleghi di pari grado.

In breve tempo la frase arrivò alle orecchie del dottor Buffardi, che s’insospettì e, per eliminare ogni dubbio, utilizzò i suoi poteri per accedere all’Anagrafe Profonda.

Il dottor Buffardi non era in grado di pescare dati specifici in quell’enorme database. Aveva bisogno di un esperto. Si rivolse a una persona che aveva le competenze necessarie e manifestava continuamente una profonda amicizia, ricambiata, nei suoi confronti.

L’esperto trovò l’informazione, gliela comunicò e infranse immediatamente la riservatezza che aveva garantito con espressioni tipo: «Puoi stare tranquillo, tu mi conosci, non tradirò mai la nostra vecchia amicizia», anche ricorrendo a frasi fatte: «Sei in una botte di ferro», «Sarò muto come un pesce».

Quando scoprì che il marito della figlia apparteneva alla genìa dei nati con metodo antico, il dottor Buffardi ritenne che la sua vicinanza ai due gemelli avrebbe creato ostacolo al loro sviluppo intellettivo. Rischiava di perdere due premi Nobel.

Parlò con la figlia.

Da quel momento l’atteggiamento di Peppenella Buffardi diventò sempre più scostante nei confronti di Maximilian.

Ogni volta che lui, il sabato pomeriggio e la domenica mattina, diceva «Porto i bambini a passeggio», lei si precipitava come una furia, gli toglieva dalle mani, quasi con la forza, la carrozzina doppia in cui i bambini avevano preso posto e affermava decisa: «NON È IL CASO!».

Poi aggiungeva, per giustificare la sua reazione, «Potrebbe piovere», anche se fuori splendeva il sole.

Maximilian non capiva il motivo di questo atteggiamento e come mai, quando rientrava dall’ufficio, i gemelli non erano in casa ma si erano trasferiti dai nonni. Finì che anche il sabato e la domenica i gemelli restavano dai nonni insieme alla madre e, se provava a raggiungerli, trovava l’ingresso della torre residence, dove alloggiavano i dirigenti superiori e le loro famiglie, sbarrato da un guardiano che gli puntava addosso la pistola se provava a insistere.

Maximilian fu molto scosso da questi cambiamenti, non riusciva a spiegarseli, ma, cresciuto da un padre autoritario e da una madre anziana e molto protettiva, non aveva in sé la forza necessaria per ribellarsi. Accettò la situazione, senza riuscire a spiegarsela, e accettò anche il peggioramento delle condizioni di lavoro.

Il dottor Buffardi pensò che il licenziamento di Maximilian sarebbe stato interpretato come l’ammissione della presenza di un’anomalia nella famiglia di sua figlia. Questa anomalia avrebbe messo un marchio indelebile sull’avvenire dei suoi nipoti.

Optò per un’altra soluzione: fece allontanare dall’ufficio tutti gli impiegati, compreso Spirulicchio, che si era dannato per avvicinarsi a casa e si ritrovò trasferito a 300 chilometri di distanza.

Fece trasferire anche il capufficio e lasciò Maximilian da solo, a copiare un numero enorme di fogli di calcolo. Giustificò il drastico cambiamento con la spending review, un’espressione che si utilizzava allora per spiegare ogni cosa, alla quale non si poteva controbattere nulla.

Se il lavoro, fino ad allora, era sembrato a Maximilian una rottura di scatole, da quel momento divenne un vero e proprio tormento. Sul suo computer arrivavano continuamente fogli pieni di dati che lui doveva copiare e consegnare a un fattorino che veniva a ritirarli ogni ora. Tornava a casa distrutto, con il polso dolente, e, spesso, era costretto a portarsi dietro il lavoro che non riusciva a completare. La moglie non si vedeva più, i figli: niente, spariti. Non capiva il motivo di tanto ostracismo, si domandava continuamente: «Che cosa ho fatto di male?», come quando, da bambino, vedendo l’odio negli occhi del padre, avrebbe voluto chiedergli: «Perché ce l’hai con me?», «Che cosa ho fatto di male?», ma non gli riusciva.

A furia di riflettere, collegando gli indizi, arrivò a pensare che c’era qualcosa di sbagliato dentro di sé, indipendente dal suo comportamento. Si disse che gli altri avevano ragione, vide se stesso come un essere repellente. Divenne repellente: smise di lavarsi, non si tolse più di dosso il vestito spiegazzato che portava in ufficio e cominciava a riempirsi di macchie. Mangiava, con le mani, le schifezze che gli capitavano, le cose che prima avrebbe guardato con disgusto.

Non si ribellava.

Quest’uomo, segnato fin dalla nascita dal sospetto di contenere nel DNA i germi della ribellione all’ordine costituito, non era capace di ribellarsi a una palese ingiustizia. Con la testa e la schiena piegate, si sforzava di svolgere il suo lavoro con precisione.

Sporco, puzzolente, sempre più magro, sempre più stanco, cercava di mettere i numeri che vedeva sullo schermo al posto giusto, dentro alle caselle. Si disperava quando scopriva la non corrispondenza dei dati nella riga o nella colonna, era costretto ad arrampicarsi indietro come su una montagna a mani nude per scoprire il primo numero sbagliato. E ricominciare. La barba gli era cresciuta incolta; appena arrivava in ufficio si sedeva dietro alla scrivania e copiava, senza un attimo di sosta, con il braccio e il polso doloranti. A casa cercava di risollevarsi con un caffè – ma quella roba dolciastra, ottenuta partendo dai residui della lavorazione dei combustibili fossili, non serviva a risvegliarlo.

Crollava con la testa appoggiata sulla scrivania, sul foglio di calcolo ricopiato in parte (il fattorino gli aveva detto: «Mi raccomando!»). Dormiva, finalmente. La mente trovava un po’ di sollievo, vedeva gli uomini primitivi, sul libro di Rosalina, il buco ricoperto di sassi e di foglie dove avevano seppellito il compagno morto. Quel buco gli sembrava un luogo di riposo, un’oasi di pace. Poi, nel sonno agitato, gli appariva il dottor Spock, che lo guardava severamente; la povera Rosalina gli diceva: «Figlio mio, non posso aiutarti». Si risvegliava e trascorreva il resto della notte vagando come un fantasma in quelle stanze, cercando qualche segno dei due gemelli, ai quali aveva voluto bene.

Lo trovarono una mattina all’ingresso del Giardino pubblico, sottostante la nostra torre, spiaccicato al suolo. Nella notte aveva fatto un volo dalle finestre al cinquantasettesimo piano. Nessuno se n’era accorto, nonostante alcuni, io stesso, avessero sentito il rumore dell’impatto del corpo con il suolo, attutito dai vetri isolanti.

Nel volo il corpo si era scostato dalla perpendicolare. Questo, secondo alcuni, poteva essere interpretato come una conferma di vecchie teorie sulla rotazione della Terra, abbandonate da molto tempo a favore del Terrapiattismo, la teoria più diffusa tra gli scienziati nei tempi in cui si sono svolti i fatti che sto raccontando.

Ho raccontato questa vicenda drammatica per spiegare come mai mi aveva sorpreso il suicidio di Maximilian Spock, il mio vicino al cinquantasettesimo piano di una delle torri costruite dopo la Grande Ristrutturazione. Il mio vicino era un giovane ammodo e, apparentemente, sereno.

Da un po’ di tempo non mi capitava di incrociarlo nell’ascensore, mentre andava avanti e indietro dall’ufficio o portava i bambini a passeggio nel carrozzino doppio.

Non avevo dato importanza alla cosa; sapevo che il suocero viveva nella torre residence, la torre delle autorità, detta anche, con il sarcasmo che cominciava a diffondersi, torre di controllo. Che cosa controllavano da lassù? I voli aerei? No. Ci controllavano tutti.

Quando seppi della trasformazione, del vero e proprio abbrutimento, che Maximilian aveva subìto negli ultimi tempi, pensai che forse l’avevo incontrato senza riconoscerlo e, non salutandolo, avevo contribuito ad accentuare la sua depressione. Il sorriso su un volto familiare gli sarebbe servito a superare la sensazione di abbandono.

Forse l’avevo preso per un barbone, guardato di traverso: gli avevo negato lo sguardo di amicizia – amicizia è troppo – lo sguardo di simpatia tra estranei che ci scambiavamo incontrandoci. Facciamo il male che non vogliamo, non facciamo il bene che vogliamo. Bella questa espressione! Da chi l’ho presa? Non saprei. Ma dev’essere stato importante.

Se facessimo solo il male che vogliamo, staremmo a cavallo, come si diceva anticamente; ora si dice “stare su una motocicletta dieci accappì, tutta cromata”; mi sfugge l’origine di questo modo di dire.

Se facessimo solo il male che vogliamo, staremmo su una motocicletta dieci accappì, tutta cromata, perché sarebbe facile distinguere buoni e cattivi, separarli con un taglio netto. Il problema è che i buoni non fanno solo il bene, ma anche il male che non vogliono. Facendo il male nei confronti di un barbone inoffensivo, guardandolo storto per fargli sentire la mia repulsione, in realtà ho respinto una persona che stimavo, che avrebbe avuto bisogno di uno sguardo sereno.

Dal momento che non mi aspettavo il suicidio del giovane, non avevo segnalato il suo nome nel modulo che l’Ufficio Investigazioni aveva distribuito per prevedere e, eventualmente, prevenire questo tipo di eventi. Prevedere gli eventi delittuosi era uno dei compiti dell’Ufficio Investigazioni, che aveva per motto: “Punire prima per punire due volte”.

Conoscevo la famiglia di Maximilian in quanto abitavamo allo stesso piano della stessa torre e sapevo che era il genero del Dirigente Superiore del Ministero della salute. Mi era giunta qualche notizia riguardo al dottor Spock e alla sua chiacchierata paternità, ma non avevo dato peso alla cosa, anche se “la cosa” mi aveva incuriosito.

Giuro: non avevo dato peso, e in nessun modo avevo pensato di sfruttare questa informazione per interesse personale; poi si capirà perché metto le mani avanti per proteggermi la faccia, per quanto, riflettendo, torni il discorso del personaggio importante che non riesco a identificare: facciamo il male che non vogliamo. Aggiungerei: una parte di noi ci induce a fare il male e non prova rimorsi, anzi, è contenta. Non ha limiti, ipocrisie, tabù, vincoli morali.

È facile dire: non avevo pensato di approfittare eccetera eccetera. Magari aggiungere: sono sicuro, lo giuro. A nome di chi parli?

L’abitazione occupata dalla famiglia di Maximilian era identica alle altre trentadue del piano, tra le quali la mia. Erano perfettamente isolate dal mondo esterno; le finestre davano sul Giardino pubblico, ma da lassù, affacciandosi, non era possibile riconoscere i vecchi che portavano i bambini a passeggio.

Quella macchia tra le torri sembrava ancora più lontana, dopo l’eliminazione degli alberi di alto fusto. Di notte si evitava di guardare giù: lo spazio vuoto, buio, faceva paura.

A dire il vero, al pensiero di quel povero corpo in volo, quel buco nero mi terrorizza.

Capitava di incontrarsi in uno degli ascensori che si fermano a ogni piano e una voce metallica dice: «Siamo al (primo, secondo, terzo …) piano. Chi scende?». La gente si dispone in fila davanti alle porte, distanziata, come ci viene spontaneo, il cartellino col numero del piano appeso al collo, per evitare di parlare inutilmente e diffondere goccioline nell’ambiente. I vecchi spesso confondono la targhetta del piano con la targhetta della farmacia, con la targhetta d’ingresso al Giardino pubblico. Le porte dell’ascensore restano aperte per poco; qualcuno, temendo di non fare in tempo a raggiungere l’uscita, riduce la distanza solita dagli altri, addirittura comincia a spingere. Scoppiano baruffe.

«Si tenga a distanza!», «Lei vada avanti, non perda tempo!», «Untore!», «Sputacchiatore di goccioline infette! Stia zitto!»

A volte accanto a me viaggiava Maximilian, con cui ci scambiavamo un saluto prima di entrare in casa, o la moglie, che guardava diritto davanti a sé. Dunque non posso dire di avere frequentato quella famiglia: la conoscevo.

Ci si frequentava poco, si stava ognuno per conto suo.

Dopo l’esperienza dei virus mutanti, che avevano causato disastri nell’altro secolo, la parola socializzare si era caricata di significati associati alla sensazione di pericolo; una delle raccomandazioni che facevano le mamme ai bambini quando andavano a scuola – oltre a «sta attento ad attraversare la strada» – era «sta attento a non socializzare».

Le autorità ci incoraggiavano a controllarci a vicenda, a riferire all’Ufficio Investigazioni le informazioni utili per il bene di tutti. Ci spiavamo, non per l’antica curiosità umana di conoscere i fatti del prossimo, ma per senso del dovere.

Io stesso ero in contatto con il responsabile dell’Ufficio, dottor Rosario Pirozzi, a cui facevo pervenire, ogni due mesi, una relazione sulle novità intervenute tra gli abitanti della torre: arrivi, partenze, matrimoni, separazioni, pettegolezzi. Sono certo che anche altri presentassero relazioni simili, che servivano per confronto e verifica dell’attendibilità delle informazioni fornite.

Il dottor Pirozzi mi convocò dopo la morte di Maximilian Spock e mi rimproverò aspramente per non avere segnalato la tendenza al suicidio del giovane vicino di casa. L’accusa era: mancata collaborazione e intralcio alle investigazioni.

Accusa gravissima.

L’esperto poliziotto sapeva come infilare un sottile brivido sotto la pelle dei sospettati, per farli confessare. Seduto di fronte a me, mi guardava fisso, non negli occhi ma sulla fronte, come se stesse scannerizzando i miei pensieri. Nonostante fosse decisamente basso di statura, in quei momenti mi appariva come un gigante. Si alternava con altri investigatori che mi lavoravano a fondo per cuocermi al punto giusto e rendermi disponibile a collaborare. Mi mostravano le foto dei miei familiari, le mie foto da bambino, per farmi capire che conoscevano tutto di me, anche i piccoli segreti che avevo cercato di dimenticare, ai quali facevano vaghi accenni, per farmi capire: a noi non puoi nascondere nulla. Poi cominciavano con le domande a raffica, senza darmi il tempo di concludere la risposta, senza darmi il tempo di pensare. Ripetevano ossessivamente alcune parole: “intralcio”, “dovere”, “colpa”, “punizione”, “responsabilità”.

Responsabilità è la parola che più mi è rimasta impressa nella memoria: credo l’abbiano ripetuta centinaia di volte.

Quando di fronte si sedeva il dottor Pirozzi, sapevo che avrebbe cominciato dicendo: «Dunque lei vorrebbe farmi credere, è vero, di avere ignorato che il suo defunto vicino di piano, è vero, del quale ammette di conoscere la qualifica e la parentela acquisita con un alto dirigente del Ministero della salute, è vero, negli ultimi tempi mostrava segni evidenti di depressione. Dovrei anche credere che lei non abbia indagato per appurare i motivi di sconforto del suddetto, è vero, allo scopo di trarne un profitto personale».

Dopo questa premessa, tirava fuori da una cartellina un foglio con intestazione: “Al Ministero della salute”.

In fondo c’era la mia firma. Agitava il foglio davanti ai miei occhi e ripeteva: «È sua o non è sua questa domanda? È sua o non è sua questa firma?». Mi puntava i laser oculari diritti in mezzo alla fronte e ripeteva: «Ammette o non ammette di avere presentato una richiesta di finanziare un bisinìss, è vero, al Ministero della salute, comaddire al suocero del defunto suo vicino di casa?»

“Comaddire” corrisponde a “come a dire” e “bisinìss” è, evidentemente, la pronuncia napoletana di “business”.

Dimenticavo di dire, ma risulta evidente dalle porzioni dei suoi discorsi riportate, che il dottor Pirozzi usava un intercalare assai efficace. Non so se lo facesse apposta, ma, a furia di sentire ripetere “è vero”, non riuscivo più a distinguere il vero dal falso, mi sembrava che ogni frase pronunciata dal dottor Pirozzi fosse vera, sacrosanta.

Il business di cui parlava era una legittima e onesta attività imprenditoriale che avevo pensato di intraprendere, consistente nella produzione e nell’immagazzinamento di mascherine e sostanze disinfettanti da conservare per venderle a prezzo maggiorato nei momenti di crisi, facendole prima sparire dalla circolazione. Non era un’idea originale, era stata sfruttata abbondantemente nell’altro secolo, all’epoca dei virus mutanti, e aveva prodotto grandi arricchimenti.

Mi occorreva un capitale di partenza e, non potendo, in quel momento, rivolgermi ad altri, mi rivolgevo al Ministero della salute proponendo, in cambio del finanziamento dell’impresa, una partecipazione agli utili.

In caso di crisi epidemiologica, il Ministero avrebbe fatto mancare agli ospedali e ai comuni cittadini, per un certo tempo, le mascherine e i disinfettanti; poi le avrebbe acquistate dalla mia azienda a un prezzo maggiorato, potendo giustificare con l’emergenza la richiesta di finanziamenti al Ministero dell’economia. I guadagni si sarebbero ripartiti tra me, il ministro della salute e i dirigenti. Avevo previsto anche le tangenti necessarie per i politici. Un piano, modestamente, calcolato nei minimi dettagli. La mia richiesta di finanziamento era stata respinta; avevo fatto l’errore di presentarla di nuovo in epoca successiva al matrimonio di Maximilian. Da qui i sospetti del poliziotto. Pensava che io volessi trarre beneficio dalla conoscenza del segreto di Maximilian; che volessi ricattare il suocero.

Il dottor Pirozzi passava da un’espressione feroce a un’espressione impassibile, distaccata, quasi indifferente, a un’espressione dolce, compassionevole, come avesse voluto dire: poverino, hai sbagliato; confessa e saremo clementi. Poi ricominciava daccapo: feroce, indifferente, dolce. E così di seguito. Alla fine cedetti: mi dichiarai colpevole di avere nascosto, per fini abbietti, la presenza di un possibile suicida tra i miei vicini di piano; accettai di firmare un’autoaccusa che non avevo letto.

Mi ero convinto di essere veramente colpevole. Il dottor Pirozzi era stato capace di penetrare a fondo nel mio inconscio e di portare alla luce pensieri che non osavo rivelare a me stesso. Ero desideroso di espiazione.

Rimasi deluso quando seppi che, per errore, nella confusione dell’Ufficio Investigazioni, mi avevano fatto firmare un foglio nel quale mi dichiaravo innocente; mancando le prove e la confessione, il giudice istruttore dovette lasciarmi andare.

In seguito sono venuto a conoscenza di tanti particolari e, mettendo insieme le notizie come in un puzzle, ho trovato la spiegazione di ciò che era accaduto. Ma a quel punto, certamente, anche all’Ufficio Investigazioni sapevano tutto e non avevano bisogno delle mie informazioni. Infatti, dopo un po’ avvenne qualche cambiamento al Ministero della salute.

Il dottor Ulderico Buffardi fu spostato ad altro incarico (sostanzialmente declassato e messo a riposo forzato); il capufficio, che aveva acutamente raccolto le confidenze degli impiegati e avviato lo svolgimento della matassa creata dal dottor Buffardi e, in origine, dal dottor Spock, fu nominato Dirigente Superiore e volle presso di sé il vecchio Spirulicchio, che non era più in grado di lavorare e svolgeva egregiamente il compito di odiatore: ottenuta la sua vendetta sul figlio del dottor Spock, aspettava al varco Yoko e Ono.

I due bambini erano stati allontanati in tempo dal padre e sembrava non avessero patito conseguenze per quel contatto nei primi mesi di vita.

Peppenella non vedeva l’ora di festeggiare l’assegnazione del premio Nobel ai figli e aveva prenotato il vestito che avrebbe indossato durante la cerimonia di premiazione. Immaginando che in quell’occasione sarebbe stata intervistata da qualche giornalista della televisione, aveva preparato un discorsetto che ripassava ogni giorno davanti allo specchio.

Non avendo altro da fare, il dottor Ulderico Buffardi portava i due bambini a passeggio nel Giardino Pubblico, riparandoli dal sole con un ombrello e facendoli giocare nel prato.

L’erba ricresceva rapidissimamente, dopo essere stata falciata.

Nascoste tra i fili d’erba, c’erano le chiocciole. All’inizio questa scoperta destò meraviglia.

Erano anni che non se ne vedevano e si credeva si fossero estinte, come tutti gli altri animali, tanto che ai bambini delle scuole elementari si insegnava che esistono solo quattro specie di esseri viventi: i microrganismi (virus e batteri), gli arbusti, l’erba e l’uomo.

Poi gli scienziati ricordarono che le chiocciole sono ermafrodite, ogni individuo porta in sé gli organi per la riproduzione maschili e femminili. Pur non potendo autofecondarsi, questa condizione rende molto probabile la riproduzione, dal momento che due individui qualsiasi, incontrandosi, possono svolgere il ruolo di produttore di cellule uovo o di spermatozoi.

Un grande vantaggio. Da pochi individui, anche isolati in un piccolo gruppo, si può riformare la specie.

I potenziali nemici delle chiocciole erano scomparsi, tranne uno: l’uomo.

Però all’inizio, dopo la scoperta, l’uomo non fu nemico.

Gli uomini primitivi erano affascinati dagli animali. Li disegnavano sulle rocce perché colpiti dalla loro bellezza; è una mia tesi, che vale come le altre, per spiegare i numerosi ritrovamenti di disegni di animali risalenti a tempi preistorici. Sono convinto che quei disegni non rappresentino solo un fatto utilitaristico (segnalare la presenza di animali e organizzare la caccia), ma siano prodotti artistici, il risultato del bisogno dell’uomo di riconoscere e esprimere bellezza.

Che cosa vedeva di bello, di affascinante, l’uomo primitivo quando si guardava intorno? Vedeva gli animali.

Noi non vedevamo animali da tempo. Le immagini virtuali, televisive, non rimangono impresse come la realtà. Avevamo quasi dimenticato gli animali.

Per noi le chiocciole furono una bella sorpresa, una grande sorpresa.

Questo spiega la frenesia che ci investì quando trovammo le prime chiocciole nascoste tra i fili d’erba. Non pensavamo ad altro. Nel tempo libero i giovani abbandonavano i locali del karaoke e si riversavano nei prati alla ricerca delle chiocciole.

Eravamo incantati. Restavamo per ore, rapiti, a guardare quegli esserini striscianti. Ammiravamo il meraviglioso disegno della conchiglia.

Che gioia! Non eravamo soli! Sulla Terra c’erano animali diversi da noi!

Potevamo esplorare la loro anatomia, studiare le loro abitudini, i loro movimenti; potevamo guardarli con curiosità, con ammirazione, con paura; sperare, un giorno, di riuscire a comunicare con loro. Che tragedia essere stati soli per tanto tempo!

Che grande tragedia!

Gli adulti guardavano le chiocciole, i bambini le toccavano. Casualmente scoprimmo la gracilità dei loro scheletri: stringendo le dita, forse un bambino per primo, si ritrovò la mano impiastricciata di roba molle e di sottili pezzettini di conchiglia.

Qualcuno portò la mano alla bocca e … buono!

Si cominciò a cercare le chiocciole per mangiarle, soprattutto dopo avere scoperto che, spurgate, lavate e cotte erano ancora più buone.

Partì la “Sagra della Chiocciola”, che cominciò a svolgersi in continuazione, prima una volta al mese, poi ogni sabato, poi ogni giorno della settimana, dal momento che le chiocciole erano abbondanti; con la scomparsa della stagione fredda erano sempre disponibili, in grande quantità. I mangiatori di chiocciole si dedicarono a una raccolta continua e molto fruttuosa; nelle case, ma anche nei ristoranti, si sperimentò un menù alternativo alla solita bistecca artificiale, che sapeva di rancido (solo ora cominciavamo ad accorgercene).

Il menù più richiesto nei ristoranti aveva come ingrediente unico le chiocciole.

Sembra incredibile: i clienti rifiutavano le uova Ciù En Lai, il pane, la pasta, gli spaghetti, la pizza Bella Napoli con la mozzarella estratta dalla polvere di mattone, le polpette finte di finto manzo. Chiedevano unicamente chiocciole, cucinate in vari modi, e le divoravano.

Avvenne una rivoluzione nell’arte culinaria e un cambiamento importante nell’economia. L’industria alimentare subì un tracollo, tranne nei settori che si specializzarono per l’elaborazione e la conservazione di piatti a base di chiocciole.

Partì una bolla speculativa. Le azioni di tutte le aziende del settore raggiunsero valori incredibili.

Le chiocciole, che si trovavano in quantità enorme negli immensi prati che ricoprivano la Terra, hanno una mobilità molto limitata, non hanno alcuna possibilità di scappare, sono lente, strisciano su un organo molle che si chiama piede, lasciano una sottile bava un po’ schiumosa sul loro cammino.

Non avevano nemici naturali, non esistevano competitori, predatori, cacciatori: tranne l’uomo.

Per un po’ si fecero scorpacciate di chiocciole, poi, come sempre accade, il fenomeno rallentò, passò di moda, la bolla si sgonfiò, immensi capitali furono bruciati, i voli dalle torri si moltiplicarono.

Le chiocciole avevano cominciato a mostrare una certa invadenza.

Attaccati ai muri si vedevano i bellissimi gusci disegnati, segno della fragilità di questi molluschi, che, in mancanza di acqua, seccavano, morivano.

Yoko e Ono si divertivano a cercare le chiocciole tra i fili d’erba, a staccarle con due dita, vincendo la resistenza del piede. Quando ne trovavano una l’appoggiavano sulla panchina, accanto al nonno. Il nonno dava le sue spiegazioni e si divertiva anche lui; osservavano la chiocciola percorrere lentamente uno degli assi di legno, volgendo intorno le antennine visive e i tentacoli tattili, alla ricerca disperata di una via di fuga, fino a che i due bambini si stufavano e la schiacciavano con un sassolino.

Il dottor Ulderico diceva: «Ora che vi siete divertiti, pulite, perché qualcuno potrebbe sporcarsi sedendo sulla panchina».

Il problema con le chiocciole non fu il loro numero: erano, sì, assai numerose, ma morivano facilmente. Persino i bambini riuscivano a ucciderle, schiacciandole tra due dita o pestandole, quando erano stufi di giocare. Morivano anche da sole. Si inerpicavano su un muro, alla ricerca di chissà cosa, e seccavano, lasciando la conchiglia attaccata al muro.

Il loro numero crescente non creò disagio o preoccupazione. Col tempo si manifestò un altro problema: l’aumento delle dimensioni.

Ogni tanto si vedeva una chiocciola molto più grande delle altre.

All’inizio fu solo una curiosità, un divertimento; il divertimento si trasformò in preoccupazione quando le chiocciole grandi divennero sempre più numerose e sempre più grandi. Che succede? Ci domandavamo.

Ci aspettavamo una spiegazione da quelli che sanno, ma avevamo poca fiducia, perché quelli che sanno, quelli che hanno gli strumenti per porsi correttamente i problemi e trovare le risposte alle domande, avevano dimostrato di riuscire a proporre solo soluzioni che diventavano causa, esse stesse, di nuovi problemi.

Quei coglioni degli scienziati – ormai nella testa della gente la parola scienziato e la parola coglione erano indissolubilmente legate – avevano dimostrato di non possedere neanche il minimo di onestà per dire semplicemente: non so.

Per un po’ non parlarono del nuovo fenomeno; pensavamo: stanno studiando, si stanno scervellando per cercare di capire, ma non ce la fanno.

Bastava fare una passeggiata in un prato per vedere chiocciole sempre più grandi, sempre più numerose.

Finalmente uscì l’oracolo.

Squillo di trombe, il famoso motivo della colonna sonora di un film di altri tempi: il pezzo più grosso della scienza, casualmente cugino del ministro dell’istruzione e marito della presidente della Camera, si affacciò alla finestra televisiva della trasmissione più seguita e disse: «Evidentemente» – questo avverbio ci fece temere di stare per precipitare in un nuovo incubo – «Evidentemente le chiocciole crescono di dimensioni perché hanno a disposizione molta erba, si sovralimentano e, di conseguenza, i loro organi si ingrandiscono».

Tutti, proprio tutti, tranne gli ammanigliati con le autorità, pensammo: che imbecille! Che coglione!

Anche un bambino avrebbe potuto obiettare: «Come mai, illustre cattedratico, la specie umana, che per secoli si è sovralimentata in aree estese della Terra, mentre in altre aree si pativa la fame, non è diventata gigantesca? Secondo la sua teoria avremmo dovuto trovare giganti dove si mangiava troppo e nani dove si mangiava poco».

Basta vedere una fotografia, un filmato d’epoca, un modello dell’Homo Sapiens Occidentalis in un qualsiasi museo antropologico, per scoprire che questi nostri progenitori generalmente avevano una pancia spropositata, ma non erano giganti. Addirittura erano più bassi, più tarchiati di noi, pur assumendo sostanze nutritive in quantità eccessiva rispetto al fabbisogno.

Naturalmente il giornalista non osò porre questa domanda al luminare della scienza, ma la domanda girava, con una risatina, soprattutto nella testa delle persone che, dopo i disastri prodotti dalle direttive governative, avevano cominciato a riflettere (attività fortemente sconsigliata dai medici in tutte le trasmissioni televisive dedicate alla prevenzione delle malattie).

Le dimensioni delle chiocciole crescevano; cresceva anche la preoccupazione.

Non trovando una spiegazione convincente da parte della scienza ufficiale, molti di noi – quelli che avevano cominciato a far funzionare la testa – cercarono una spiegazione più logica, o meno stupida (non ci voleva molto) del fenomeno.

L’uomo ha bisogno di trovare spiegazioni. Anche se fare ipotesi non sempre aiuta a risolvere i problemi, possedere una chiave di interpretazione, una spiegazione razionale, ci consente di affrontarne le conseguenze con maggiore serenità. Aspettiamo con calma che la tempesta passi, se abbiamo capito perché scoppiano le tempeste; il fulmine ci fa meno paura, se riusciamo a ricondurlo a un fenomeno di elettricità statica. L’intelligenza ci rassicura.

Anch’io cercai una spiegazione. La trovai in un volume dimenticato.

A me piace girare e curiosare fra le bancarelle dei mercati che si svolgono il primo del mese nei giardini pubblici; in particolare, mi diverto a spulciare tra i libri antichi, fuori catalogo, dimenticati, polverosi, accatastati uno sull’altro. Mi capita di scoprire libri curiosi, interessanti, che nessuno più legge.

Su una delle bancarelle, tra i fumetti, le divine commedie, i decameroni, gli amleti, i miserabili, i davidcopperfield, le bibbie, i romanzi rosa, i gialli e le settimane enigmistiche, trovai un libro che s’intitola “L’origine delle specie per selezione naturale”. Non ricordo il nome dell’autore: un oscuro studioso, forse un autodidatta, un viaggiatore (alla fine capirete il motivo che m’impedisce di recuperare questo nome, capirete perché, purtroppo, non ho il libro a portata di mano).

È un elenco di osservazioni dettagliate, messe insieme dall’autore nel corso di lunghi viaggi in isole esotiche abitate da fantastici animali. Prendiamo per buono ciò che viene descritto, mi dissi, consideriamo seriamente le teorie esposte da un antico viaggiatore, vediamo se possono aiutarmi a trovare una spiegazione alternativa di un fenomeno preoccupante: la comparsa di chiocciole giganti, sempre più numerose.

In questo libro è illustrata una teoria sull’origine delle specie viventi. Si tratta di ipotesi, di una teoria, appunto, non di una dottrina: nessuna pretesa di verità.

La dottrina scientifica attuale, che ha avuto il merito di stabilire un collegamento con la Religione Universale, spiega l’origine delle specie con la Creazione per Noia.

Il Creato è noioso.

Sempre gli stessi pianeti, le stesse stelle, le stesse galassie, gli stessi buchi neri. L’Eternità, a lungo andare, stufa. Gli stessi tramonti (visto uno, visti tutti), il Big Bang che non si può rifare perché altrimenti si dovrebbe ricominciare daccapo.

Allora Dio, per distrarsi, ogni tanto crea una nuova specie. La crea, la segue per un po’, si annoia e non la segue più, provocandone l’estinzione. L’unica creazione che Dio segue sempre, in tutte le sue vicissitudini, è l’uomo. Perché Dio ama l’uomo (inteso come Umanità).

La teoria esposta nel libro di cui parlavo spiega la creazione delle specie con l’interazione tra mutazione casuale e selezione naturale. Non ci sarebbe, dunque, alla base, una volontà creativa, ma l’evoluzione, determinata dal caso (mutazione) orientata dall’ambiente (selezione).

Vediamo come si potrebbe spiegare la comparsa della specie Helix Maxima (nome volgare: chiocciola gigante) utilizzando questa teoria. È solo un esercizio intellettuale, sostanzialmente un gioco.

Quando erano presenti tutti i nemici naturali e i competitori delle chiocciole, una mutazione casuale, o un insieme di mutazioni, che avesse come conseguenza un aumento delle dimensioni, sarebbe stata svantaggiosa per la sopravvivenza. Le chiocciole più grandi sono più facilmente visibili nell’erba, più appetibili dai predatori, necessitano di una quantità maggiore di sostanze nutritive.

Ora l’unico agente della selezione naturale è l’uomo: l’erba è abbondante, il clima è caldo per tutto l’anno. In queste condizioni le dimensioni delle chiocciole fanno poca differenza, perché l’occhio umano riesce a distinguerle tra i fili d’erba, le dita umane consentono di catturare facilmente anche le più piccole.

Le grandi sono avvantaggiate: si muovono più velocemente e, con le antenne visive più grandi, riescono a esplorare meglio l’ambiente. Si potrebbe ipotizzare un peggioramento del sapore con l’aumento delle dimensioni; certamente è più complicato tenere insieme le più grandi il tempo necessario per spurgarle.

I macchinari utilizzati dall’industria alimentare per separare le conchiglie dalle parti molli sono tarati per dimensioni ridotte, perché all’inizio, quando furono scoperti nei prati, i molluschi erano piccoli. Di conseguenza i cercatori scartano le grandi e raccolgono le piccole. Anche i gourmet sono agenti della selezione, con il loro gusto raffinato che li porta a ricercare prodotti particolari, a privilegiare il piccolo rispetto al grande, percepito come volgare, rozzo, comune.

Le chiocciole grandi, dunque, sarebbero favorite dalla selezione operata dall’uomo. La velocità della riproduzione, una caratteristica che ha consentito alle chiocciole di non estinguersi, moltiplica la diffusione di una mutazione favorevole.

Questo processo richiederebbe tempi lunghi per portare all’affermazione di una nuova specie, ma le condizioni attuali sono particolari, la popolazione molto numerosa, l’agente della selezione, ridotto a uno solo, agisce sempre nello stesso verso; la velocità di riproduzione è notevole.

Le teorie sull’origine delle specie, tutte, non si possono verificare in laboratorio (solo, parzialmente, nel mondo microscopico); non si possono falsificare.

Dunque è possibile credere che la nuova specie sia nata per creazione, come molti scienziati ritengono, o per evoluzione, come ipotizzato utilizzando la teoria elaborata da quell’antico studioso. Non c’è la pallottola fumante, la prova decisiva che consenta di decidere con certezza. Il dubbio è profondamente inscritto nella condizione umana: ognuno può scegliere la spiegazione che gli sembra più ragionevole, sapendo che non è la verità.

A me la teoria dell’evoluzione è risultata convincente, quel libro mi ha affascinato, però non escludo con certezza che ci sia un Dio creatore, annoiato dal suo stesso creato. Solo di una cosa sono certo: se c’è, lo annoiano i canti, le preghiere, gli elogi gonfi di adulazioni che gli giungono quotidianamente dai fedeli. I cori degli angeli saranno anche belli, ma, a lungo andare, stufano. 

Le chiocciole giganti cominciavano a risalire le torri, a entrare nelle nostre abitazioni. Col passare del tempo divenne esperienza comune trovare lunghe strisce di muco schiumoso sui vetri delle finestre e vedere grosse chiocciole spostarsi lentamente sul soffitto o sui mobili. Il fenomeno cominciava a dare fastidio.

La cosa divenne veramente preoccupante quando le dimensioni delle chiocciole – giravano nei prati, risalivano i muri, penetravano nelle case, percorrevano le strade e si riproducevano facilmente – continuarono ad aumentare; non era raro vedere una chiocciola delle dimensioni di un uomo, fornita di una testa quasi umana, da cui uscivano le antenne visive e i tentacoli tattili che sembravano braccia.

Queste chiocciole gigantesche si muovevano con rapidità, pur continuando a strisciare sul terreno e a lasciare una bava disgustosa. Quando si ergevano sulla parte posteriore del piede, sollevando la conchiglia, sembravano minacciose e nessuno provava a schiacciarle.

Sulle strade statali, e persino sulle autostrade, erano avvenuti numerosi incidenti.

Capitava spessissimo, dopo una curva, di imbattersi in un gruppo compatto di questi molluschi giganteschi che coprivano tutta la corsia per chilometri. Gli automobilisti frenavano, sterzavano bruscamente, cercando di evitare la massa scivolosa di gusci, parti molli e bava; le ruote slittavano sul fondo stradale, le macchine si catapultavano e ammassavano una sull’altra. Arrivavano le ambulanze; i mezzi di soccorso, con molta fatica, riuscivano a sgombrare la strada dai veicoli incidentati, ma il lavoro più pesante consisteva nel liberare la corsia dalle centinaia di migliaia di chiocciole giganti, che intanto si erano spostate sull’altra corsia e avevano provocato altri incidenti.

Il problema diventò ancora più preoccupante quando le vasche da bagno, le docce, i lavelli nelle cucine divennero i luoghi di elezione delle chiocciole, che ricercavano i posti più umidi della casa.

Era inutile chiudere porte e finestre: bastava che in casa ne entrassero due, dopo un po’ si scopriva una numerosa famiglia di molluschi striscianti, che continuavano a riprodursi. Andavano dappertutto, potevano permettersi di esplorare l’ambiente, perché il cibo non mancava, l’erba dei prati era abbondante.

Con queste esplorazioni alcuni individui si sacrificavano, però la specie si affermava, si diffondeva, cercava di conquistare nuovi territori. Trovando di fronte a sé solo gli uomini, le chiocciole avevano avviato una competizione.

Gli uomini hanno un apparato digerente che non consente loro di nutrirsi di erba (cellulosa), e un apparato riproduttivo complicato (nove mesi per portare a termine la riproduzione). La sfida era tra animali semplici e animali complicati.

Credo che le chiocciole fossero convinte – mi si passi l’espressione cercando di cogliere il senso, non la lettera – che la semplicità, in natura, sia più forte della complicazione. I nostri antenati lo hanno scoperto a proprie spese nel secolo delle pandemie, quando furono rinchiusi in casa per lunghi periodi dagli esseri più semplici di tutti: i virus. Corsero il pericolo di estinguersi per colpa dei virus e riuscirono a sopravvivere rinunciando alla libertà. Quando il pericolo scomparve si erano abituati a questa rinuncia: votavano per chi prometteva la sopravvivenza a qualunque costo.

Le autorità politiche e scientifiche, nelle interviste televisive – ma, oramai, non appena vedevamo una di quelle facce cambiavamo canale – cercavano inutilmente di tranquillizzare la popolazione dicendo che le chiocciole si sarebbero estinte quando avessero completamente distrutto l’erba dei prati; ma sembrava più un auspicio che una previsione. E, riflettendo, lo stesso auspicio ci terrorizzava.

Le elezioni erano alle porte e, per la prima volta da tanti anni, il partito che deteneva il potere rischiava, in base a tutti i sondaggi, di perdere la maggioranza assoluta, democraticamente conquistata rivolgendosi costantemente alla pancia della gente.

Ora la pancia della gente gli si rivoltava contro.

L’avversario politico principale dell’attuale Presidente del Consiglio Planetario riusciva a portare a termine un discorso in televisione senza essere immediatamente interrotto e messo a tacere da un coro di voci di protesta registrate. I dirigenti della televisione valutavano la possibilità del cambiamento politico imminente e si adeguavano; sempre più spesso, nei telegiornali, gli errori commessi dalle autorità erano elencati con puntualità e rigore giornalistico.

Si verificò un episodio clamoroso: mentre un gruppo di giovani si esibivano allegramente con il karaoke (la trasmissione di intrattenimento più seguita a livello planetario, dopo le partite del campionato di calcio combinato con il football americano) si vide spuntare nel locale una grande chiocciola, che raggiunse il giovane impegnato nel canto e, puntandogli addosso le due antenne con funzione visiva, cercò, con i tentacoli tattili, di sottrargli il microfono.

Forse fu solo un’impressione; la trasmissione fu interrotta e da quel momento l’immagine del giovane terrorizzato che stringe il microfono, mentre la chiocciola rivolge minacciosamente i tentacoli verso di lui, fu riproposta in ogni trasmissione televisiva, con la scritta in sovrimpressione: «Quando ci libererete dall’invasore?»

In realtà il giovane non aveva corso alcun pericolo; nella scena successiva, se fosse stata trasmessa, si sarebbe visto che, riavutosi dalla sorpresa, aveva cominciato a tirare colpi di microfono sulla chiocciola gigante, uccidendola. Questa parte non fu trasmessa, per l’antico istinto degli autori e dei giornalisti televisivi a solleticare le paure della gente per aumentare l’audience. Molti erano pronti a cambiare bandiera.

Le chiocciole erano sempre più invadenti, la loro vita sembrava sempre più incompatibile con la nostra.

Era questo il concetto da sempre sostenuto dal partito politico all’opposizione, ridotto, fino a quel momento, a una minima rappresentanza parlamentare, per i grandi successi elettorali del partito di governo. Il capo del governo era un uomo qualunque; ma proprio qualunque qualunque. Era così qualunque che, vedendolo per strada, si poteva confondere con chiunque altro.

Per questo l’avevano votato: chiunque si identificava con lui. Aveva lavorato come controllore alla biglietteria di uno stadio vuoto. Non c’erano biglietti da controllare, il suo lavoro era inutile, ma nessuno se n’era accorto. Tutti i ministri erano qualunque, compresa la ministra dell’economia, una casalinga che aveva acquisito una grande competenza come amministratrice di un condominio formato da due appartamenti; uno dei due era il suo, l’altro apparteneva a una vecchia zia.

Il ministro dell’industria era uno che aveva gestito un’azienda da uomo qualunque (sebbene fornito di una folta capigliatura e di un aspetto tenebroso), l’aveva portata sull’orlo del fallimento, si era salvato facendo il guru, il santone, l’esperto di futuro. Il ministro dell’interno era un amante di selfie, di tweet, di like; ripeteva sempre le stesse cose e se la prendeva ossessivamente con gli immigrati dai paesi nordici che si erano rifugiati da noi per il peggioramento delle condizioni ambientali dovuto al riscaldamento globale.

Il rappresentante principale del partito avverso non dava alcun peso alla scienza antica, che chiamava “scienza galileana”, strascicando la lingua sulle elle, per esprimere disprezzo. Credeva alla scienza attuale, liberata dai residui legami con la scienza antica, con i vecchi principi, con il vecchio metodo di indagine basato sugli esperimenti e sulla misura.

«Il metodo sperimentale, la teoria gravitazionale, la relatività: balle!», diceva, «la penicillina, la vaccinazione, l’igiene personale: pericolose!», diceva, trovandosi d’accordo, in questo, con molti rappresentanti del partito di governo, i quali avevano le stesse convinzioni, ma, da uomini qualunque, le tenevano nascoste, evitavano di esprimersi in maniera netta.

Lui era fermo e deciso nelle sue affermazioni e le ripeteva in tutte le manifestazioni, che riunivano un numero sempre maggiore di simpatizzanti. Affermava, con fermezza teutonica, un’ideologia ben precisa, che prevedeva la distruzione preventiva di tutte le forme di vita diverse dall’uomo.

Egli sosteneva, ottenendo sempre più consensi, che era stato un errore consentire la sopravvivenza delle piante piccole e dell’erba nei prati, perché questo avrebbe, prima o poi, causato problemi all’uomo, come era accaduto.

Con il suo tono deciso, Gastone Hitler (solo un’omonimia con un personaggio storico ormai dimenticato) proponeva la ricerca sistematica di tutte le forme di vita, anche minime, anche microscopiche, ancora presenti sulla Terra, in qualunque luogo – nelle profondità dei mari, sulla cima delle montagne, in tutti gli strati dell’atmosfera, all’interno del nostro corpo («Tutta quella sterminata flora batterica nemica dell’uomo, responsabile dei mal di pancia che da sempre ci affliggono») – e di distruggerle, tutte, sistematicamente, senza pietà.

L’uomo puro, sosteneva Gastone Hitler, dev’essere l’unico essere vivente su questo pianeta: «Noi siamo i veri umanisti, questa è la soluzione finale» era la frase conclusiva di ogni discorso, lo slogan della campagna elettorale.

Fu la soluzione finale. Nelle elezioni, per la prima volta, il suo partito conquistò la maggioranza assoluta.

Per questo vi parlo da un’altra dimensione e non so a chi mi sto rivolgendo.

Dove siete?

Non vi vedo, non vi sento, riesco a pensare solo immagini confuse.

Dove siete?

Vedo un gruppo di ragazzi, sento una musica, sento una voce …

«Penso l’estate tutto l’anno e, all’improvviso, eccola qua …»