8 aprile 2019 h 18.10
Cinema Principe Firenze – via Giacomo Matteotti

Commedia

Dopo i cinematografari riuniti intorno a Cinecittà negli anni ottanta e novanta, distrutti da Paolo Virzì con Notti magiche, ora tocca ai cinematografari di tempi recenti essere colpiti e affondati da Luca Barbareschi.
In realtà Virzì è il regista di Notti magiche, mentre Barbareschi è il produttore di DOLCEROMA, tratto da un libro, Dormiremo da vecchi, scritto da Pino Corrias, un giornalista che conosce il mondo che descrive.

Bisogna, però, tenere presente che la trasposizione cinematografica del libro che racconta in modo crudo gli eccessi, la cialtroneria, la violenza verbale e fisica che domina la dolce Roma del cinema è stata fortemente voluta da Barbareschi, che ha affidato il film a un giovane regista quando ha capito di essere troppo vecchio per dare uno sguardo nuovo su un fenomeno già abbondantemente descritto: forse ha capito che non sarebbe riuscito a liberarsi da La grande bellezza di Sorrentino, che non è riuscito a liberarsi da La dolce vita di Fellini.

Questo emerge da recenti interviste di Barbareschi, rilasciate in occasione dell’uscita del film; quando ha detto a Stracult: «Ho capito che avrei fatto un film vecchio» che cosa intendeva? Credo intendesse che non sarebbe riuscito a liberarsi dall’influenza dei film precedenti, fra i quali bisogna mettere anche Loro 1 e 2 di Sorrentino, con le sue ragazze disposte a tutto pur di apparire sugli schermi (televisivi o cinematografici), la coca (non la famosa bevanda, quell’altra, quella con la cannuccia), le “cene eleganti”.

A proposito: Marco Giusti ha dato il punteggio massimo a questo film (in una graduatoria da 1 a 5).
Si vede che, come si dice a Napoli: «Marco Giusti aró vede e aró cèca», che significa: a volte giudica con gli occhi aperti, a volte con gli occhi chiusi.
Il punteggio è sembrato esagerato anche a lui, infatti ha aggiunto, come se volesse giustificare la generosità della valutazione: «è un film stracult».
Qui bisogna capirsi: qualunque film, se è stracult, cioè esagerato, volgare, girato male e interpretato peggio, merita il massimo dei voti? Qualunque stracult è un capolavoro?
Barbareschi ha affidato il film (regia e sceneggiatura) a Fabio Resinaro e ha indossato i panni del protagonista principale: il produttore Oscar Martello, con il quale, sembra di capire, sempre da recenti interviste, si è completamente identificato. Dal libro: il produttore dà agli sceneggiatori la prima rata del compenso pattuito per il loro lavoro, poi, al momento di pagare la seconda rata, quando i giovani gli presentano la prima copia della sceneggiatura, si fa prendere da una furia senza freni, li copre di insulti e male parole, li accusa – seguendo una scaletta collaudata – di essersi fatti trascinare dalla letteratura, la letteratura di cui «non frega a nessuno» – di essere scaduti nel «ma-nie-ris-mo», dice scandendo la parola e nel contempo mimando il gesto della masturbazione – di non avere costruito una sceneggiatura dotata di fondamenta narrative belle, larghe, solide (espressione di cui i giovani che lo ascoltano impauriti non hanno la minima idea di quale possa essere il significato, che, peraltro, neanche lui conosce).

Con queste sfuriate riesce a riempire gli sceneggiatori di sensi di colpa per non avere svolto il compito di consegnare la trama di un film di successo, elimina dal discorso ogni accenno alla seconda rata del compenso promesso, li spinge a lavorare sodo per rimediare al danno.
Da questo momento li tempesterà di telefonate ad ogni ora del giorno e della notte per dare suggerimenti e dettare il modo in cui deve svolgersi la storia raccontata nel film.

Queste cose, nel libro molto divertenti, nel film, strillate da un Oscar Martello che sembra continuamente sull’orlo di una crisi di nervi e in procinto di farsi ricoverare, non fanno ridere e, dopo un po’, annoiano.

Si sa che il pregio del libro è la velocità, il lampo: a volte una virgola comunica al lettore un significato, senza bisogno di tante parole, a volte una breve frase dice tutto («… e caddi, come corpo morto cade.»).

La stessa velocità si può ottenere nel cinema con le immagini, ma in questo film le immagini sono sempre le stesse: le feste, il faccione barbuto di Martello (Barbareschi) che sembra un vecchio avvinazzato e non comunica la vitalità del personaggio del libro.
Andrea, il personaggio interpretato da Lorenzo Richelmy, è uno scrittore rampante, ambizioso, desideroso di dare una svolta alla propria vita, eppure ci guarda come un cane maltrattato, quando lavora all’obitorio, quando partecipa alle feste, quando viene minacciato e picchiato dai camorristi (guarisce in un attimo dai pugni in pieno viso, pugni d’incontro che lo stendono, dei quali non resta traccia: il sangue, le ammaccature spariscono).
Richelmy mostra per tutto il film la stessa espressione depressa: gli occhi spalancati, le guance scese, le spalle piegate; chi gli ha chiesto di non cambiare espressione neanche una volta, neanche per sbaglio?
Ha la stessa espressione depressa mentre fa l’amore con Jacaranda (Valentina Bellè), l’attrice giovane, bella e “sbalconata”, come dice Andrea nel libro.

Naturalmente non è solo responsabilità dell’attore, che ha dato buone prove in passato (Marco Polo); c’entra il regista sceneggiatore nella trasformazione di questo personaggio centrale del racconto di Corrias – vitale, pieno di iniziative e di esperienze, sa muoversi con disinvoltura a Roma, nell’ambiente del cinema, ma anche a Parigi, dove si è nascosto con l’attrice per aumentare il clamore intorno al film in uscita – nel ragazzone depresso che si ritrova in un appartamento a Praga (bella città, ma, in quanto ad allegria, vuoi mettere con Parigi?) insieme ad un’attrice bella, giovane, ma completamente sbalconata, cioè svalvolata.

In effetti anche la Jacaranda del libro è abbastanza fuori di testa, ma pare che il clima di Parigi, le tante iniziative interessanti a cui può partecipare chi s’interessa di cinema, i bistrot, persino La Tour Eiffel e la fila per ammirare la Gioconda (fila interrotta perché, secondo Andrea, la Gioconda è sopravvalutata) contribuiscano a migliorare il suo umore, alcuni giorni dopo la fuga, prima che nell’appartamento dove si sono nascosti irrompa il produttore con il suo caviale e la sua furia distruttiva e autodistruttiva.
Il problema non è Parigi o Praga, puoi anche farli nascondere in una pensione a La Spezia, il problema è la capacità di ricreare il clima che lo scrittore ha rappresentato nel libro a cui il film è liberamente ispirato (Dormiremo da vecchi).
Liberamente vuol dire che le cose buone sono rimaste nel libro, le invenzioni strampalate sono state aggiunte ex novo.
Per esempio la fissazione per il miele della moglie del produttore, solo una scusa per mostrare la bellezza di Claudia Gerini, in una scena un po’ impressionante, se si pensa alla quantità di insetti che un bagno nel miele può attrarre.

Barbareschi si diverte, proprio ci gode a interpretare il suo personaggio; riempie le interviste di parole e frasi fintamente provocatorie: c’è qualcuno che ancora si scandalizza a sentire la parola “frocio”? Esiste ancora una lontana parvenza del politicamente corretto o della semplice “buona educazione”?

Da un po’ di tempo si presenta ad ogni intervista come se volesse imitare Gassman, che era un mattatore naturale; forse faceva il mattatore anche quando dormiva e dava l’impressione di non recitare, mentre invece Barbareschi si vede benissimo che finge, che gli piace presentarsi come quello che si è fatto da solo, che non ha mai vinto il David di Donatello perché era scomodo o perché non era comunista.
Scomodo per chi?

Mi ricordo quando fu scomodo per Fini, sulla cui barca era salito improvvidamente; si era anche commosso, forse perché aveva capito che la barca sarebbe andata a fondo poco dopo e non vedeva l’ora di salire su una scialuppa di salvataggio.

Questa dittatura comunista in Italia non me la ricordo, anzi ricordo che per anni il potere democratico è stato nelle mani della Democrazia Cristiana e artisti come Ermanno Olmi e Franco Zeffirelli, certamente non comunisti, hanno fatto una brillante carriera, ricca di premi e di riconoscimenti meritati (fra i quali il David di Donatello).

Comunque, mi sembra che attualmente Barbareschi non possa lamentarsi.

Il libro, dicevo, è scritto bene, rappresenta con distacco una realtà a volte drammatica, a volte divertente.

Il film è noioso; da un punto in poi non si vede l’ora che finisca, con tutti quegli inutili effetti speciali; per quanto tempo il salone ha continuato a bruciare mentre i due combattenti non si scottavano neanche un dito e non sembravano neanche sudati? Probabilmente alcune scene sono state girate senza tenere conto degli effetti speciali, aggiunti in post-produzione. Non si poteva chiedere ai due attori di rifare la scena tenendo presente che, al montaggio, avrebbero lottato su un pavimento invaso dalle fiamme?

Nel libro il personaggio del produttore privo di scrupoli e continuamente sopra le righe, con lo sfondo di un ambiente malsano, è credibile; nel film è una macchietta che non fa ridere.

Il poliziotto che indaga, evidentemente ipermetrope, porta costantemente gli occhiali in bilico sulla punta del naso, anche quando non deve leggere. Come mai? Normalmente i presbiti mettono gli occhiali in quel modo solo quando leggono.

Forse per renderlo più acuto? Per far seguire meglio la direzione dello sguardo?

È acuto anche quando prende per attori i veri camorristi che stanno minacciando il produttore, hanno tirato martellate sulla scrivania e lo hanno costretto ad aprire la cassaforte?

È un film che si muove sul paradosso, d’accordo, ma il paradosso dev’essere maneggiato con cura, con attenzione, con parsimonia.

E, comunque, dev’essere divertente.

Il libro è un thriller ben costruito, che fa crescere gradualmente la tensione; il film vorrebbe essere un thriller, ma suggerisce troppo presto la soluzione, prima ancora di avere creato la suspense; la stessa cosa capita nel film di Virzì (Notti magiche, commento 14 novembre 2018), un giallo con la soluzione incorporata nelle prime scene.

Forse sarebbe stato meglio lasciare nella fantasia dei lettori l’immagine di Oscar Martello, produttore cinematografico cialtrone, giocatore d’azzardo, bullo, perdente, immerso fino al collo nella monnezza della sua appiccicosa dolce Roma.