26 maggio 2018 h 18.30
Cinema Arsenale Pisa – vicolo Scaramucci, 2

Brigate rosse, terrorismo
// Il buco in testa (Antonio Capuano) // “Buongiorno, notte” e “Esterno notte: prima parte” (stesso commento) (Marco Bellocchio) // “Esterno notte: seconda parte” (Marco Bellocchio) // PADRENOSTRO (Claudio Noce) // Dopo la guerra (Annarita Zambrano) //

Se esiste l’inferno (pare che anche il Papa ne dubiti), facilmente ci troveranno posto i mafiosi, i camorristi, gli assassini che hanno ammazzato per motivi abbietti.
All’inferno, se esiste, non sapranno dove mettere i fessi che, principalmente negli anni settanta, ma anche in seguito, hanno commesso delitti, distrutto famiglie (le proprie e quelle delle vittime) per giocare a fare la rivoluzione.
Anche ai diavoli faranno schifo quelli delle brigate rosse e i corrispondenti, apparentemente opposti, in realtà uguali, terroristi neri.

Se qualcuno si è realmente pentito dei delitti commessi tanti anni fa, dopo avere scontato la pena ha diritto a rientrare nella società civile. Però, se vuole recuperare il rispetto perduto, deve: 1) cospargersi la testa di cenere (in senso figurato ma radicale), 2) raccontare tutto, fare nomi e cognomi dei complici, degli eventuali mandanti, 3) contribuire a illuminare le zone d’ombra rimaste, senza limitazioni omertose, 4) non cercare di attenuare le proprie responsabilità spargendole su un’intera generazione.
Se gli capita, o le capita, di andare in una scuola per spiegare agli studenti la propria esperienza, non si metta in cattedra. La cattedra non è il suo posto.
Gli ex terroristi non hanno da insegnare niente a nessuno; solo una lezione possono dare: non fate come me.

Gli irriducibili, i falsi pentiti, i dissociati che hanno avuto riduzioni di pena senza denunciare i complici, andranno (o sono andati) all’inferno (sempre ammesso che esista).
Non sono esperto dell’argomento e potrei trovarmi insieme a loro, in un girone diverso (io nel cerchio dove sono puniti “con Epicuro tutti i suoi seguaci / che l’anima col corpo morta fanno”). Minosse non avrebbe dubbi su dove collocarmi; invece mi diverte immaginare le telefonate concitate con Lucifero, conficcato nel fondo, per capire dove cavolo sistemare quei delinquenti che hanno commesso delitti per pura e semplice presunzione.
Giocavano a fare i rivoluzionari; si inerpicavano su percorsi ideologici più complicati della scalata dell’Everest, avevano letto qualche libro, di quelli che andavano di moda, qualche manuale di guerriglia dei tupamaros uruguaiani, i diari del Che, di cui si erano invaghiti.
Naturalmente leggevano senza riflettere sulla difficoltà di trasferire il contenuto delle letture a contesti diversi: prendevano tutto alla lettera. Ragionavano all’interno di un quadro generale assunto con atteggiamento fideistico.

Dicevano di muoversi come avanguardia della classe operaia e, effettivamente, alcune azioni di “guerriglia urbana” – se così si può chiamare l’incendio di una macchina o la scazzottatura di un capo del personale che stava sullo stomaco a qualcuno – avevano avuto un certo successo presso gli operai di qualche fabbrica milanese; almeno così dicono.
Da qui ad affermare che questa approvazione, mai verificata, li autorizzasse a proporsi come guida della classe operaia, ne corre.

La fede dichiarata era il marxismo-leninismo, che i più conoscevano per sommi capi.

Avevano orecchiato alcuni concetti, letto qualcosa. Il Manifesto, perché è breve; Il Capitale, non oltre la terza pagina (troppo complicato), le riviste, i giornali ciclostilati, che duravano uno o due numeri.
Dentro ai giornali e nelle lunghe assemblee si cucinava un po’ di Marx, un po’ di Lenin, due fette di Stalin, una spruzzatina di Mao.
Si andava avanti per slogan, si abbondava con le citazioni, sempre le stesse.

Il senso critico non se la passava bene a quei tempi.
I più pericolosi erano i meno coscienti della propria drammatica situazione intellettuale.
La maggior parte degli studenti gravitavano intorno alle formazioni di estrema sinistra, però, per fortuna, solo pochi s’impegnavano fino in fondo, ci credevano veramente e portavano fino alle estreme conseguenze l’adesione a gruppuscoli che profetizzavano la rivoluzione mondiale imminente.
Le prime comunità cristiane, sulla base di affermazioni contenute nei Vangeli e nelle lettere di Paolo, aspettavano da un momento all’altro il Giudizio Universale. Analogamente questi giovani aspettavano la Rivoluzione («Attenzione! Alle ore 18 comincia la Rivoluzione». «Ma sarebbe la Rivoluzione, quella vera?». «Alle ore 18 comincia la Rivoluzione». «È il processo. Fanno il processo a me, a te, a tutti quanti». «E chi lo fa?». «La classe operaia. È la dittatura del proletariato». «Alle ore 18 comincia la Rivoluzione»).
Modificato da Il Giudizio Universale, regia di Vittorio De Sica (1961).

L’idiozia dei vari capi e capetti, spesso figli dell’alta borghesia, saltava agli occhi.
Ricordo uno studente universitario, abitante in via Chiaia (ai napoletani basta questo per capire a quale ceto sociale appartenesse la sua famiglia).
Una volta entrammo insieme in una libreria. All’uscita mi fece vedere un libro che aveva sottratto con destrezza. Non aveva certamente bisogno di rubare un libro. Secondo lui si trattava di un gesto rivoluzionario, che non danneggiava l’impiegato ma il padrone della libreria. Non so come facesse a essere tanto sicuro che il padrone della libreria, probabilmente meno ricco di suo padre, non avrebbe accusato l’impiegato di scarsa attenzione.
Decisi di non entrare più da nessuna parte insieme a lui.
Furono questi piccoli e stupidi gesti l’embrione del cosiddetto “esproprio proletario” e, alla fine, dell’idea di poter raddrizzare il mondo compiendo atti storti.

Lo scenario della gioventù studentesca negli anni settanta è rappresentato in modo arguto, ma sconsolato, da Vittoria Ronchey in Figlioli miei, marxisti immaginari, Ed. BUR, 1975 (in copertina corteo di giovani stilizzati, sciarpa rossa, bandiere al vento, vuote).

Naturalmente c’erano anche i teorici, che avevano letto tutto o facevano credere di avere letto tutto (non era difficile in mezzo a tanta ignoranza).

A questo disastro aveva contribuito la progressiva distruzione della scuola avvenuta negli anni precedenti e proseguita fino a oggi con la semplificazione dei programmi scolastici.
L’eliminazione del latino dalla scuola media fu il primo passo, una tragedia di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze e ci ricordiamo ogni volta che sentiamo qualcuno massacrare la lingua italiana in televisione.
Abolito lo studio del latino (Rosa, Rosae … in prima media, le Fabulae di Fedro in seconda, il De Bello Gallico in terza), i professori di lettere parlavano di Lingua Madre a ragazzi che non avevano idea di come fosse organizzata. La Lingua Madre divenne un fantasma, un’espressione astratta, un modo di dire. Nessun riferimento fu più possibile alla concretezza della lingua, alle sue regole, al suo lessico, in gran parte all’origine del nostro.
Si abolirono gli esami di riparazione senza sostituirli con qualcosa di meglio, per esempio corsi estivi di recupero per aiutare gli alunni che non ce la facevano a mantenere il ritmo degli studi, sempre più lento.
Si abolì la memoria.
L’acquisizione di fatti, dati, scansione dei tempi, regole, dettagli, fu bollata come inutile nozionismo.

Nozionismo divenne la parola chiave per giustificare la mancanza d’impegno nello studio, insieme all’espressione cultura borghese.
Se non si aveva voglia di studiare una cosa, si diceva “nozionismo”; in alternativa si diceva “cultura borghese”.

I classici della letteratura? Cultura borghese.
Il congiuntivo imperfetto del verbo andare? Nozionismo.
Le poesie a memoria? Cultura borghese e nozionismo.

Gli alunni facevano le ricerche, cioè copiavano dalle enciclopedie, poi, con l’avvento dell’informatica, ai giorni nostri, si è passati al copia e incolla da un’unica fonte: Wikipedia.
Alcune idee sulla scuola erano entrate nella testa di tutti attraverso libri come Lettera a una professoressa, un libro che ha fatto del bene, ma, come capita, anche molto male (la colpa non è del libro, del film, della statua, del quadro, ma di chi lo usa).

Basta un niente: applichi le idee espresse in un libro meritevole e onesto a contesti diversi e il guaio è fatto. Come i conflitti sociali in Italia non erano paragonabili ai conflitti presenti nei paesi in via di sviluppo, come le democrazie occidentali non erano paragonabili ai regimi militari, così gli alunni delle nostre scuole non venivano tutti dalla campagna del Mugello, a nord di Firenze, a quei tempi povero e arretrato.

Un concetto semplice, elementare, non compreso dai riformatori superficiali. Realizzarono la scuola di massa a scapito della qualità.
Quando a scuola cominciarono ad andare tutti, andare a scuola divenne una perdita di tempo.
A nessuno venne in mente, neanche a don Milani, purtroppo, arroccato nella sua piccola scuola privata di montagna, che si potesse cercare di costruire una scuola pubblica gratuita, accessibile a tutti e di alta qualità: selettiva per il merito, non per la classe sociale di appartenenza.

L’eliminazione del merito, l’affermazione del diritto di chiunque, anche non capace e non meritevole, di conseguire qualunque titolo di studio ha avuto come risultato la rarefazione della competenza; quando si va dal medico bisogna sperare che il dottore non abbia studiato negli anni del sei politico a scuola o del diciotto garantito, degli esami collettivi all’Università.
Ora sono rimasti pochi vecchietti in quelle condizioni, probabilmente in pensione, ma purtroppo le loro idee hanno fatto scuola, sono penetrate all’interno degli organi decisionali, impegnati a impedire l’affermazione di una scuola seria, di un’università meritocratica.

La moltiplicazione delle sedi (quando apriranno una sede universitaria a Calcestrozzo di sotto, nello stesso edificio della scuola elementare?), la moltiplicazione dei titoli (Biologo con indirizzo igiene delle latrine nelle città del nord-est) e l’inutile corso triennale (non si è mai capito a cosa serva, forse a mettere un diploma appeso alla parete) hanno contribuito a ridicolizzare studi che dovrebbero essere seri, selettivi, impegnativi e sostenuti da un’antica tradizione.
I sindaci dei paesini oramai si presentano alle elezioni con il programma “Apriamo anche qui una sede universitaria”, con obiettivo sottinteso: una laurea per tutti i paesani e una libera docenza per i più svegli.

Il libro di Vittoria Ronchey, prima citato, è il diario di una professoressa di liceo che si trova a fare un’esperienza traumatizzante in una scuola “impegnata”. A pag. 79 è scritto:

«È per questo che sono purtroppo divenuta convinta, con sofferenza, che gli utopisti più pericolosi del nostro tempo – ancor più che gli urbanisti, i sociologhi ideologizzanti o i rivoluzionari anarcoidi – sono alcuni pedagogisti. Il principio pedagogico più pericoloso è che l’apprendimento dev’essere facile, privo di qualsiasi ostacolo, rispondere all’immediato interesse di chi ascolta (vero o falso che sia) e non ai suoi possibili interessi futuri.»

Condivido totalmente.

Erano anni in cui un movimento politico poteva chiamarsi Lotta Continua senza suscitare ilarità: che c’è di continuo nella vita? Poche cose, essenzialmente legate alle funzioni fisiologiche di base: respirare, alternare veglia e sonno, assumere alimenti ed eliminare i rifiuti.

L’arguzia napoletana soccorre in un libro o in un film (non ricordo) di Luciano De Crescenzo con la domanda ironica deli’ingegnere filosofo: «Ma questa lotta dev’essere per forza continua?».

Purtroppo il partito che aveva contribuito più degli altri alla liberazione dal nazifascismo, il PCI, stentava a liberarsi da un fondo di doppiezza (i cossuttiani facevano buona guardia) destinato a trasferirsi alle nuove generazioni.
Uno dei fondatori delle brigate rosse, Alberto Franceschini, proveniva dalla Federazione giovanile del PCI di Reggio Emilia, era figlio e nipote di partigiani, eppure non gli avevano insegnato che la democrazia – quella concreta, fatta di elezioni, parlamento, confronto con gli avversari politici, mediazioni, compromessi storici e non, quella che con disprezzo definivano borghese ed è costata lacrime e sangue – è patrimonio di tutti.

Non possiamo, però, prendercela unicamente con l’ambiente (la scuola, la famiglia, il partito) incapace di trasmettere i valori fondanti della nostra civiltà; c’è la responsabilità individuale, ci sono i comportamenti di chi passa all’azione eliminando ogni dubbio e, senza se e senza ma, si spinge da solo verso scelte sempre più catastrofiche e irreversibili.

Renato Curcio aveva fatto parte della galassia degli assistenti di Francesco Alberoni, preside della facoltà di Sociologia e poi, dal 1968 al 1970, rettore dell’Università di Trento (Alberto Franceschini, Pier Vittorio Buffa, Franco Giustolisi – Mara, Renato e io – Oscar Mondadori, pag.22).

Si tratta di quell’Alberoni che, molti anni dopo, avrebbe pubblicato libri che gli avrebbero fatto meritare la definizione di “sociologo da salotto”.
Vediamo alcuni titoli: Innamoramento e amore, L’erotismo, Il volo nuziale.
Altra definizione del professore: “il banal grande”; basta leggere l’incipit dei suoi libri per curare l’insonnia. Alberoni è stato uno dei primi opinionisti tuttologi televisivi.
Di lui Renato Curcio disse: «Alberoni ci prese sotto la sua ala e ci aprì una strada concreta». (Azz!)
Curcio superò tutti gli esami a Sociologia, tranne, per scelta politica, l’esame di laurea.
Dopo essere sparito dagli schermi televisivi per qualche tempo (non che se ne sentisse la mancanza!), Alberoni è ricomparso a novant’anni, candidato alle europee del 2019 per il partito che fa a gara con la lega a chi sta più a destra.
Altra perla di Curcio su Alberoni: «Ebbe l’idea di trasformare Trento in una specie di Francoforte: un’università sperimentale in cui si esprimessero tutte le tensioni che erano nell’aria». (AriAzz!)
Giorgio Bocca scrisse: «Tutti gli avventurosi, gli utopisti, gli spostati della penisola vi si diedero appuntamento». (Concetto Vecchio – Vietato obbedire – Rizzoli, 2005 e Francesco Merlo – La Repubblica Archivio, 21/05/2009)

Franceschini, Curcio e gli altri fondatori delle brigate rosse avevano fatto dei gesti squadristici: missioni punitive, incendi di locali adibiti a garage, sequestri di dirigenti industriali, fino a colpire un magistrato: il giudice Mario Sossi, sequestrato il 18 aprile 1974, tenuto prigioniero fino al 23 maggio. Il procuratore di Genova Francesco Coco, che aveva, giustamente, impedito la liberazione dei delinquenti chiesta dai brigatisti in cambio del prigioniero, fu ucciso due anni dopo, insieme ai due uomini della scorta: Giovanni Saponara e Antioco Deiana.

Franceschini, Curcio e compagni non si erano spinti a organizzare omicidi, anche se l’uccisione dei sequestrati e dei carabinieri rientrava nelle possibilità prese in considerazione (nessuna remora morale, altro fallimento dell’ambiente cattolico di base da cui alcuni provenivano, altra scelta individuale di cui sono responsabili).

Abituandosi sempre più all’esercizio della violenza pseudopolitica – chissà quanti dirigenti di azienda e quadri intermedi erano aggrediti solo perché stavano sullo stomaco a qualcuno, quante vendette personali erano mascherate da giustizia proletaria – e alle rapine per autofinanziarsi, si esaltavano con la sensazione di poter risolvere in quel modo la complessità del conflitto sociale e la durezza dell’impegno lavorativo: niente discussioni (o solo tra di loro), trattative, scioperi, niente orario di ufficio o alla catena di montaggio; bastava entrare in una banca e dire «Questa è una rapina» (stando attenti a non rifare la gag di Woody Allen in Prendi i soldi e scappa).
Gli impiegati di banca erano terrorizzati. Una volta i brigatisti riuscirono a portare a termine un “colpo” senza imbracciare le armi.

Franceschini aveva pensato di rapire Andreotti; riuscì a seguirne i movimenti. Andreotti andava a messa ogni mattina presto, sempre nella stessa chiesa. Lasciava all’esterno le due guardie che l’accompagnavano. Durante la funzione era privo di protezione. Franceschini riuscì a toccarlo, mettendosi in fila per la comunione (era un altro mondo, che i terroristi hanno contribuito a rovinare); arrivò fino alla preparazione del piano, poi, fortunatamente, fu arrestato e tolto dalla circolazione (8 settembre 1974), insieme a Curcio. L’operazione fu condotta dal generale Dalla Chiesa, con l’utilizzo di un infiltrato famoso: frate mitra.

Non sappiamo che cosa sarebbe accaduto se avesse portato a compimento il rapimento di Andreotti. Probabilmente lo avrebbe chiuso in un bugigattolo, torturato psicologicamente, interrogato inutilmente. Si sarebbe fatto strumentalizzare dai servizi deviati di vari paesi (compreso il nostro), l’avrebbe ucciso. Avrebbe fatto ciò che i suoi degni successori alla guida delle brigate rosse poi fecero con Moro.

Il comportamento di questa banda di delinquenti incoscienti era iscritto nell’automatismo delle loro reazioni. Esattamente come le oche di Lorentz ripetevano comportamenti dettati dall’imprinting e non distinguevano l’oca madre da uno straccio agitato al momento della schiusa delle uova.
Le ochette Franceschini, Curcio e compagni reagivano meccanicamente a input esterni. Non è necessario andare alla ricerca di grandi vecchi (vecchi coglioni) interni all’organizzazione; erano perfettamente manovrati, senza rendersene conto, da chi, all’esterno, aveva interesse a destabilizzare l’Italia. Bastava agitare uno straccio e lasciarli fare.

I fessi si arrabattavano, organizzavano, ammazzavano, si facevano ammazzare, si illudevano di condurre il carretto, come la mosca sulla coda dell’asino.

I delinquenti sistemati per tempo nelle patrie galere festeggiavano lugubremente, con frasi fatte pescate da Curcio nell’ozio della prigione, gli omicidi commessi dai compagni che avevano preso le redini dell’organizzazione.
Questi non si astennero dal trasformarsi in una banda di assassini, gettando la maschera delle motivazioni ideologiche.
Arrivarono persino ad ammazzare uno che non c’entrava nulla, il fratello di Peci, per ritorsione (e chissà quanti altri furono feriti e uccisi solo perché stavano sullo stomaco a qualcuno).

Testimoni e protagonisti di quel periodo affermano che dall’interno delle prigioni arrivavano ai “compagni” sollecitazioni a uccidere senza pietà. Ma sono testimoni (pentiti, dissociati) interessati a ridurre la propria responsabilità; non si sa quanto veritieri. La trasformazione di una banda di terroristi in una banda di delinquenti è automatica.

Nell’organizzazione dei delitti erano bravi: approfittavano delle carenze di un apparato statale inefficiente, infiltrato di altri delinquenti, piduisti o golpisti da operetta, e di raccomandati.
A loro favore giocava anche l’uso di una terminologia che agevolava la separazione dalla realtà: traducevano “ammazzare freddamente dei poveri poliziotti” con “neutralizzare la scorta”.

Ma, soprattutto, a loro favore giocava l’adesione incondizionata, senza se e senza ma, a teorie da loro stessi elaborate.
I più imbecilli tra loro, quelli che erano più degli altri privi di dubbi, comandavano. È una regola generale di ogni banda: i più presuntuosi, i più decisi dettano la linea.

Basti pensare che uno dei concetti continuamente ripetuti nei volantini di rivendicazione dei delitti, la lotta contro il cosiddetto SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali), era un parto del cervello, se la parola non è eccessiva, di Franceschini.

Questo l’ho sentito dire dallo stesso Franceschini, intervistato da Sergio Zavoli in una trasmissione televisiva di diversi anni fa, ora accessibile su RaiPlay, La notte della Repubblica; una ricostruzione puntuale, completa di quegli anni con interviste ai protagonisti.
Organizzavano sequestri, rovinavano persone, famiglie (le proprie e quelle delle vittime) sulla base di una pensata di Franceschini. Incredibile.

Ho dovuto fermare il programma e farlo tornare indietro per essere sicuro di avere sentito bene. Incredibile!
S’inventavano una cosa e quella cosa diventava l’interpretazione della realtà, in base alla quale passare all’azione eliminando i dubbi, compiere delitti senza se e senza ma.

Nella stessa trasmissione c’è un’intervista a Patrizio Peci, pentito dopo avere partecipato a molte azioni delle brigate rosse.

Trascrizione

Zavoli: «Senta Peci, ammesso che si possano fare graduatorie di questo tipo, c’è un omicidio che le pesa più di altri sulla coscienza?»

Peci: «Più degli altri … sì, bè, uno. È quello di un dirigente della Lancia che … si era andati per azzopparlo … poi il compagno che doveva sparare sparò tutto il caricatore e questo ebbe un infarto e morì. Diciamo che mi pesa di più perché, andando via, c’era Nadia Ponti, incontrai Nadia Ponti che mi disse: “guarda, ho visto l’autoambulanza con dei poliziotti dentro che avevano delle facce incredibili, penso che l’abbiamo fatta grossa, penso che ci sono delle complicazioni”. In quel momento mi è un po’ gelato il sangue perché anch’io avevo visto che c’era qualcosa che non andava. Cioè, normalmente, quando si colpisce qualcuno alle gambe, il personaggio urla. Questo urlava, effettivamente all’inizio, però, mentre andavo via, ho sentito che questo non urlava più. Infatti io in macchina ho detto a quello che ha sparato, gli ho detto: non è che per caso l’hai colpito alla pancia, non hai osservato bene le regole per non colpirlo in organi vitali? Lui ha detto: guarda, sono stato attento. Però rimaneva il problema di questo che non urlava. Questa cosa qui mi ha colpito abbastanza.»

Zavoli: «E per quelli che non urlavano le si gelava il sangue?»

Peci: (dopo un po’ di esitazione e di farfugliamento) «Si gelava il sangue, era sempre una vita tolta, quindi c’erano dei problemi, io sto dicendo che, rispetto a questo, c’erano più problemi di quanti ne avessimo normalmente. Le faccio un altro esempio. È capitato che dovevamo azzoppare una persona e l’abbiamo bloccata. Io ne avevo fatte già abbastanza di queste azioni, però era la prima volta che bloccavamo una persona. Questa persona fu bloccata, però era la prima volta che avevamo un contatto diretto. E questo mi fa: “per favore non mi sparate alle gambe”. Lì sono rimasto veramente male, anche perché gli altri due che erano con me, quindi questa non è una cosa che ho avuto soltanto io, anche se questa cosa poi non l’abbiamo più ripresa, mi guarda in faccia, io mi sono trovato a non sapere che fare. Se non la faccio sono cacciato dall’organizzazione. Allora ho detto: sparagli solo un colpo. In effetti fu tirato un colpo, può sembrare una cosa cattiva, però in quel momento, il fatto di avere il contatto umano con la vittima … già era cambiato qualcosa. In altri casi si sparavano tre, quattro, cinque colpi, anche in maniera cattiva qualche volta … invece lì, avendo il contatto umano, scambiandosi due parole, guardandosi negli occhi … c’è stata questa … diciamo questa … questa diversità. Può sembrare niente per chi è al di fuori, però per me è tanto, specialmente pensandoci ora.»

Zavoli: «Il contatto umano implicò di fare uno sconto in quel caso. Bisognava far tornare molti conti, facendo quel mestiere.»

Grande Zavoli!

Tutti o quasi tutti questi delinquenti sono, in un modo o nell’altro, a piede libero.

Alcuni se ne sono andati per sempre; per esempio Prospero Gallinari, che partecipò all’organizzazione di molti delitti, fra i quali l’uccisione a freddo, premeditata, dei poliziotti di scorta a Moro: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino.

Altri hanno scontato una pena, ma non si capisce perché, condannati all’ergastolo, siano liberi e possano lanciare le loro farneticazioni e ingiuriare le vittime attraverso facebook (recente episodio Balzerani).
Forse hanno dimostrato di essersi rieducati, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Se lo dice il giudice, sarà così.
Altrimenti non si capisce perché siano liberi, avendo accumulato più condanne all’ergastolo; la Balzerani è stata condannata per la strage di via Fani, per l’assassinio del sindacalista Guido Rossa, per l’omicidio di tre agenti, per l’omicidio del dirigente del petrolchimico Giuseppe Taliercio.
Più condanne all’ergastolo.
Avranno chiesto sconti di pena e dimostrato al giudice, con il proprio comportamento, di essersi rieducati.

Però questi rieducati dovrebbero stare attenti a non rivendicare con orgoglio il proprio passato: non riconoscevano lo stato, poi, per convenienza, hanno chiesto le riduzioni di pena, hanno cercato di convincere un giudice (i giudici erano i loro primi bersagli) di essere diventati bravini.
Grazie alle regole dello stato borghese e alla decisione di un giudice, che odiavano, hanno avuto la possibilità di rifarsi una vita, mettendo tra parentesi le loro vittime.

Altri ancora si sono dissociati o pentiti; la differenza è che i pentiti hanno denunciato gli altri delinquenti e corso molti rischi, i dissociati non hanno denunciato nessuno e hanno solo detto: forse abbiamo sbagliato, vabbè, non ci pensiamo più – e non si sono preoccupati dei delitti che i loro ex complici avrebbero continuato a compiere.

Si sono illusi di salvare la faccia: la scelta di Ponzio Pilato, la più comoda in quella situazione (e ogni tanto qualcuno di loro frigna perché in quel periodo i “compagni” li isolavano e li consideravano “rinnegati”).
Ora si fanno intervistare, purtroppo non da giornalisti seri, severi come Sergio Zavoli, per spiegare a loro modo quegli anni senza obiezioni.

Fra i dissociati c’è Valerio Morucci, che scandiva al telefono: «Via Caetani … CCae-ttani», con la voce nasale, il tono burocratico («Via CCae-ttani, prenda nota, ha scritto? non abbiamo tempo, dobbiamo chiudere la pratica»), per annunciare dove i familiari avrebbero trovato il corpo della vittima.

Ora è libero; in un’intervista del 2001 a Claudio Sabelli Fioretti si lamenta di “vivacchiare”, di avere difficoltà a lavorare per essersi troppo esposto, parla male di Franceschini – secondo lui odiava Moretti perché era innamorato di Mara Cagol, la moglie di Curcio, che, sempre secondo lui, era stata con Moretti; poi racconta che quando lui, Morucci, si è dissociato, Franceschini voleva farlo ammazzare per interesse personale: piccole rivalità, pettegolezzi, meschinità di piccoli uomini.

Morucci si è rifatto una famiglia, forse dorme sonni tranquilli.

Afferma di non esprimere rimorso per i delitti commessi perché, secondo lui, prima dovrebbe avere rimorso chi ha lanciato le bombe su Belgrado. Uno strano modo di ragionare. Allora qualunque assassino può dire la stessa cosa, qualunque delitto è giustificato. Con questo ragionamento anche Hitler, intervistato all’inferno, potrebbe dire: io ho organizzato lo sterminio degli ebrei, ma quegli altri hanno lanciato due bombe nucleari. Tutti colpevoli, tutti assolti? Le solite stronzate. Il solito modo di trovare alibi, scuse, giustificazioni, di alzare la mano con il ditino puntato: «È stato prima lui!».

Anche la ex compagna di Morucci e complice di quegli anni, Adriana Faranda, recentemente intervistata da Ezio Mauro, si è rifatta una famiglia.
Ora fa la fotografa e forse dorme sonni tranquilli.

Intervistata da Sabelli Fioretti (11 ottobre 2001) dichiara testualmente: «Finché l’organizzazione è attiva non si può chiedere a membri che ne hanno fatto parte di raccontare quello che è accaduto con nome e cognome dei protagonisti».
Qualcuno vuole spiegare alla signora fotografa che questo si chiama O.M.E.R.T.À?

Chissà come se la coccolano nei salottini intellettuali! Compagna del grande fotografo, ex complice di assassini, autrice di ben due azzoppamenti (Emilio Rossi e un professore universitario), del ferimento di due agenti della Digos; un curriculum di tutto rispetto.
Mentre i suoi compagni, che avevano trucidato cinque poliziotti, torturavano Moro (tenere un prigioniero sotto la minaccia di morte è una forma di tortura), faceva diligentemente la “postina” delle br.
Immagino la precisione con cui svolgeva il proprio compito, mettendo a tacere i dubbi che, spero per lei, forse aveva, per … .
Per che cosa metteva a tacere i dubbi, se li aveva? Fede nella rivoluzione che sarebbe scoppiata di lì a poco? Fiducia nei confronti di quegli scalzacani che non dovevano essere molto in sé? Di quei fessi che giocavano a fare i “rivoluzionari”?

Ha accettato l’uccisione a freddo dei poliziotti della scorta: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino.

Tenga a mente questi nomi.

Ha accettato gli urli di disperazione degli azzoppati, descritti da Patrizio Peci, quando si accorgevano di essere finiti nelle mani di belve feroci.
Ha accettato l’uccisione a freddo di Aldo Moro.
Forse ha accettato per obbedienza.
«L’obbedienza non è più una virtù» non si deve riferire solo ai cappellani militari, com’era nelle intenzioni di don Milani.
Si deve riferire anche a quelli che disobbediscono allo stato e obbediscono ciecamente a quattro imbecilli che giocano a fare i “rivoluzionari”.
Si deve riferire a quelli che cancellano i dubbi e obbediscono a una fede (religiosa o politica, ideologica, è lo stesso).
Ma allora non si agisce più?
Meglio non agire che avere sulla coscienza la mamma di uno dei poliziotti che, mi ricordo, al funerale del figlio disse, nel suo dialetto meridionale, da sotto lo scialle nero: «in campagna si mangiava pane e cipolla, mio figlio era andato a Roma per lavorare». La povera donna sarà morta di disperazione.

Non è che mi dispiaccia se questi due, Morucci e Faranda, e altri che hanno combinato tanti guai, dormono tranquillamente, se nessuna immagine insanguinata di un uomo che implora misericordia disturba il loro sonno.

Il problema è che nessuno ammette apertamente, senza giri di parole: «Ero uno stronzo (o una stronza, a seconda). Credevo di avere capito tutto, invece non avevo capito niente, ero influenzato/a da altri più stronzi di me o intenzionati a strumentalizzarmi per giocare a fare i capi guerriglieri.»

Se, una volta per tutte, chiedessero perdono alle vittime, dirette e indirette, della loro stronzaggine – senza cercare giustificazioni con i delitti degli altri o con il “clima” di quegli anni o con i “comunisti” uccisi dalla polizia o con le stragi di stato, mescolando situazioni, vicende, episodi molto diversi tra loro – se denunciassero i furbi che se la sono cavata pur essendo colpevoli come loro o peggio di loro, e poi sparissero nell’ombra – «Vuole intervistarmi? No grazie, ho detto tutto, proprio tutto nel processo, senza proteggere nessuno, ho fatto arrestare tutti i miei complici, perché è l’unico modo per salvare il mio onore, perché non voglio essere responsabile, anche solo per omissione, di altri delitti, perché non si può ricominciare a vivere coltivando l’omertà, perché i feriti, gli azzoppati, i familiari dei morti hanno il diritto di sapere nome, cognome e indirizzo degli assassini (possibilmente l’indirizzo: carcere di San Vittore, cella numero …)» – se facessero tutto questo, si potrebbe anche cercare di dimenticare quello che hanno combinato e chiuderla lì.

Invece stanno sempre a spiegare, a contestualizzare, ad argomentare, a presentare le cose a modo loro, qualche volta addirittura a mettersi in cattedra, a proporre soluzioni. Soluzioni di che? Fortunatamente li abbiamo sconfitti e solo perché sconfitti si sono arresi (in vari modi, scegliendo ognuno quello che più gli conveniva).

Quando li sento spiegare le cose a modo loro – col linguaggio dei volantini che non hanno mai dismesso, pentiti perché non hanno vinto, incapaci di fare tutti i conti (come dice Zavoli) con un passato di spietati assassini e di complici di assassini – mi dispiace di non credere ai fantasmi.

In una conversazione con Paolo Borrometi (16 novembre 2013, “la spia”, testata giornalistica indipendente “contro ogni forma di mafia”) Faranda afferma:

«Le Br stavano simulando uno Stato in sedicesimo, avevano i tribunali del popolo, le carceri del popolo, le condanne in nome del popolo, allora invece di trasgredirla la convenzione di Ginevra, che ti vieta di fare del male ai prigionieri, figuriamoci di ucciderli, si doveva farla quella simulazione fino in fondo e dare la grazia ad Aldo Moro. Allora sì che ci saremmo dimostrati, anche eticamente, superiori al nemico che stavamo combattendo».

Parla di un delitto come fosse un errore.
L’interlocutore non le chiede: chi vi autorizzava a organizzare tribunali del popolo, carceri del popolo? Quale popolo vi aveva incaricato di formulare condanne a suo nome, emesse dagli assassini autonominati giudici?
Se aveste deciso di liberare Moro, questa sarebbe stata solo una resa, non la “grazia” concessa da uno “stato in sedicesimo”, che esisteva solo nella sua mente. Lei ha partecipato a una banda di delinquenti. Senza rendersene conto? Strano!
I suoi complici l’avevano capito meglio di lei (non so se più illusa o incosciente o alla ricerca disperata di una giustificazione), per questo si opponevano alla liberazione del prigioniero.
Il riferimento alla convenzione di Ginevra nel vostro caso è assurdo (non c’erano due stati nemici in guerra) e se anche aveste liberato Moro, dopo avere ammazzato gli uomini della sua scorta e dopo la infinita catena di delitti, grandi e piccoli, di cui vi eravate macchiati, non vi sareste dimostrati eticamente superiori a nessuno. Sarebbe stato un atto di resa, l’unico possibile in quella situazione.
Lei ci ha pensato troppo, Faranda, prima di arrendersi. È scappata con i soldi e le armi insieme a Morucci, ha chiesto aiuto a Lanfranco Pace, è stata arrestata a casa della figlia di un agente del KGB.
Poi, quando la sconfitta delle Br era nei fatti, si è dissociata. Non so quale contributo abbia dato all’arresto dei suoi complici, unico modo per impedire che continuassero a commettere delitti.

In un incontro con Agnese Moro, reperibile su youTube, che si è svolto martedì 11 aprile 2017 alle ore 10.30 presso l’Auditorium del Liceo Leonardo da Vinci di Maglie (della serie “Incontri possibili”), Adriana Faranda, dopo una premessa sul manicheismo presente nella società (da che pulpito), racconta come a diciotto anni, provenendo da una famiglia che l’aveva troppo protetta – le famiglie italiane cercano di proteggere i figli; questi, che hanno avuto il privilegio di essere protetti dalla famiglia, dovrebbero avvertire il dovere di non massacrarla di dolore con il proprio comportamento – si iscrisse all’Università di Roma e, attraverso un percorso che passa da Potere Operaio e comprende un matrimonio e il concepimento di una bambina, si unì ai gruppi che consideravano necessario lo “strumento della violenza” per risolvere l’ingiustizia sociale e “fronteggiare la controparte”. Senza i soliti, inutili, giri di parole del politichese brigatista, avrebbe potuto dire, semplicemente, che entrò nelle brigate rosse.
Poi continua:

« … dov’è che per me si blocca tutto e comincia a entrare in crisi la mia scelta? Si blocca proprio con il punto che viene considerato il più alto dello scontro e anche l’inizio della fine: il sequestro del papà di Agnese [Fino a quel punto andava tutto bene: omicidi, azzoppamenti; tutto normale, accettabile, per la studentessa “troppo protetta” dalla famiglia. Uscendo da quella protezione era entrata in guerra. Qui ci vorrebbe un buon psicanalista (nota mia)].
Lì, durante quel periodo, io mi rendo conto che stiamo trasgredendo tutto, che l’illusione di poter esercitare violenza, di fare lotta armata conservando dei codici morali si rivelava assolutamente falsa e illusoria [Ce n’è voluto per scoprirlo! Questa qui pensava che fosse possibile ammazzare la gente e conservare codici morali].
La guerra, di per sé, scardina tutto, non possono esserci principi etici che sopravvivono
[Credeva che fosse possibile farsi giudice e boia e conservare principi etici].
A quel punto io mi rendo conto che quella è l’azione più spregevole, più orribile, che, in nome della rivoluzione, si possa fare: uccidere un prigioniero. Uccidere un prigioniero che tra l’altro ha fatto dei discorsi molto, molto espliciti. Una persona che noi non avevamo compreso, tra l’altro. Noi pensavamo che fosse l’innovatore, quello che parlava di rinnovamento, e quindi fosse la persona più pericolosa per noi, per la quale lo stato e il suo partito avrebbe fatto qualunque cosa pur di riaverlo.
Questo è stato un duplice errore [Organizzare un pluriomicidio e un rapimento non è un delitto, è un errore. Rapire Moro perché innovatore e pensando che lo stato si sarebbe piegato al ricatto non è un delitto, ma un duplice errore].
Nel senso che il rinnovamento di cui parlava il papà di Agnese non era il rinnovamento che noi immaginavamo voluto dalle multinazionali [Ma che dice? Ancora con lo Stato Imperialista delle Multinazionali! Ancora con la SIM inventata da Franceschini! Questa non ha capito che si tratta di farneticazioni. Moro non era ciò che loro immaginavano perché ciò che loro immaginavano era un’invenzione di Franceschini, come riferisce lui stesso nel libro sopracitato e nell’intervista a Zavoli. Sulla base di questa invenzione si era organizzata l’uccisione a freddo di cinque uomini, il rapimento, la prigionia, l’uccisione di Moro].
E poi … [Scuote la testa]. C’era anche tutto il discorso che Moro fu … abbandonato … fu abbandonato da tutti [Ripete, rivolgendosi verso la figlia di Moro, come per cercare approvazione; scuote la testa, si passa la mano nei capelli] …»

Commovente, proprio commovente: fu abbandonato da tutti, non dai complici della Faranda, che non lo abbandonarono, lo giustiziarono.

La complice degli assassini di Moro si riferirà en passant ai poliziotti della scorta trucidati a freddo (dice in sostanza, non letteralmente: erano armati, dentro una logica di guerra sembrava normale ammazzarli).
Che cosa ha detto? Il “papà di Agnese” era un prigioniero e fu abbandonato dai suoi amici e dallo stato. Loro, i bravi giustizieri, non se lo aspettavano, poveretti! Volevano restituire Moro dopo averlo umiliato (come i “capi storici” avevano fatto con il giudice Sossi, per poi uccidere il giudice Coco che si era opposto allo scambio) e, dopo avere ammazzato a freddo cinque uomini, volevano ottenere in cambio una piccola cosa: il riconoscimento come controparte dello stato e la liberazione di qualche delinquente. È il colmo.
Si mette in cattedra.
Moro fu abbandonato da tutti, non dai brigatisti, per i quali faceva diligentemente la postina, faceva pervenire ai familiari le lettere disperate del prigioniero, che dovevano servire ad attuare il ricatto. I suoi complici, purtroppo, non abbandonarono Aldo Moro. Lo ammazzarono, puntandogli a freddo uno skorpion in faccia, o sparando una raffica dopo averlo fatto rannicchiare nel bagagliaio di una Renault (non c’è ancora una versione definitiva degli ultimi momenti del “papà di Agnese”).

Il resto del discorso è più onesto, ma soprattutto sono apprezzabili ed emozionanti, anche se non sempre condivisibili, gli interventi di Agnese Moro.

Io non riuscirei a perdonare, anzi: non vorrei perdonare.
Sia chiaro: non sono per la vendetta, per l’“occhio per occhio, dente per dente”, che serve solo a moltiplicare ciechi e sdentati. Credo che lo stato, non il singolo, debba infliggere giuste pene a chi ha commesso delitti. Ma si tratta di pene, giuste pene, non torture, ma neanche vacanze organizzate, con sconti, amnistie, eccetera.
Però, anche dopo che il delinquente ha pagato il conto con la giustizia, quando non è più un delinquente ma un ex delinquente, e ha diritto di trovare un posto nella società (nell’ombra, soprattutto: nell’ombra), non accetterei di sedermi in cattedra accanto a una persona che è intervenuta così pesantemente nella vita degli altri.
Non perdonerei e non dimenticherei, soprattutto se queste persone, che si dicono pentite di ciò che hanno fatto, non hanno contribuito, non contribuiscono a colpire tutti i complici che sono riusciti a farla franca (mi riferisco alla dichiarazione omertosa resa da Adriana Faranda nell’intervista del 2001 a Sabelli Fioretti).

Quante persone facevano parte del commando che trucidò la scorta di Moro? Nove, secondo il memoriale Morucci nella prima stesura; più di dodici, rispondendo, lo stesso Morucci, a una domanda dell’onorevole Luciano Violante in un’audizione della prima Commissione Moro. Ha detto la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità? L’ha mai detta? Ha mai raccontato tutto ciò che sapeva?

La cosa che proprio non si può digerire è che alcuni di questi delinquenti, condannati all’ergastolo nei tre gradi di giudizio, non abbiano fatto neanche un giorno di carcere.
Per esempio quello che fa rivoltare nella tomba un eroe risorgimentale ogni volta che lo nominano: Cesare Battisti (vedi post-scriptum).

Sono stati protetti dall’assurda “dottrina Mitterand”, che consentì a molti delinquenti (erano contro lo stato imperialista delle multinazionali, ma si facevano aiutare volentieri dallo stato francese) di non essere catturati, nonostante fossero inseguiti da condanne definitive per reati gravissimi emesse da tribunali italiani.
Cambiati i tempi, l’assurda “dottrina Mitterand” è stata abbandonata dalla Francia; ciò ha costretto delinquenti ricercati, come Battisti, a cercare rifugio in altri paesi.

Il film, non a caso francese (regista italiana), che ho visto al cinema Arsenale di Pisa, racconta la storia di uno di questi assassini, riuscito a sfuggire per vent’anni la pena dell’ergastolo a cui un tribunale italiano lo aveva condannato per l’uccisione di un giudice.
Nel 2002 un professore universitario, favorevole all’abolizione dell’articolo 18, viene ucciso da terroristi che si ispirano al gruppo fondato in altri tempi dal delinquente rifugiato in Francia.
Il clima politico è cambiato, così il terrorista, forse ex, rischia l’estradizione in Italia.
Comincia la fuga, il tentativo di scappare con documenti falsi in Nicaragua, l’ultimo paese disposto ad accoglierlo.
Nella fuga, seguendo una vecchia abitudine, cattura la figlia adolescente, non letteralmente ma esercitando una forte pressione psicologica e un ricatto affettivo.

La ragazza non ne può più.

Il padre non pensa di lasciarla libera di vivere la propria vita, libera di fare le proprie scelte (non è una bella prospettiva, per una ragazza cresciuta in Francia, andare a vivere in Nicaragua).

Il film mostra come questi delinquenti siano prontissimi a rivendicare i propri diritti («La Francia non può rimangiarsi la parola», «L’unica soluzione è un’amnistia estesa a tutti») e a coinvolgere nei propri guai i familiari innocenti (la figlia, la madre, la sorella sposata a un giudice); il problema si risolve solo con la morte del terrorista, provocata, senza volere, dalla figlia.

Il film si chiude con l’arrivo in Italia della bara (una bara proporzionata alle dimensioni dell’attore, Giuseppe Battiston, che interpreta la parte del terrorista) e, insieme, della ragazza, attesa dai familiari incolpevoli.

Un friccico di speranza, come “un friccico de luna tutto per noi”, è acceso negli occhi di tutti (non c’entra nulla, ma sento, come sottofondo, provenire dalla televisione la voce di Nino Manfredi che canta Roma nun fa’ la stupida stasera). Hanno sofferto abbastanza; finalmente sono liberi! (Questa è la mia lettura del pensiero nascosto dietro allo sguardo della ragazza e dei familiari incolpevoli).

POST-SCRIPTUM

Aggiornamento (gennaio 2019)

Il pluriomicida, pluricondannato all’ergastolo, Cesare Battisti è stato finalmente catturato e estradato in Italia, dove sconterà la pena alla quale fu condannato tanti anni fa.
È un bene che sia stato catturato, ma mi domando: a che cosa è servito fare la parata per andare ad accoglierlo all’arrivo a Fiumicino?

Per quale motivo due ministri del governo (lega – cinque stelle), Salvini, Interni, e Bonafede, Giustizia, sono andati in aeroporto ad attenderlo? Per fare che?

Per mettersi in mostra, per attribuire a sé stessi il merito della cattura del latitante, cattura richiesta da tutti i governi che si sono succeduti negli anni e ottenuta solo in conseguenza del cambiamento politico avvenuto recentemente in Brasile.
Per non parlare delle parole sconnesse di Salvini («Battisti deve marcire in galera») e del video postato nei giorni successivi da Bonafede, con l’esposizione della preda nel corso degli adempimenti per l’ingresso nel carcere.
Sembrava che questi due soggetti (fa male allo stomaco pensare che sono ministri) facessero a gara per sfruttare a fini elettorali la cattura di un criminale.

Salvini e Bonafede, evidentemente, non hanno il minimo di cultura giuridica necessario per capire che lo stato è legittimato a mettere in carcere i brigatisti perché si comporta in modo diverso da loro: non espone i prigionieri, come fecero le brigate rosse con Aldo Moro.