10 giugno 2022 h 17.15
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r

Film di Marco Bellocchio su questo sito
// Buongiorno, notte // Marx può aspettare // Esterno notte: prima parte // Esterno notte: seconda parte // Rapito //

Temi
Brigate rosse, terrorismo
// Il buco in testa (Antonio Capuano) // “Buongiorno, notte” e “Esterno notte: prima parte” (stesso commento) (Marco Bellocchio) // “Esterno notte: seconda parte” (Marco Bellocchio) // PADRENOSTRO (Claudio Noce) // Dopo la guerra (Annarita Zambrano) //

La Storia siamo noi
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Ho fatto bene ad aspettare la seconda parte di Esterno notte, che raccoglie le ultime tre puntate della serie, per esprimere un giudizio.
La prima parte (le prime tre puntate) mi aveva lasciato perplesso.
Mi sembrava mancasse la compattezza di “Buongiorno, notte”, il film del 2003 di Marco Bellocchio sull’affaire Moro, titolo del libro di Leonardo Sciascia.
Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio editore Palermo, autunno 1978, seconda edizione 1983 (foto in testa al commento).
Il libro uscì pochi mesi dopo la conclusione drammatica della vicenda (strage di via Fani: 16 marzo 1978; ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani:  9 maggio 1978), quando molte cose non si sapevano, molti brigatisti erano latitanti o, se in galera, irriducibili.
Nella seconda edizione (1983) fu aggiunto, in fondo al libro, il testo della relazione parlamentare che Leonardo Sciascia, deputato radicale, aveva presentato e firmato da solo, in aggiunta alla relazione di maggioranza (DC, PCI, PSDI, PRI) e ad altre di minoranza (una PSI, una PLI, una MSI-DN e una del commissario Raffaele Della Valle) alla conclusione dei lavori della prima Commissione parlamentare bicamerale che si costituì sul caso Moro (istituita nel 1979, terminò i lavori nel 1983).
Successivamente, in tempi più vicini a noi, il libro è stato pubblicato, sempre con l’aggiunta della relazione parlamentare di Sciascia, dalla casa editrice Adelphi.

In considerazione dei tempi in cui è stato scritto, L’Affaire Moro – nel titolo un riferimento all’Affaire Dreyfus e al J’accuse di Émile Zola – potrebbe essere considerato quasi unicamente un documento storico o letterario, ma non è così. È molto di più.
Contiene riflessioni valide anche ora che i processi si sono conclusi, altre commissioni hanno lavorato, i brigatisti si sono divisi tra pentiti, dissociati, espatriati e morti (non so se qualcuno abbia scontato interamente gli ergastoli o i venti, trent’anni di detenzione a cui molti di loro erano stati condannati); altri episodi sono venuti alla luce o sono rimasti avvolti nella nebbia.
È interessante, in particolare, l’analisi delle lettere di Moro, che allora furono derubricate da politici, intellettuali e, persino, dagli inquirenti, a testi scritti da un uomo che, costretto in una prigione, non era in grado di esprimersi liberamente, forse scriveva sotto dettatura o si trovava in una condizione di alterazione psichica indotta da sostanze stupefacenti. Furono ritenute, o si finse di ritenerle, prodotto della mente alterata di un uomo alle soglie della pazzia. Si ventilò l’ipotesi che Moro fosse stato drogato; l’autopsia, eseguita dopo il ritrovamento del cadavere, escluse questa possibilità: nel corpo non c‘erano tracce di sostanze stupefacenti.
Attraverso l’analisi delle lettere che conosce (altre, non consegnate dai brigatisti ai destinatari o consegnate ma non rivelate da chi le aveva ricevute, sono state scoperte in tempi successivi), Sciascia individua il metodo che Moro, lucidamente, seguiva per trovare una soluzione e identifica i messaggi che cercava di far pervenire all’esterno, utilizzando parole e frasi cifrate (esempio: ”mi trovo in un dominio incontrollato” = mi trovo in un condominio che non avete controllato) per scavalcare la censura dei brigatisti e fornire agli inquirenti informazioni sul posto in cui era tenuto prigioniero.
Usava la sua intelligenza e il suo metodo, sperando che all’esterno ci fosse un’intelligenza analoga, si seguisse un metodo, ci fosse la volontà di trovare una soluzione.
Può darsi che le ipotesi di Sciascia siano esercizi letterari, ma nessun tentativo di analisi di quei testi fu fatto dagli inquirenti; ci si chiuse dietro l’idea: non è farina del sacco di Moro, non del Moro di prima.
Sciascia dimostra che in quelle lettere c’è tutto Moro, c’è il politico che si era sempre mostrato propenso a cercare le vie del dialogo e del compromesso, nel senso alto del termine (io cedo qualcosa, faccio il primo passo, in modo che possiamo incontrarci a metà strada).
Non è la mia posizione (credo sia più utile la fermezza del compromesso, come dimostra il sequestro dei beni dei familiari dei rapiti), però ammetto che la voce di Leonardo Sciascia fosse interessante e da prendere in considerazione (almeno come ipotesi), nonostante il tentativo di attribuirgli la frase vigliacca: “né con lo Stato né con le brigate rosse”, frase che non ha mai pronunciato o scritto, che ha negato ripetutamente di avere mai pronunciato o scritto (le fake news usate per colpire chi si vuole demolire non sono un’invenzione di internet). La frase vigliacca, ripresa in questi giorni nella variante “né con Putin né con la Nato”, in realtà fu lanciata dal giornale Lotta continua.

Torniamo al film Esterno notte, di cui ho visto la seconda parte al cinema Flora.
L’intenzione esplicita del regista, evidente già nel titolo, è di rappresentare ciò che avvenne all’esterno della notte fonda in cui precipitò l’Italia nei giorni del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta, azione condotta da una banda di fessi chiamata brigate rosse. È necessario spiegare perché fessi? Fessi e delinquenti – ne scriverò più avanti, anche se mi sembra ovvio e quasi inutile.
Nel film del 2003 – Buongiorno, notte – Bellocchio ha mostrato l’interno della notte, il buio della notte, in modo sintetico ed efficace: l’alba è solo un sogno (la brigatista narcotizza i complici e libera Moro, che, all’alba, cammina per le strade dell’Eur).
Nel nuovo film, Esterno notte (diluito in una serie televisiva) è buio pesto e il regista esamina nei dettagli, per quanto possibile, ciò che accadde intorno a quel buio; l’esame procede nel modo dispersivo proprio delle serie, partendo da un po’ prima del rapimento e focalizzando l’attenzione su alcuni personaggi, tra i tanti: Cossiga, Paolo VI, i brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, la moglie di Moro, il prigioniero condannato che vuole vivere e ha perso ogni speranza.

Ho fatto bene ad aspettare: nella prima parte era presente in abbondanza un elemento che mi disturbava, fortunatamente ridotto nella seconda: il regista calcava la mano sull’aspetto grottesco riferito ad alcuni personaggi noti.
Mi sembrava che il film pendesse in modo pericoloso dalla tragedia verso la commedia grottesca, una variante della commedia all’italiana (I mostri di Dino Risi, 1963; I nuovi mostri, 1977, film a episodi diretto da Dino Risi, Ettore Scola, Mario Monicelli)

Commentando la prima parte, le prime tre puntate della serie, ho citato un punto in cui, improvvisamente, il film diventa comico (comicità involontaria).
Si tratta della richiesta di Paolo VI di una croce più leggera da portare nella via Crucis. L’assistente ne propone alcune di legno, semplici, francescane, con scarso successo. Il papa non ce la fa. Alla fine, forse annoiato dai tentativi, l’assistente porge a Paolo VI una croce metallica, piccola ma, apparentemente, più pesante delle altre. Il papa rinuncia.
A me è venuto da ridere e ho pensato: ora il racconto diventa una farsa. Fortunatamente, soprattutto nella seconda parte, non è successo.

Un altro punto pericoloso, sempre nella prima parte, riguarda di nuovo Paolo VI. Il cilicio.
Qui non c’è comicità, però viene da chiedersi: possibile che il papa, malato e seguito passo passo dai medici, si facesse trovare a letto con un cilicio che gli trafiggeva le carni?
Possibile che i medici non avvertissero il dovere di proporre l’assistenza psichiatrica per una persona anziana, fortemente debilitata, non più in condizioni di badare alla propria salute?
Che cosa aspettavano? Che si suicidasse per compiacere il proprio dio?
Non era quello un lento suicidio?
Forse il papa, fin dalla gioventù, aveva incanalato le spinte sessuali represse in una forma di masochismo – il ragazzo virtuoso che, nel seminario, si applica il cilicio per evitare di “toccarsi” durante il sonno – o era affetto da una malattia psichica che lo portava ad autoflagellarsi. Non sappiamo.
Paolo VI, secondo Bellocchio, si faceva curare dai medici, poi infliggeva al proprio corpo sofferenze atroci e gravi danni. Di sera prendeva le medicine prima di andare a letto, poi si applicava, con l’aiuto di qualche assistente sadico, il cilicio che tormentava e feriva la sua pancia fino al mattino seguente. Praticamente si suicidava lentamente.
Sempre secondo Bellocchio.
Chi gli ha raccontato tutto questo? Spero che abbia una fonte sicura, perché, altrimenti, sarebbe un’offesa gratuita alla memoria del papa che ha portato alla conclusione il Concilio Vaticano II.
Se fosse vero, si potrebbe trovare in questo una spiegazione della rinuncia attuata da papa Ratzinger tre mandati dopo (di cui uno brevissimo): volle dimettersi prima che la vecchiaia lo portasse a una condizione patologica paragonabile a quella vissuta dai suoi ultimi predecessori (tranne il povero Giovanni Paolo I): condizione fisica e forse mentale per Giovanni Paolo II, psichiatrica per Paolo VI.

Se fosse vero. Stento a crederci. Spero non sia vero. Possibile che la chiesa cattolica, in anni recenti, abbia avuto alla sua testa uno squilibrato?

Un’altra figura fortemente caricata nella prima parte, un po’ meno nella seconda, è il ministro dell’interno all’epoca dell’affare Moro, poi presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.
Quando ho visto Cossiga ho pensato che questo è un film per vecchi.
Più sopra ho scritto di aspetto grottesco riferito ad alcuni personaggi noti. Noti a chi? Solo a noi vecchi dicono qualcosa nomi come Zaccagnini (il chiagnazzaro: piangeva sempre), Leone (poi si dimise sulla spinta soprattutto di Pannella, che, in seguito, gli chiese scusa), Fanfani (nel 1975 Dario Fo, che, dopo il suo abbandono di Canzonissima 1962, fu sottoposto a ostracismo televisivo fino al 1977, ci aveva divertito in teatro con una farsa: Il Fanfani rapito – evidentemente l’idea circolava nella sinistra extraparlamentare), lo stesso Cossiga e persino Moro ante rapimento: uno dei “cavalli di razza” della DC, a cui si attribuiva un linguaggio contorto, per esempio l’espressione “convergenze parallele”, che non so se fosse realmente sua e si utilizzava per dileggio. Questi personaggi erano notissimi all’epoca, oggi chi se li ricorda? Noi vecchi. Solo Moro ricordano tutti … sappiamo perché … e, forse, Andreotti.

Entrando nella bella sala di piazza Dalmazia – la piazza dove sosto, per il sigaro, per il caffè, prima del film, e che ritrovo, all’uscita, piena di gente che si gode la serata ai tavolini dei bar, a passeggio e sulle panchine – mi sembrava di vedere in fila vecchi desiderosi di fare un passo indietro nei ricordi della complicata giovinezza di chi era giovane negli anni settanta; facce da pensionati. Le ho guardate alla fine del film – sono sempre l’ultimo a uscire, non mi perdo i titoli di coda, l’elenco delle musiche, i ringraziamenti ai vigili urbani, al sindaco, alla pro loco, alla profumeria eccetera – mentre quei corpi lenti si alzavano dalle poltrone, raccoglievano le proprie cose e si avviavano all’uscita un po’ malinconici. Quando i fatti raccontati nel film accadevano erano giovani, pieni di energia, di speranze; davanti a loro c’era l’avvenire, che ora giace da qualche parte.

Che Cossiga fosse ciclotimico, che avesse alti e bassi di umore, che fosse affetto da vitiligine (forse di origine nervosa), che fosse fissato con i sistemi di intercettazione, che fosse pericoloso per certi aspetti lo avevamo capito già a quei tempi. Non ho capito come arrivarono, poi, quasi tutti i partiti, compreso il Partito Comunista, a contribuire con il voto in Parlamento a farlo diventare presidente della Repubblica. Nei sette anni prese a esibirsi con uscite destabilizzanti (giocava a fare il picconatore, ma forse era solo depresso).
Sapevamo che era separato dalla moglie, non immaginavamo che la moglie fosse una specie di fantasma che viveva in casa e si rifiutava di rispondere ai suoi tentativi di avviare una qualunque conversazione. Che cosa era successo tra loro?
Quest’ultimo particolare ci ha raccontato Bellocchio nel film. Io, che sono peggio di San Tommaso, mi domando: a Bellocchio chi l’ha detto? Non mi riferisco a voci, dicerie. Favorisca i documenti, please.
Il film era cominciato da poco e già avevamo scoperto due pazzi all’esterno della notte in cui Moro stava per piombare.

Sui titoli di coda una nota ci avverte che i personaggi sono il risultato della rielaborazione artistica di persone realmente esistite.
Non c’era bisogno di dircelo, è sempre così. Non abbiamo mai pensato che il Cristo di Zeffirelli fosse realmente quello di cui parlano i Vangeli. È un attore che interpreta l’idea di Cristo di Zeffirelli. Vale anche per il Cristo di Pasolini. Fin qui c’eravamo arrivati.
Però i personaggi di Esterno notte hanno nomi e cognomi che permettono di individuarli con esattezza, dunque quando si passa da un papa malato a un masochista in azione, da un depresso ciclotimico a un pazzo che si chiude in una catacomba con le cuffie sulle orecchie, bisogna essere certi che il passaggio sia realmente avvenuto. Il modo di descrivere il passaggio è affare tuo (creazione artistica), ma il passaggio non può essere un’invenzione.

Nella prima parte mi aveva colpito la descrizione delle serate di Moro prima del rapimento.
Rientrava in casa tardi, a volte dopo la mezzanotte (intervista del figlio Giovanni a Repubblica, Silvana Mazzocchi, 14 marzo 1998), si preparava qualcosa da mangiare. Dormiva poco.

Nella seconda parte si riprende il tema (alla base di Buongiorno, notte) della brigatista che vorrebbe salvare Moro.
Questa volta sono due, si chiamano Adriana Faranda e Valerio Morucci, due brigatisti che realmente parteciparono alla preparazione della strage e del rapimento (Morucci partecipò anche all’azione) e cercarono di opporsi all’esecuzione della ”sentenza di morte”.
Morucci era stato preso dai brigatisti perché esperto di armi. Nel libro Mara, Renato e io (Oscar Mondadori) Alberto Franceschini ce lo presenta come uno amante della bella vita, che va al “colloquio” per essere assunto nelle brigate rosse “in Mini-minor, una giacca blu con bottoni d’oro, camicia di seta, cravatta, occhiali Ray-ban: sembrava un fascistello sanbabilino”.
Racconta anche che Morucci gli fregò due pistole a cui teneva molto, scambiandole con pistole di poco valore (gli aveva fatto credere che le sue non valevano niente). Franceschini ne parla come di uno che contava poco e, in questo episodio, come di un imbroglione.

Partecipò alla strage della scorta di Moro, e al rapimento, per la sua abilità nell’uso delle armi. Fu escluso dalla custodia e dall’interrogatorio del prigioniero. Viveva, con Adriana Faranda, in un altro covo.
Morucci è quello che telefonava alla famiglia e annunciava le risoluzioni.
È sua la voce che, con tono burocratico, informò dell’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana e dell’abbandono del cadavere in una Renault rossa.
«Via Ccaetani … scriva, non ci faccia perdere tempo, abbiamo altro lavoro da fare, altre pratiche da sbrigare».
Non disse proprio così, ma poco ci manca.

Quando parlo di brigatisti fessi penso soprattutto ad Adriana Faranda.
“Buona famiglia” di origine siciliana, all’Università di Roma si iscrive a Lettere; si sposa con un dirigente di Potere Operaio. Pare che il “dirigente” la picchiasse; l’ho letto da qualche parte, non ricordo dove.
Nasce una bambina, si separa dal marito e si accompagna con Valerio Morucci, anche lui militante di Potere Operaio e poi delle brigate rosse.
Di nuovo incinta, decide, col compagno, di abortire, perché “il dovere”, “l’impegno”, “la rivoluzione”, chiamano.

Partecipa all’azzoppamento del preside della facoltà di Economia e Commercio; forse era l’esame per essere ammessi nella banda.
Immagino quanti “bei” pensieri il professore le abbia indirizzato quando, invecchiando, sono cominciati i dolori alla schiena e alle gambe: sono problemi che abbiamo tutti, dopo una certa età, suppongo siano particolarmente accentuati per un professore gambizzato da una studentessa che ha deciso di usare le gambe del professore come bersaglio nel tiro a volo per dimostrare ai compagni quanto è brava e precisa.

Ricercata dalla polizia, affida la figlia alla madre per darsi alla latitanza insieme a Valerio Morucci.
”Il dovere”, “l’impegno”, “la rivoluzione” chiamano. Quando questi tre chiamano, la giovane Faranda risponde: «sì», «eccomi», «sono pronta», «mi sacrifico e sacrifico mia figlia e mia madre per il bene dell’umanità»; «se poi mi capiterà di sacrificare anche qualcun altro, non importa».
Secondo la giovane studentessa universitaria il bene dell’umanità si può raggiungere sparando alle gambe di un professore o partecipando all’organizzazione dell’esecuzione di cinque uomini e al rapimento di un sesto, senza escludere l’uccisione a freddo anche di questo.
Non la fanno partecipare alla strage di via Fani, con suo disappunto (si vede nel film). Che dispiacere, per un animo sensibile, non poter svolgere il ruolo del boia!

Quando apprende dalla televisione che il colpo è riuscito, i cinque agenti di scorta (tre poliziotti e due carabinieri) sono stati sterminati senza pietà, le loro famiglie distrutte dal dolore, Moro è stato rapito, gioisce, è contenta: cinque uomini sono stati assassinati, un sesto probabilmente sarà assassinato e lei è contenta, fa balzi di gioia (si vedono nel film, non so se siano avvenuti nella realtà. Spero di no. Per lei).
Poi si fa scappare una lacrimuccia quando, in un bar, assiste alla disperazione dei parenti delle vittime, nel corso dei funerali trasmessi in televisione. Animo sensibile! Ha pena per quella povera gente e continua a lavorare per gli assassini.

Ha affidato la figlia alla madre (doveva essere una santa donna), ha lasciato tutto e fa la “postina delle br”.
Prende le buste con dentro i fogli che contengono le “elaborazioni politiche” di Moretti e compagni, le “risoluzioni della direzione strategica”, le fotografie del prigioniero con alle spalle la stella a cinque punte, le lettere che il povero Moro indirizzava ai familiari, ai compagni di partito, al papa e, con molta precisione, le deposita in luoghi convenuti – bisogna ammettere: una postina indefessa, precisa, affidabile. Nei tempi morti ripulisce, insieme al suo compagno, il denaro frutto di qualche rapina.
Quando capisce che l’uccisione di Moro è un errore (non un delitto, un errore) cerca, insieme a Valerio Morucci, di convincere i “compagni della direzione strategica” (significa gli scalzacani che avevano organizzato e realizzato il tutto) a rilasciare il prigioniero. Ma questi avevano già deciso di giustiziarlo. Morucci si convince presto a ubbidire: siamo soldati, dice. Lei insiste, inutilmente.

Nel film è riportata una discussione (che forse Bellocchio ha ricavato da colloqui con i brigatisti o da libri e testimonianze) tra lei e il compagno (nel senso sentimentale del termine).
In questa discussione Faranda scopre che le uccisioni e tutto il resto sono per Morucci semplicemente un’avventura, un modo per disubbidire (al sistema e ubbidire a Moretti). Morucci le rivela di non credere che in Italia ci sarà la rivoluzione comunista (è cinico, ma ha il senso della realtà). Ma se non ci sarà la rivoluzione, per quale motivo continua ad ammazzare la gente e a rischiare di essere ammazzato?
C’è una sola risposta: a Morucci piaceva vivere così.

Lei, invece, credeva nella rivoluzione: la vedeva prossima. Chi le aveva dato questa convinzione? Quelli che le avevano riempito la testa senza trovare resistenza (il vuoto non oppone resistenza).

Ecco: Adriana Faranda è un esempio perfetto di quando dico che le brigate rosse erano una banda di fessi (fessi e delinquenti, comandati da delinquenti non fessi, esaltati).
Le brigate rosse erano un’organizzazione verticistica.
Quando i “capi storici” furono messi in condizioni di non nuocere dal generale Dalla Chiesa (lui firmava “dalla Chiesa”, con la d minuscola) altri soggetti presero il comando.
I brutali assassini che avevano organizzato a freddo lo sterminio della scorta di Moro non tennero in alcun conto il parere della “postina”, che si limitava a eseguire gli ordini, insieme al suo compagno esperto di armi e amante della bella vita (secondo Franceschini).

Documentario di Loredana Bianconi, accessibile su YouTube; si chiama “Do you remember revolution. Donne nella lotta armata”.
Io avrei messo un punto interrogativo dopo revolution o avrei tolto il ”do you” (“Ricordi la rivoluzione?” oppure ”Ricorda la rivoluzione”, ma forse sbaglio).
Quattro donne che hanno un passato nelle brigate rosse parlano della propria storia con molta sincerità, mi sembra. Sono Adriana Faranda, Nadia Mantovani, Susanna Ronconi, Barbara Balzerani.
È un documentario di 25 anni fa. Credo che queste donne abbiano tutte finito di pagare i conti sospesi con la giustizia, grazie a sconti di pena vari. Avevano sulle spalle condanne a lunghe detenzioni, fino all’ergastolo, qualcuna più di un ergastolo.
Io credo che queste testimonianze si dovrebbero diffondere tra i giovani, insieme alle analoghe testimonianze degli ex tossicodipendenti.
Sentire parlare gli ex drogati e gli ex terroristi è il modo più efficace per allontanare i giovani dalla droga e dalla scelta di entrare nella lotta armata.
Uno li sente e capisce quanto erano deboli i primi, quanto continuano a essere fessi i secondi («Quand on est con, on est con» diceva Brassens).

Adriana Faranda racconta un episodio che credo sia rappresentato nel film Effetto notte.
Non ne sono sicuro al 100 % perché il film è molto lungo, un po’ stanca, vedo molti film, leggo molti libri, immagino le scene descritte nei libri come fossero film: mi capita di non ricordare se una scena l’ho vista in un film o l’ho letta in un libro e immaginata; o, addirittura, sognata.

Trascrivo il racconto di Adriana Faranda.

«… A questo proposito di primato della politica e incomprensione umana, ricordo un piccolo aneddoto quasi insignificante, ma che per me contò molto. Quando stavamo facendo l’inchiesta su via Fani [traduzione: quando stavamo organizzando il rapimento di Moro e l’assassinio dei cinque uomini della scorta] io vidi uno degli uomini della scorta che chiamava il suo collega.
Era marzo [il 16 marzo sarebbe avvenuta l’esecuzione]. Gli fece vedere uno stormo di rondini che arrivava. Questa cosa mi colpì molto.
La riferii dicendo che appunto aveva chiamato il collega per fargli vedere questi uccelli che arrivavano: significava la primavera che stava per sopraggiungere. Con questo io intendevo dire che questa persona in quel momento aspettava, aspettava comunque una stagione nuova, aspettava la vita. E l’idea che noi andassimo ad attaccarli, che potessimo dargli la morte, come quasi sicuramente sarebbe avvenuto, mi creava un grande disagio interiore [però non le impediva di continuare a preparare la morte di quei poveri agenti di scorta].
Questo non venne assolutamente interpretato in questo senso, mi venne risposto molto freddamente: anche i nazisti amavano molto le bestie. Come dire: non porti il problema che questo è un essere umano buono, tra virgolette, che questo è un essere umano degno di essere graziato semplicemente perché ama le rondini che arrivano. [La ex studentessa universitaria di lettere parla proprio così: “non porti il problema che questo è un essere umano …”. Un modo di parlare, di comporre la frase, che spiega tante cose].
Ma non era quello il senso che io volevo dare a quella frase. E quindi questa frase mi gelò, ovviamente [si riferisce alla risposta], non riuscii ad approfondire il discorso, perché in quel momento avvertii che non c’era un terreno di comunicazione, che loro erano soltanto tesi a giustificare, a legittimare quello che poteva avvenire, quello che avevamo deciso di fare. [Quante volte ha detto quello?]
E quindi non c’era spazio per i dubbi, per le riflessioni, per l’interrogativo etico se noi avevamo o meno il diritto di dare la morte a un altro essere umano …»

I complici non si ponevano “l’interrogativo etico”, lei se lo poneva.
Il risultato era lo stesso. Con tutto l’interrogativo etico e le riflessioni, continuava a preparare la morte sicura di cinque persone, probabile della sesta.
Che strana questa Faranda! Le facevano schifo i complici ma continuava a lavorare con loro. Sotto sotto pare che le facesse schifo anche il “compagno”, nel senso sentimentale del termine. Erano meno strani i complici: loro, di fatto, erano nazisti, ragionavano come i nazisti e, da nazisti, prediligevano l’azione. Faranda voleva fare la rivoluzione socialista con loro; immaginava che gli scalzacani sarebbero diventati i nuovi Lenin.

Nonostante i dubbi, le riflessioni, gli interrogativi etici, continuò, per qualche tempo, a collaborare con i brigatisti.
Il 10 ottobre 1978 (erano passati cinque mesi dall’omicidio di Aldo Moro) partecipò all’agguato che pose fine all’esistenza del giudice Girolamo Tartaglione, 65 anni, Direttore generale degli Affari penali del Ministero di grazia e giustizia (così si chiamava allora).
Perché lo ammazzarono? Forse per loro era un simbolo, uno dei tanti simboli. Forse pescarono nel mucchio. Uno di loro disse: ammazziamo il giudice Tartaglione. Gli chiesero: si può fare? – Sì. – Allora facciamolo.
Uno obiettò: non serve a nulla, metteranno un altro al posto suo. Dopo ampia riflessione decisero: ammazziamolo, poi si vedrà.
Si organizzarono così: Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono (gruppo di fuoco), Adriana Faranda e Massimo Cianfanelli (funzione di copertura).
Alessio Casimirri sparò al giudice: non ha fatto un giorno di carcere; attualmente è rifugiato in Nicaragua e gestisce un ristorante.

C’è un’intervista recente alla Faranda nella trasmissione Le belve di Francesca Fagnani.

Fagnani: «Lei ha partecipato e condiviso il piano del rapimento Moro. Quel giorno a via Fani, come tutti sanno, sono morti tutti gli agenti della scorta di Moro. L’annientamento della scorta era previsto nel piano e condiviso da tutti?»
Faranda: «Questo … è un tema molto delicato, nel senso che …  [i puntini sostituiscono gorgoglii indecifrabili]. Noi non immaginavamo che gli uomini della scorta fossero, non dico impreparati, però che addirittura alcune armi fossero nel portabagagli o in un borsello, credevamo che fossero molto più … che rispondessero al fuoco, che si aspettassero che potesse succedere una cosa del genere. Ovvio che noi contavamo sulla sorpresa. Quello che noi non sapevamo è se ci sarebbe stato qualche morto anche dalla nostra parte.» [Nel documentario del 1997 ha detto: «E l’idea che noi andassimo ad attaccarli, che potessimo dargli la morte, come quasi sicuramente sarebbe avvenuto»].
Fagnani: «Quando ha saputo che gli agenti erano morti tutti e dei vostri nessuno  come si è sentita?».
Faranda: «In quel momento da una parte sollevata, dall’altra ho sentito immediatamente il peso di quello che era avvenuto» [dice “era avvenuto”, come se i poveri poliziotti fossero le vittime di un terremoto, di un incidente stradale. Ciò che “era avvenuto”, voi l’avevate organizzato, Cristo! Ora che sul tuo volto si vedono i segni della vecchiaia, non l’hai ancora capito? Non sono morti per un incidente automobilistico. Le cose sono andate come speravi che andassero: li hai presi di sorpresa e li hai ammazzati, anche se a premere il grilletto c’erano altri delinquenti, forse più capaci di te di usare le armi. Non è “quanto è avvenuto”, è quanto hai fatto sì che avvenisse].
Faranda: «Mi ricordo che la prima cosa che udii è che c’era uno degli agenti che era sopravvissuto, era stato portato in ospedale e devo dire che mi augurai che non morisse» [Capito? Dopo che i suoi compagni gli avevano sparato, si augurò che non morisse, che restasse menomato per tutta la vita. Che animo sensibile! Che delicatezza!].

Cercò di opporsi all’uccisione di Moro, ma poi l’accettò, supinamente l’accettò. Fu ubbidiente e precisa nell’esecuzione dei propri compiti, fino alla fine.

Andrea Purgatori – Festival delle Resistenze, Bolzano, 2018
«… Tenete presente che Moro viene ucciso seduto sul pianale della R4, non è vero che lo fanno stendere lo coprono col plaid e poi sparano. Lo fanno sedere sul pianale col portabagagli aperto; nel garage di via Montalcini il portabagagli aperto non si poteva tenere, perché era piccolo, era basso [Purgatori fa riferimento alla sua tesi, che Moro sia stato trasferito da un’altra parte, prima di ucciderlo, in un posto più vicino a via Caetani, dove il corpo fu ritrovato].
Lui con la mano sicuramente cerca di proteggersi: c’è una ferita tra le dita dove gli passa un proiettile, lui vede chi gli sta sparando. Come dire: non c’è nessun gesto di pietà, neanche in quell’esecuzione. C’è un’efferatezza spaventosa, e c’è poi questo famoso cerchio di proiettili che lo colpiscono, che faceva pensare a quel De Vuono di cui vi parlavo prima [il legionario calabrese, killer della ndrangheta, che firmava i suoi delitti con un cerchio di proiettili intorno al cuore], ma, al di là di questo, la modalità con cui viene ucciso è una modalità da macelleria. …». 

Nella seconda parte del film sono presenti due capolavori.
Peccato arrivino tardi, quando si comincia a stancarsi: il film dura troppo, la serie televisiva disperde le emozioni. Non mi stanco di ripetere che la soluzione ottimale è il film tradizionale, proiettato (se così si può dire) al cinema, di durata massima: due ore, che si possono superare solo in casi eccezionali, quando proprio non se ne può fare a meno. La costrizione alla sintesi, che si ottiene anche con tagli generosi, giova al film e all’autore, costretto a fare delle scelte, a domandarsi che cosa è indispensabile. Non: che cosa è buono (se il regista sa fare il suo mestiere e gli attori sanno fare il loro, tutto è buono), ma: che cosa proprio non si può eliminare.

I due capolavori sono le interpretazioni di Margherita Buy e di Fabrizio Gifuni.
Entrambi gli attori, pur avendo una qualche somiglianza con le persone che interpretano (molto vaga la somiglianza di Margherita Bui, ma non importa), non cercano di imitarle. Riescono a trasmettere ciò che hanno colto di queste persone.
Che cosa hanno colto?

Per la signora Moro la capacità di controllare le emozioni, l’odio per la retorica, per l’ipocrisia dei meschini, piccoli uomini di potere con cui è costretta ad avere a che fare e che, si capisce, disprezzava già prima del dramma. Quegli abbracci che lei non sopporta, a ragione! Le frasi fatte dei piccoli uomini dalla lacrima facile!

Per Aldo Moro l’umanità, l’amore per la vita di un professore di diritto che conosceva le regole abbastanza per non farne un totem. Moro, nelle sue lettere, chiedeva agli altri di comportarsi come si sarebbe comportato lui se i brigatisti avessero rapito Andreotti o Fanfani (come nella farsa di Dario Fo). Avrebbe fatto un passo avanti per cercare un punto d’incontro, sapendo che il senso della Stato non può essere scalfito da una banda di scalzacani che è riuscita a mettere a segno un colpo. Si finge di cedere su un punto, si salva il prigioniero, sapendo che quelli si distruggeranno da soli (come è accaduto).
Onestamente devo ammettere che è facile dirlo ora, con il senno di poi, dopo che la banda delle brigate rosse si è abbondantemente rivelata per quello che era.
In quel momento sembravano potenti, organizzati, pericolosi e, secondo me, fu necessario reagire con la fermezza.
Uno sente parlare Alberto Franceschini, Renato Curcio, Mario Moretti, le donne della rivoluzione (nel documentario), i pentiti, i dissociati, gli irriducibili e si domanda: ma questi dove vivevano? Sulla luna?