21 settembre 2022 h 19.00
Schermo televisivo

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Brigate rosse, terrorismo
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La foto è famosa: uscì su tutti i giornali (a cominciare dall’Espresso).
La data: 14 maggio 1977 – il posto: via De Amicis, Milano – l’autore: Paolo Pedrizzetti.
Fu scattata nel corso di una manifestazione contro la repressione indetta dal “Movimento” (in particolare da Democrazia Proletaria e dai vari gruppi di Autonomia Operaia) in solidarietà con gli avvocati di Soccorso Rosso accusati dalla procura della Repubblica di associazione sovversiva. In seguito gli avvocati Sergio Spazzali e Giovanni Cappelli furono entrambi condannati per atti di terrorismo. Se ne può dedurre che non c’era fumus persecutionis nell’iniziativa dell’autorità inquirente.

Parte il corteo. Seguendo un piano prestabilito, Autonomia Operaia si stacca per sfilare sotto il carcere di San Vittore. La polizia è schierata su due file. Alcuni manifestanti sono armati.
Sullo sfondo: alberi, marciapiede. Sul marciapiede auto parcheggiate, tra le quali una cinquecento bianca.
Alcuni figuri guardano nella stessa direzione. Tra di loro un fotografo appoggiato a un albero.
A quei tempi sulle macchine fotografiche non c’era lo stabilizzatore automatico del fuoco: per evitare il mosso il fotografo doveva appoggiarsi a qualcosa di fermo, fisso, stabile.
Il fotografo in secondo piano scattò foto che furono tenute nascoste per dieci anni.
I magistrati ebbero a disposizione molte fotografie scattate durante la manifestazione, ma il quadro delle responsabilità non era completo. Dopo dieci anni, nel corso di una perquisizione, furono ritrovate le foto nascoste e si individuarono tutti gli uomini che avevano partecipato armati, gli uomini che avevano sparato ma non avevano colpito, gli uomini che avevano colpito, ferito, ammazzato. Tutti uomini. Tra i feriti una donna.

C’erano i fotografi dei giornali e quelli che lavoravano in proprio; fecero bene il proprio lavoro, nonostante alcuni fossero minacciati e inseguiti dai servizi d’ordine dei gruppuscoli.
La foto che rimase più impressa è questa.

Foto di Paolo Pedrizzetti ripresa dal web e riprodotta senza fini di lucro

In primo piano, al centro della strada, un giovane piegato sulle gambe allargate. Stringe saldamente con entrambe le mani una pistola e prende la mira, nella direzione in cui tutti guardano. Dietro si vede uno ugualmente piegato, armato; nel momento dello scatto non sta prendendo la mira, forse un attimo dopo.

La foto fece entrare nella testa di molti, finalmente, un concetto semplice semplice, fino ad allora rifiutato: gli slogan del Movimento del ‘77 (molto diverso dal Movimento del ‘68) non erano esercizi di retorica rivoluzionaria (come il libretto rosso di Mao, che nel 1977 era passato di moda); quelli di Autonomia Operaia non andavano ai cortei come a un pranzo di gala, armati di sole bandiere (di cui utilizzare le aste) e, eventualmente, di sampietrini trovati sulla strada; si armavano con pistole e prendevano la mira ad altezza d’uomo. Credevano, sognavano, si illudevano di essere l’avanguardia della rivoluzione.
La foto fece svegliare molta gente. I ragazzi che giocavano a fare i rivoluzionari da salotto, o da cortile della scuola, capirono che con la propria ingenuità stavano coprendo potenziali assassini, disposti ad armarsi e a sparare.

Titolo del Corriere d’informazione di quei giorni: “Il poliziotto assassinato. Ecco l’ultrà che spara. Documento esclusivo. Queste foto sono state scattate sabato a Milano”.
Nella manifestazione (da un gruppo che si era staccato dal corteo principale per dirigersi verso il carcere di San Vittore) fu ucciso il vicebrigadiere di polizia Antonio Custra (25 anni).
L’assassino fu il terrorista (poi di Prima Linea) Mario Ferrandi (21 anni). Non era il giovane fotografato con la pistola mentre prende la mira: il terrorista ripreso nella foto impugnava una calibro 22; l’assassino aveva usato una pistola 7,65.
Le foto (quelle che furono subito consegnate e le altre, scoperte dieci anni dopo) aiutarono a individuare i due e, in seguito, ci fu l’ammissione di colpevolezza, il pentimento, un’ampia confessione e la collaborazione con il magistrato per ricostruire i fatti e attribuire le responsabilità.
Rimasero feriti: l’agente Salvatore Busesti (ferite alla mano destra), l’agente Michele Santoro (frattura dello zigomo destro con ritenzione di schegge metalliche), il signor Marzio Golinelli (una ferita profonda all’occhio destro con ritenzione di un corpo metallico nella regione temporale destra; la gravità della ferita rese necessaria l’asportazione dell’occhio), la signora Patrizia Roveri (ferita superficiale nella regione occipitale). Gli illusi pseudorivoluzionari scherzavano col fuoco!

Il terrorista fotografato in via De Amicis mentre prende la mira si chiama Giuseppe Memeo (non so se è vivo); in seguito avrebbe ucciso, insieme a Cesare Battisti, il gioiellere Pierluigi Torregiani. Nel servizio d’ordine di uno dei gruppuscoli di Autonomia Operaia c’era Marco Barbone, che avrebbe partecipato all’uccisione del giornalista Walter Tobagi.
Come si vede, la parola servizio d’ordine non deve fuorviare: si trattava di gente disposta a scherzare col fuoco, mentre una massa di imbecilli si faceva trascinare.

Antonia Custra, figlia del vicebrigadiere di polizia – nata due mesi dopo la morte del padre – dopo 37 anni, quando l’assassino, Mario Ferrandi, aveva scontato la pena e compiuto un lungo percorso di pentimento e di riabilitazione, volle incontrarlo.
Dall’incontro scaturì il perdono, che consentì a Mario Ferrandi (dissociato dalla lotta armata e testimone collaboratore di giustizia in vari processi contro i terroristi di quegli anni) di riottenere i diritti civili, tra i quali il diritto di votare e di partecipare ai concorsi pubblici.
Antonia Custra è morta nel 2017, a quarant’anni, stroncata da un tumore.

Ho trovato Il buco in testa, un film di Antonio Capuano.
Mi era sfuggito quando è uscito al cinema, nel 2020, e non ero più riuscito a trovarlo, nelle sale e in rete.
L’ho trovato in streaming, come si dice, e finalmente ho potuto vederlo, anche se sullo schermo televisivo.
Credo che sul grande schermo le scene siano più coinvolgenti, ma bisogna accontentarsi: questo ci passa il convento. Alcuni film rimangono nelle sale per pochissimo tempo, poi spariscono.

Per quale motivo desideravo tanto vedere questo film? Più di uno.
Primo: Antonio Capuano è uno dei registi che sanno parlare di Napoli e dintorni con affetto ma senza cadere nel folclore o nella esaltazione dei difetti di questa città, trattandoli come se fossero pregi.
Non ci vuole niente a passare dai neo-borbonici ai neo-melodici, ai rapper prediletti nel carcere di Poggioreale e nei quartieri dello spaccio, ai matrimoni pacchiani.
Qualcuno ama rappresentare questa gente come fosse l’erede di un supposto, inventato, passato remoto favoloso; a me fanno voltare lo stomaco.
Antonio Capuano ama la sua città, ne vede i pregi e i difetti, non si fa fregare dal sentimentalismo.

Secondo: nel film c’è l’attrice Teresa Saponangelo; ha saputo interpretare la madre di Paolo Sorrentino in È stata la mano di Dio senza cadere nel bozzetto. Anche lì c’era un bel ricatto sentimentale in agguato. Non c’è cascata: merito del regista, ma anche merito suo. Si sente che Teresa è una donna vera, oltre a essere una brava attrice.

Terzo: il film parla di un argomento che mi prende, mi sgomenta e quasi mi sconvolge ogni volta che ne sento parlare.
Molti giovani della mia generazione decisero di incasellare la società in una ideologia che avevano appreso tra chiacchiere, assemblee, ciclostilati, qualche libro, pochi.
Lo schema prevedeva la rivoluzione imminente, la vittoria finale della classe operaia, l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale. Di fronte a questa prospettiva si doveva prendere una posizione: scegliere da che parte stare. Chi aveva dubbi era un debole o un traditore.
In questo schema teorico – appreso tra chiacchiere, assemblee, ciclostilati e pochi libri – l’individuo spariva e, una volta incasellato tra i nemici di classe, si era autorizzati a decidere il suo futuro (in sala operatoria, su una sedia a rotelle, seppellito anzitempo) e il futuro dei suoi cari.

Nel film il regista si ispira liberamente (lo scrive all’inizio e lo dimostra) all’episodio raccontato da quella fotografia e ai personaggi reali di quella tragedia: «Questo film è la libera interpretazione di fatti realmente accaduti». I nomi sono cambiati, i riferimenti sono precisi.

Nell’incipit la ragazza ci parla, guardandoci negli occhi, con il suo bell’accento napoletano. Già questa è una cosa che i registi non fanno, che Capuano fa e a me piace.
Ogni tanto Maria esce dal film e si rivolge direttamente a noi.
All’inizio ci racconta: «Mi chiamo Serra Maria, fu Mario e di Alba Veneruso. Sono nata il primo luglio del ‘77. Papà era già morto con un proiettile in testa. Praticamente se n’è andato senza capire che cazzo stava succedendo. …».
Non so perché, ma quel Serra Maria, al posto di Maria Serra, mi commuove. Forse so perché: mi vengono in mente le persone che si presentavano e firmavano scrivendo prima il cognome, poi il nome: nelle scuole elementari, nei distretti militari, negli uffici postali per ritirare la pensione o un po’ di soldi dal libretto.
Nel corso del film si rivolge alla psicologa che la segue perché ha qualche problema: «Io voglio bene a mia madre. Ma ogni tanto la detesto. Voglio andarmene. Non mi parla mai di papà: è un tabù. … Io mi devo stare accorta a non diventà comm’a essə (devo stare attenta a non diventare come lei)».
Qui la psicologa commette un errore professionale: le dà il consiglio di incontrare Mandelli, l’ex terrorista pentito che ha ucciso suo padre (la paziente dovrebbe arrivarci da sola, lo psicologo, anche in una terapia di sostegno, non dovrebbe mai suggerire comportamenti). Maria dice: «Mammà ha avuto l’ergastolo» (il terrorista ha scontato la pena, la sua mamma è stata condannata a una pena senza fine).

La trama (in due parole): il film rappresenta l’incontro tra la figlia del poliziotto e il terrorista pentito, quasi quarant’anni dopo il momento fermato da quella foto.
La figlia del poliziotto e il terrorista pentito, i personaggi del film, sono liberamente ispirati ai personaggi reali (nel film si chiamano Maria Serra e Guido Mandelli, nella realtà: Antonia Custra e Mario Ferrandi).
E allora, approfittando della sua libertà di artista, il regista riempie di vita i due personaggi, soprattutto la prima.
La riempie di vita, ma non ne fa un santino, come altri registi avrebbero fatto.
Maria è nata con un guaio di cui non ha colpa, con un buco in testa scavato da altri; ha i suoi pregi, ma anche tanti difetti, come tutti. Fuma in continuazione, mangia poco.
Non è una santa: Capuano ce la fa vedere in un rapporto sessuale senza impegno, le fa dire parole dure al professore innamorato di lei.
Il regista immagina la vita di una ragazza che ha perso il padre tragicamente due mesi prima di nascere mescolandola con le altre vite che le girano intorno.
Una ragazza incinta abortisce nello studio di una dottoressa privata: le strutture pubbliche è come non ci fossero; il personaggio buono, il professore, è accusato di omicidio in una storia complicatissima; l’amico di famiglia trattava con dolcezza Maria quando aveva undici anni per “farle il servizio” («per questo le tenerezze mi fanno nausea e vomito»). Alcune storie interagiscono solo marginalmente con la trama principale.
Si potrebbe anche dire che non c’è una trama principale, ci sono tante trame che si svolgono contemporaneamente: alcune sono semplici, altre complicate, alcune si incontrano, altre vanno per conto loro. È lo stile di Antonio Capuano.

La madre di Maria non parla più, parla solo con la figlia, sussurrando. Per arrotondare la pensione la povera vecchia impasta faticosamente farina e acqua per preparare le pizze e i dolci della cucina napoletana: pizze con la scarola, casatielli, la pastiera.
La povera vecchia a volte si nasconde terrorizzata: ha paura che le brigate rosse stiano aspettando la figlia «per farle fare la stessa fine del padre».
Maria apre un cassetto dove sono conservati i ricordi, le fotografie, i volantini, i ritagli di giornale. Taglia i capelli corti corti, li tinge di rosso, prende dal cassetto l’orologio del padre, uno di quegli orologi di una volta, con il quadrante largo e il cinturino di metallo; prende la pistola del padre e parte per Milano.
Che cosa succederà? Non lo sa.
Stacco: Maria si trova nel bagno della casa di Mandelli; per risciacquarsi si toglie dal polso l’orologio del padre. Ripassa il rossetto. Sente una discussione, un litigio, voci concitate provenienti da un’altra stanza. Mandelli e il figlio che discutono animatamente; il figlio dice che il padre è «l’ultimo che gli può dare un consiglio, rappresenta il passato» e se non gli trova 30.000 euro non vedrà più la sua faccia.
Il viaggio di Dante si svolge nella mente dell’uomo, le pene dell’inferno ce le creiamo noi: il contrappasso non l’ha inventato Dio, è una nostra invenzione. Hai distrutto la vita a una figlia, tuo figlio ti distrugge la vita.
La situazione ricorda recenti episodi di cronaca; evidentemente le dure lezioni dei padri non bastano per evitare ai figli gli stessi errori e il rischio di essere costretti a percorrere la stessa strada lastricata di sensi di colpa.

Maria può gridare, finalmente, guardando l’ex terrorista negli occhi: «Che ci facevi dentro una manifestazione con una pistola? Sapevi che il poliziotto viveva con la sua famiglia in un appartamento di tre camere e un corridoio, mentre molti di voi “rivoluzionari” eravate cresciuti nella ricchezza?».
Il vecchio balbetta: il “clima di quegli anni”, le bombe, la lotta per l’occupazione delle case sfitte, il sogno di un mondo migliore, la violenza del sistema.


Che cosa è andato storto con questa gioventù nata in un periodo di relativo benessere, vissuta frequentando scuole, sindacati, partiti politici, librerie?
Che cosa è mancato nell’educazione di questi ragazzi che hanno avuto accesso a una quantità di informazioni (libri, giornali, televisione) sconosciuta alle generazioni precedenti?
Antonio Capuano processa anche le generazioni più recenti, ispirandosi a un episodio vero, processa gli appartenenti a una generazione che hanno combinato guai per superficialità, per presunzione. Non tutti: quelli che hanno scherzato col fuoco o si sono fatti trascinare. Dare la colpa a tutti è il meccanismo prediletto dai falsi pentiti.
Non si lascia sfuggire le generazioni più recenti, come il ragazzo, figlio di un boss della camorra ucciso nel carcere di Poggioreale, che ha partecipato all’assalto a una scuola in cui alcuni volontari cercavano di insegnare un mestiere ai giovani.
Bella la scena di Maria che prende a schiaffi, a pugni, a calci, tira per i capelli e costringe alla fuga il giovane stronzo. Lo chiama «ommə e mmèrdə» e «figliə e zoccolə».
C’è un accenno a un altro giovane,

Già l’ho scritto nel commento a Achille Tarallo: Antonio Capuano è un regista anarchico, usa lo strumento cinematografico a modo suo; riserva sempre sorprese perché non assomiglia a nessun altro.
Se uno cerca un racconto lineare, Antonio Capuano non è il suo regista.
Antonio avvia diverse storie che s’intersecano. Alcune le avvia e le lascia perdere: tocca allo spettatore, se vuole, portarle avanti, immaginarne lo sviluppo.
Altre storie non s’intersecano neppure, vanno ognuna per conto suo.

Quando Maria si stende sul marciapiede, nel punto in cui suo padre cadde, colpito da un proiettile in fronte, appoggia la testa sul cordolo che separa il marciapiede dalla strada. Sulla strada, accanto alla sua testa, si vede scorrere un sottile rivolo di sangue.
Sono invenzioni che mi fanno innamorare dei film di Antonio Capuano, realizzate, credo, con la collaborazione di Mad Entertainment. In Achille Tarallo c’è una freccia rossa che mi sembra geniale. È come se il regista dicesse: non è la realtà, è più della realtà, è cinema, è sogno.
Bellissimi sono anche i lunghi piani sequenza sulle strade di Torre del Greco. Un piano sequenza accompagna i titoli di coda sul treno che torna a Napoli, quando la protagonista può finalmente riposare dopo avere saldato il conto con Guido Mandelli, avergli puntato una pistola come lui fece con suo padre, averlo perdonato.
Ora che, finalmente, ho visto Il buco in testa, ho capito che il piano sequenza sui titoli di coda di È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino, è un omaggio a questo film del maestro Antonio Capuano. Sicuramente ce ne sono altri simili nella storia del cinema, ma io vedo la citazione.
Le ultime parole di Maria sono: «È bello accussì, a fa pace».
È vero, perché nella vita, nei confronti di chi ha sbagliato, se è realmente pentito, ci vuole “un pizzico di pietà”, necessario per fare pace.