Premessa aggiunta il 5 gennaio 2021
Ora che Trump si avvia a uscire di scena (si spera), mi va di mettere in evidenza un “lamento” che scrissi insieme al commento al film Blackkklansman di Spike Lee il 3 ottobre 2018, quando il quasi ex Presidente degli Stati Uniti era nel pieno del suo successo mediatico elettorale e in Italia c’era il governo lega – 5stelle. Almeno quest’incubo (l’esistenza politica di Trump) sembra stia per finire.

3 ottobre 2018 h 17.30
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r

Neri per caso
// Green Book // Blackkklansman //

Che guaio hanno fatto gli americani!
Avevano dato una lezione al mondo, una grande lezione: il figlio di un africano eletto Presidente degli Stati Uniti d’America.
Non solo un nero (il primo), ma figlio di un keniota: quanto di meno WASP (white anglo-saxon protestant) si potesse immaginare.

Grande! Un esempio concreto del melting pot, il calderone in cui «Tutti i figli di Dio hanno le ali», come cantavano gli schiavi nelle piantagioni di cotone.

C’è stato un momento in cui si sarebbe potuto affermare con orgoglio: «I am American», ci saremmo uniti volentieri al coro dei patrioti americani per cantare «the land of the free and the home of the brave», dimenticando Doppiavvu Bush, le inesistenti armi chimiche di Saddam Hussein utilizzate per far scoppiare una guerra, la lobby delle armi incurante delle stragi di studenti (Obama ha cercato di contrastarla senza riuscirci), la sanità privata prevalente sulla sanità pubblica (se un cittadino americano si ammala seriamente e non è assicurato precipita da solo in un paese sottosviluppato, pur vivendo in uno dei più avanzati).

Avevano dato un grande segno, gli americani; poi hanno votato per Trump, rendendo il loro paese ridicolo.
Capita in democrazia! Un altro paese democratico ha conosciuto un premier ridicolo, fissato su una cosa sola, oltre ai trapianti di bulbi piliferi; un premier ridicolo e con un passato oscuro (cattive amicizie), che è sempre riuscito a farsi votare da un consistente numero di elettori.

Trump è stato votato, ha vinto le elezioni. Rispettiamo le regole.
“Ha vinto le elezioni” vuol dire che anche lui deve rispettare le regole, fino alla fine del mandato.

La vittoria di Trump ha fatto rialzare la testa (la famosa testa di cazzo) ai suprematisti bianchi.

Di questo si occupa, rivolgendo uno sguardo al passato, BlacKKKlansman, scritto con le tre k maiuscole, per evidenziare il significato: klansman = membro (del kkk), dunque: “membro nero del kukluxklan”.

Non amo i film che si ancorano troppo strettamente a vicende reali, anche se si occupano di argomenti importanti, come il razzismo negli Stati Uniti.
Il film di Spike Lee che più mi piace, che rivedo volentieri quando capita, è Fa’ la cosa giusta; interpreti: Danny Aiello, John Turturro, l’afroamericano Giancarlo Esposito, lo stesso Spike Lee.
Un altro film di Spike Lee mi piace molto: La venticinquesima ora, con Edward Norton; mi piace molto, ma mi rattrista anche, molto.

Do the right thing (1989) sostanzialmente suona la stessa musica di Blackkklansman, elabora lo stesso tema, ma in modo, secondo me, molto più efficace, anche se i nomi dei personaggi non si trovano nell’elenco telefonico e nessuna scritta vagamente intimidatoria appare all’inizio, come invece accade in questo film, per imporci di credere che stiamo assistendo alla “fottuta verità” (“the fucking truth”).
Qualche dubbio viene su questa verità, non delle vicende storiche o del contesto a cui il film fa riferimento, ma della trama tratta da un libro autobiografico, perché in un film la verità diventa trama e la trama consente, a volte richiede, forzature.
C’è un momento in cui la concatenazione degli eventi è incredibile, nonostante la scritta iniziale.
Un testa di cazzo suprematista bianco viene chiamato al telefono proprio mentre sta per rivelare il poliziotto infiltrato alle altre teste di cazzo naziste, sedute intorno a un tavolo a mangiare; la telefonata salva il poliziotto infiltrato, che trova la scusa più banale per svignarsela (scusate, vado in bagno).

C’è una trappola, organizzata per catturare un sorcio poliziotto razzista, in cui il sorcio cade troppo facilmente.
Ci sono congratulazioni reciproche, nella stazione di polizia, che coinvolgono tutti, come se il marcio riguardasse una sola persona.
Sarà pure la fottuta verità, però la trama sembra costruita in modo da dare un messaggio (ho scritto la parola, ora mi parte l’allergia).
Il messaggio (ancora?) sarebbe questo: il razzismo è stato un fenomeno di massa nel sud degli Stati Uniti; l’afroamericano era trattato come il cane di casa, se andava bene, se andava male era linciato. Adesso il razzismo è diffuso tra quelli che hanno votato per Trump.

È vero, ma il problema non riguarda solo quelli che hanno votato per Trump, ma tutti gli altri, in particolare chi si è astenuto o, nelle primarie del partito democratico, ha disperso il voto, e, nel ballottaggio finale, non lo ha riversato sul vincitore delle primarie.

Nella democrazia rappresentativa (Dio ci guardi dalla democrazia diretta o dall’imbroglio della democrazia in rete) si vota, anche se nessun candidato ci va completamente a genio; si vota il meno peggio (la Clinton non era il meglio possibile, il non plus ultra, ma non c’è paragone rispetto a Trump) e, soprattutto, si vota per chi ha qualche possibilità di vincere, non per fare i duri e puri e tenersi Trump per quattro anni.

Mi viene un sospetto: i democratici americani hanno copiato dalla sinistra italiana, senza neanche chiedere il permesso, questa tendenza a puntare sulla testimonianza, questa voglia di perdere.
Si dovrebbe indagare sull’Italygate, anzi sul Leftitalianpartygate, e chiedere il riconoscimento del copyright e pagamento dei relativi diritti per un modo di fare politica inventato e ampiamente praticato dalla sinistra italiana, in particolare da quella che, con una punta di civetteria, ama definirsi estrema.

A proposito di civetteria, ho perso di vista Bertinotti, ma forse si è trasferito negli Stati Uniti e ora frequenta i salotti americani e spiega la “gloriosa” caduta del governo Prodi, di cui si rese protagonista nel 1998, che, dopo un interregno dalemiano confuso, nelle elezioni successive regalò la vittoria a Berlusconi.
Avrà poi capito di avere fatto una mossa che, con linguaggio tecnico politico raffinato ed elegante, si definisce: una grande cazzata?

Non credo. Basta sentire i suoi emuli, basta vedere come sono orgogliosi della incapacità di scendere a compromessi (non mi piego; solo se mi date la presidenza della Camera), della incapacità di trovare il punto di equilibrio tra diverse proposte, di valutare la mossa tattica più opportuna in quel momento per vincere, che non è una parolaccia, è la condizione per portare la situazione un po’ più avanti e consentire di consolidare le riforme.

L’unica reazione che riescono a concepire – quando la loro linea risulta perdente all’interno di un partito, dopo una serie di lagne sulla democrazia interna che esiste solo se passa la loro posizione – è: scissione.

Scissione è la minaccia continua, il sottotesto di ogni dichiarazione; è anche un hobby, un passatempo, una mossa strategica che, tradotta in linguaggio tecnico politico raffinato ed elegante, significa: non gioco più, mi faccio un partitino con tante foglioline dove comando io.
Questi puristi sanno che non vinceranno; a loro basterà poter affermare “io c’ero”. Non vogliono migliorare, anche di poco, le cose; non vogliono agire, anche un pochino, sulla realtà.
Per loro la politica è un gioco virtuale che non consente compromessi (solo se mi date la presidenza della Camera); l’unico obiettivo è guadagnare punti e restare sulla scena.

Scrivo questo commento ai primi di ottobre 2018.
Il referendum costituzionale (dicembre 2016), eccessivamente personalizzato, ha mandato a casa il leader del partito democratico che aveva ottenuto un risultato storico (40%) alle elezioni europee del 2014.
Fausto Bertinotti è sempre dato per disperso (fortunatamente).
Massimo D’Alema è riuscito a portare a termine la sua vendetta.
Con le elezioni del 4 marzo 2018 il movimento del vaffa (inventato dal comico Beppe Grillo) è diventato il primo partito.
La lega, ex Nord, ora sempre più a destra, ha fatto un balzo in avanti.
Pietro Grasso, con le sue foglioline, ha sfondato la soglia del 3 per cento e si avvia a godersi una simpatica irrilevanza, insieme a una variegata pattuglia.
La sinistra, intesa come area di pensiero, e, qualche volta, di governo, è riuscita ad avere una sonora sconfitta e ha scelto il proprio simbolo definitivo: l’immagine di Tafazzi che si tira colpi sull’apparato riproduttivo con una bottiglia di vetro; l’originale bottiglia di plastica è stata sostituita per non dare una visione edulcorata della realtà. Un esperto di comunicazione ha suggerito: i colpi devono fare veramente male.

La parola competenza è stata cancellata dal vocabolario dei partiti: ci si vanta di non avere studiato, di non essersi laureati, di non capire “i numeretti” (vezzeggiativo usato spesso da un vicepresidente del Consiglio esperto di selfie, di tweet, di post, di like, e basta).
In una parola: ci si vanta di essere ignoranti.

Abbiamo visto ministri del tesoro nascondere i master, ministri del lavoro che hanno un curriculum di due righe, compresa l’intestazione e la firma, sottosegretari all’economia rivendicare la propria ignoranza dei meccanismi economici che governano l’odiato mercato: «Chi sarà mai questo signor Spread, come si permette di interferire con le nostre decisioni!».
Queste osservazioni sul dramma della politica italiana, in particolare della sinistra, e, nel corso dell’ultima campagna presidenziale, dei democratici americani, non riguardano il cinema, una forma d’arte poco adatta a raccontare la fottuta verità.

Puoi rappresentare la realtà al cinema, per esempio i ricordi d’infanzia, solo se sei Fellini (Amarcord) o Ingmar Bergman (Fanny e Alexander) o un altro regista geniale, altrimenti è meglio astenersi. Per rendere i tuoi ricordi interessanti devi reinventarli, tanto che, alla fine, neanche tu sai se sono ricordi o invenzioni.

Altrimenti chi se ne frega di sapere quante pippe ti sei fatto a dodici anni sognando le tette gigantesche di una tabaccaia?
Quelle tette potrebbero essere reali o un ricordo amplificato dalla fantasia, o pura invenzione; secondo me neanche Fellini lo sapeva. Questo è il bello.
Al cinema la realtà s’inventa; il cinema è finzione, non è la verità. Il film non deve semplicemente raccontare una storia – questo spetta al documentario – il film deve emozionare.

Quando parlo di emozione non intendo la commozione che la vicenda raccontata può suscitare, intendo la sensazione di trovarsi di fronte a un’opera d’arte: emozione, stupore.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai la gente, al Louvre, sosta rapita davanti alla Gioconda.
Si emoziona.

Forse hanno letto nella guida …, hanno sentito l’esperto …, hanno letto in qualche libro …, sono suggestionati dal mito di Leonardo … .
Può darsi che alcuni, fra sé e sé, pensino, come il ragioniere Fantozzi: «La Gioconda è … come La corazzata Potiompkin».
È possibile, però credo che qualcuno di quei visitatori, magari un bambino delle tante scolaresche che visitano i musei, provi una genuina emozione: un bambino accompagnato da un adulto che non lo forza, non cerca di imporgli il proprio punto di vista.

Per mostrare la verità, o fare qualche passo in direzione della verità, c’è il documentario, meglio ancora se associato all’inchiesta giornalistica, alla presentazione di documenti e immagini non ricostruite, se non per brevi momenti, immagini prese dalla realtà.

Di quale film abbiamo bisogno per emozionarci, per rimanere stupiti come il bambino davanti al capolavoro? Abbiamo bisogno di Luci della città di Charlie Chaplin: un film muto, girato con apparecchiature rudimentali, rispetto alle attuali, nel quale non potrebbe apparire, all’inizio o alla fine, la scritta: questa è la fottuta verità.

Il grande dittatore dovrebbe essere il modello di riferimento di chi si accinge a fare un film (non un documentario), su un argomento importante come il razzismo.
Per farci capire il problema dell’alienazione nell’industria moderna, causata dalle catene di montaggio, bastano cinque minuti di Tempi moderni, molto più efficaci di film che trasudano messaggi.

Tornando a BlacKKKlansman, vedere la faccia del poliziotto nero Ron Stallworth, unico afroamericano nella polizia di Colorado Springs, che, alla fine degli anni ‘70, fece quella indagine pericolosa facendosi beffe dei testa di cazzo del kukluxklan, vedere la faccia del suo collega ebreo – insieme al quale organizzò l’indagine e la beffa – ascoltare la loro testimonianza, se sono ancora vivi, ci avrebbe fatto capire meglio e divertire di più.
Ci sarebbe stato utile ascoltare i testimoni, i superiori dei poliziotti, gli abitanti della cittadina, i suprematisti bianchi teste di cazzo sopravvissuti, farci vedere i luoghi, farci sentire il clima, la musica, l’aria che si respirava.

Molte di queste cose ce le dà anche BlacKKKlansman, però Spike Lee ha preferito mescolare fiction e documenti, ha fatto agire per tutto il film l’attore che interpreta David Duke, il politico suprematista bianco, membro del kukluxklan e, alla fine, ci ha fatto vedere il vero David Duke, il vero testa di cazzo, che, nel 2017, in un comizio, invita a votare per Trump.

Ma per noi, in quel momento, David Duke era l’attore, non era quello vero.
Non ci devi rivelare il trucco mentre lo stai svolgendo! Su questo si basa il prodotto artistico chiamato film.
Per un’ora e mezzo la realtà è ciò che vediamo sullo schermo e prenderemmo volentieri a male parole le immagini che rappresentano i testa di cazzo nazisti, proprio come, si dice, alcuni spettatori riempivano di male parole “ó malamentə” (il cattivo) della sceneggiata napoletana, in teatro.
Quando poi Mario Merola ne ha ricavato dei film, gli spettatori erano troppo evoluti per dar luogo a reazioni sanguigne.

Questo manca oggi nelle sale cinematografiche e nei teatri: gli spettatori non fischiano, non applaudono fragorosamente, ma sempre educatamente, quasi di nascosto, come se avessero bisogno di quello che lancia l’applauso a comando in televisione; la gente è troppo abituata alla televisione, un mezzo sostanzialmente individuale (tutt’al più, sempre meno, famigliare).
Le reazioni emotive di una volta avevano come obiettivo non l’attore che interpretava un personaggio, e forse neanche il personaggio, ma gli altri spettatori.

L’idea di far vedere nel corso del film la persona reale, peraltro molto somigliante all’attore che la interpreta, rovina la festa: non è possibile rallegrarsi per la trappola in cui è caduto il t.d.c. capo del kkk, se un attimo dopo ci mostri che non era lui il t.d.c. (per non ripetermi ho scritto solo le iniziali dell’epiteto inscindibile dai suprematisti bianchi).

Noi vogliamo credere – qui il noi si riferisce agli spettatori, fruitori del prodotto artistico chiamato film – nei personaggi sullo schermo: devono essere veri, non reali, veri come è vera, non reale, la fantasia, come sono veri i sogni.
Va da sé che rivedo raramente i film del neorealismo italiano.

Tanto di cappello ai registi di quella fase del cinema; capisco che era necessario un bagno di realismo, dopo i “telefoni bianchi” e le falsità del periodo fascista, però preferisco De Sica di Ieri, oggi, domani o di L’oro di Napoli a De Sica di Sciuscià.

Quando esco dalla sala devo essere diverso da quando sono entrato: diverso per l’emozione vissuta o per avere fatto quattro risate.
Anche molti anni dopo devo avere voglia di riprovare quell’emozione o quell’allegria, quello scoppio irrefrenabile di stupore o di risa. Non conta nulla, non ha importanza che il film descriva la realtà. Non abbiamo bisogno di andare al cinema per vedere la realtà.

Parafrasando un epigramma di Giuseppe Giusti, si potrebbe dire:

«Il fare un film è meno che niente / se il film fatto non rifà la gente»

Nell’originale il poeta di Monsummano (Pistoia), ingiustamente dimenticato (temo, anche nelle scuole), ovviamente non scriveva film ma libro; infatti questo vale per un libro, per un film, per una musica, per un quadro, per una fotografia, per una performance, per qualunque cosa voglia catalogarsi alla voce arte.

La parte più bella di BlacKKKlansman è il discorso del leader dei Black Panthers, il piano sequenza in cui scorrono le facce degli studenti del college di Colorado Springs, che seguono con grande partecipazione: ragazze e ragazzi di colore, splendidi.
Qual è il motivo principale di tanto odio nei loro confronti? L’invidia, il senso d’inferiorità; per i maschi è certamente, secondo me, la paura di essere meno dotati sessualmente, la nascosta omosessualità.

La cosa che faceva andare fuori di testa quelli del kkk (li faceva andare fuori delle loro teste di cazzo) era la possibilità di un rapporto sessuale di un nero con una bianca.
Immaginavano il piacere che loro non sarebbero mai stati in grado di dare a quella donna bianca, o, forse, veniva allo scoperto il desiderio nascosto, pauroso, destabilizzante, di trovarsi al posto della donna.

Non ragionavano più, ammesso che, con le teste di cazzo che si ritrovavano, potessero fare qualcosa di vagamente paragonabile a un ragionamento; s’imbestialivano.
Quando catturavano un nero sospettato di avere avuto rapporti sessuali con una donna bianca si accanivano sui suoi organi genitali (era quello il loro principale interesse) prima di linciarlo, impiccarlo, bruciarlo.
Per quale motivo lo eviravano, dal momento che l’avrebbero ammazzato?

È evidente! La spinta a manifestare tanto sadismo è l’invidia del pene che aveva mosso pulsioni profonde, fra le quali, principalmente, la latente, temuta, omosessualità.

Bisogna anche dire che alcuni dei Black Panters esagerarono in seguito, affermando una specie di razzismo al contrario (come se i bianchi fossero tutti uguali alle teste di cazzo del kukluxklan), altri organizzarono atti terroristici (terrorismo = malattia infantile. Punto); altri, infine, trasbordarono verso una religione che non opprime i neri ma le donne, costringendole alla sottomissione nei confronti degli uomini.
La realtà è complicata; si fanno solo guai quando ci si illude di avere trovato soluzioni semplici a problemi complessi.

Il cinema non è adatto a spiegare fenomeni sociali di grande portata; se ci prova diventa irrimediabilmente inefficace e noioso.
Non accade al film di Spike Lee, perché è uno dei più grandi registi oggi presenti sulla scena internazionale, perché sa usare gli strumenti, sa inserire le svolte necessarie al racconto per tenere desto l’interesse dello spettatore (alla faccia della verità) e utilizza un vecchio film, Nascita di una nazione (1915, Griffith), per mostrare l’origine di quel cancro, il razzismo, che si oppone al sogno di Martin Luther King («I have a dream …»).

Nota (dopo l’assalto al Campidoglio USA, 6 gennaio 2021)
Purtroppo Trump ha dimostrato di essere un uomo pericoloso e non ha saputo rispettare le regole della democrazia fino alla fine del mandato. Spero che i conservatori americani, non quelli che vanno in giro con un copricapo munito di corna, imparino la lezione. Non solo loro.