25 settembre 2018 h 19.30
Cinema Spazio Uno Firenze – via del Sole, 10

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“Lucky”, regia di John Carroll Lynch.
Rimando in circolazione il commento perché è capitato qualcosa. Chi ha la pazienza di leggere troverà la spiegazione.
Tre motivi mi hanno spinto, il 25 settembre 2018, a vedere questo film al cinema Spazio Uno (attualmente uno dei più antichi cinema d’essai di Firenze è chiuso; non si sa se riaprirà).
Il primo motivo è Harry Dean Stanton, l’attore che interpreta il personaggio principale, uno spilungone novantenne morto dopo l’uscita del film.
Questo giovanotto – alto, slanciato, la faccia scavata, il corpo appassito, consumato – ha al suo attivo (aveva) una interpretazione straordinaria (secondo me) in un bel film del 1984: “Paris, Texas”, regia di Wim Wenders.
È la storia malinconica di un uomo solo, sbandato, che, dopo avere distrutto la famiglia (gelosia, alcol), cerca la moglie – interpretata dalla splendida Nastassja Kinski di quegli anni – per ricongiungerla al figlio, un bambino cresciuto dalla famiglia del fratello.
Ritrova la moglie in un peep show, un posto dove le donne si esibiscono mentre i clienti, nascosti dietro a un vetro semiriflettente, sbirciano (un peep show si trova anche in Un affare di famiglia, di Kore’eda Hirokazu).
Harry Dean Stanton parlava poco in Paris,Texas. Il suo personaggio, chiuso in un disperato mutismo, riusciva ad aprirsi solo in quella situazione sbilanciata, mentre sbirciava la moglie senza farsi riconoscere. «Devo spogliarmi?», chiedeva lei, credendo fosse uno dei clienti guardoni. «No, lasci stare», diceva lui: «Parliamo».
Il personaggio che Harry Dean Stanton interpreta in Lucky è uno di quei vecchi solitari che ti guardano storto se dici cose inutili o frasi convenzionali, ed è anche fumino. Nel bar dove fa colazione – lo conoscono tutti e gli vogliono bene – incontra un avvocato assicuratore; discute un po’ con lui: non gli piace, lo minaccia senza mezzi termini («Ti aspetto fuori») e si toglie la giacca per far vedere che non sta scherzando, fa sul serio, lo aspetta fuori.
Certamente l’avvocato passerebbe un brutto momento se lo seguisse, pur avendo meno della metà dei suoi anni.
Un novantenne che fuma un pacchetto di sigarette al giorno – anche se si lamenta con una bella ragazza nera che è venuta a fargli visita perché «non gli si alza più» – quando si tratta di menare le mani è un ragazzo.
Poi i due si riconciliano davanti a una tazza di caffè americano poco attraente – non c’è neanche la tazza, l’avvocato beve un liquido scuro da uno squallido bicchiere di plastica.
Fanno pace perché l’avvocato assicuratore manifesta le sue insicurezze, che prima aveva mascherato, le sue paure, le stesse del novantenne, e ammette che di fronte alla morte non c’è assicurazione che tenga («Hai assicurato i superstiti, ma per te non cambia niente, quando sarai morto»).
Il film vuole essere una riflessione sulla vecchiaia e sulla morte.
Azz! E rittə nientə! (Caspita! Hai detto niente!) si direbbe dalle mie parti per sottolineare la difficoltà dell’impresa.

Il secondo motivo per andare a vedere Lucky in quel cinema a quell’ora (oltre all’ammirazione per Harry Dean Stanton) è strettamente pratico.
Conosco poco (in realtà non conosco) l’arte contemporanea; ogni volta che mi sono imbattuto in essa sono rimasto freddo; qualche volta mi sono divertito a scherzare su opere che mi sembrava dimostrassero un solo talento dell’autore: la volontà di provocare.
Hai provocato. Va bene, bravo. E poi?
Gli artisti di una volta si rivolgevano a tutti, mettevano i loro lavori nelle chiese, nei palazzi, nelle piazze, nelle case; gli sponsor erano papi, cardinali, principi, mecenati, mercanti d’arte.
Si entrava nella chiesa di san Michele a Carmignano, si vedeva la Visitazione del Pontormo, si passava per piazza Signoria, si vedeva il David di Michelangelo (oggi nella Galleria dell’Accademia), si entrava in una chiesa, in qualsiasi paesino, si vedevano statue, dipinti.
L’opera d’arte restava impressa nella memoria, legata, nel ricordo, a persone, incontri, matrimoni, battesimi, funerali, feste. Non sempre erano capolavori.
Noi li rendevamo capolavori, associandoli alla nostra vita; in qualche modo collaboravamo con l’artista, ci costruivamo un museo personale. Anche la persona più semplice aveva nella mente una personale Galleria degli Uffizi, un Louvre a cui accedere senza andare a Parigi e senza pagare il biglietto d’ingresso.
Gli artisti di oggi sembra si rivolgano solo ai critici d’arte e producano opere che dimentichiamo subito dopo averle viste.
Non riesco a distinguere il ricordo di una porta esposta da un artista al Museo Madre di Napoli dalla porta dei servizi igienici che, nella stessa occasione, ho visitato. La porta dei servizi igienici era meglio rifinita, ma era una porta senza pretese artistiche.
Era esposto anche un letto munito di etichetta per farci capire che non era una comodità del museo, non serviva per il riposo dei custodi o dei visitatori che avessero un momento di abbiocco. Difficile distinguerlo dai tanti letti, certamente opere d’arte, che abbiamo visto e utilizzato nella vita.
Ogni volta che vedo un “cavallo” di Paladino mi domando: «Quanti ne ha fatti?».
Tutti uguali. Da lontano, con lo sfondo di un paesaggio, rendono interessante una fotografia; da vicino sono noiosi. Dopo un po’ stancano.
La Venere degli stracci di Pistoletto, che ho visto al Museo Madre al palazzo Donnaregina nel 2007 (non so dove si trovino ora tutti quegli stracci), sembrava un’installazione della nettezza urbana per educare alla raccolta differenziata: la statua rappresenta il cittadino che depone correttamente gli stracci negli appositi spazi; aggiungendo i contenitori per altri tipi di rifiuti l’installazione potrebbe svolgere una funzione utile.
Nessuna emozione.
Forse è colpa mia: coltivo la concezione, probabilmente superata, ingenua, dell’artista come “spacciatore di emozioni”.
Ehi, Mr Tambourine man, play a song for me! – dai signor Tambourine, canta una canzone per me! procurami una overdose di emozioni.

Mostra delle opere di Marina Abramović in Palazzo Strozzi (settembre 2018). Decido di dare un’occhiata.
Che c’entra con il film?
C’entra l’orario. Il film inizia alle 19.30; c’è tutto il tempo di girare per la mostra, assistere a qualche performance, curiosare, farsi un’idea (è ciò che voglio, niente di più) e raggiungere il cinema per l’inizio del film. Un modo efficiente di impiegare il tempo.
Se la mostra mi annoia ho un’altra possibilità. Se mi annoia anche il film vuol dire che la serata è andata così: succede!

Ho elencato due motivi che mi spingevano al cinema Spazio Uno il 25 settembre 2018; il terzo è per me il più importante.
Sembrerà strano essere così attirati da un titolo, ma ho sentito risuonare molte volte il richiamo «Lucky, Lucky!» nella corte (il cortile), di sera. Anna chiamava il gattino in giro nell’orto.
Il mio vicino di casa, un uomo anziano morto da qualche mese, era particolarmente legato a questo gatto che vedevo girare con aria furtiva. Pensavo che andasse a caccia e gli ho attribuito la responsabilità della morte della tartaruga. Sono pentito della faciloneria con cui ho emesso la sentenza, senza nessuna indagine approfondita.
Anna, la vedova di Claudio, mi ha detto che succede alle tartarughe di capovolgersi quando cercano di superare un dislivello; senza colpa di nessuno, tanto meno del gatto, restano lì aspettando la fine.
Immagino la tartaruga che si è casualmente capovolta e aspetta, guardando il mondo al contrario o chiusa nel carapace. La fame, la sete, la fine desiderata. Perché tanta sofferenza? Povera tartaruga! Voleva solo superare un dislivello.
Nel film una grossa tartaruga terrestre (testuggine), di nome Roosevelt, svolge un ruolo.

Ogni volta che Claudio saliva nell’orto, immancabilmente, dietro di lui appariva Lucky.
Mi è capitato di aiutare Claudio a estirpare l’erbaccia cresciuta sul muretto di contenimento che separa il suo orto dalla strada.
Alzando lo sguardo vedevo Lucky (stavo scrivendo appollaiato, ma si offenderebbe: mi hai preso per un pollo?) in cima al muretto, lo sguardo fisso sul suo amico.
Claudio si girava, lo vedeva, io vedevo quell’omone grande e grosso sciogliersi di tenerezza: «Oh Lucky, o che tu fai lassù?».
Quando poi Lucky si muoveva verso qualcosa che aveva attratto la sua curiosità, diceva: «Fai una giratina?».
Di sera Lucky faceva sempre una giratina per gli orti.
Dopo la morte di Claudio per un po’ non l’ho più visto. Si è preso il suo tempo per elaborare il lutto. Poi è ricomparso.
Ha ripreso a presentarsi verso le otto di sera nel cortile da dove Anna lo chiama (lo chiamava) per dargli da mangiare: «Lucky … oh Lucky!». Appariva con la sua andatura svogliata, da gran signore che si degna di farsi accudire. Sembrava dicesse: «Non illudetevi di comprarmi». Quando aveva voglia, se aveva voglia, si stendeva per terra e si lasciava accarezzare.
Ora che anche Anna se n’è andata (aprile 2025) ed è vecchio, se ne occuperà una vicina di casa; continua a sparire ogni tanto.

Claudio aveva un rapporto speciale con gli animali e con le piante.
Era riuscito a coltivare sulla sua terrazza due limoni in due grandi vasi (qui il clima non è favorevole, d’inverno c’è sempre una gelata); li sapeva potare e aveva una produzione abbondante di limoni.
Una volta mi aiutò a segare un grosso ramo secco di un albicocco (legno duro).
Io ero salito sulla scala pieno di buona volontà: mi agitavo, sudavo, senza ottenere niente. Mi disse: scendi; andò su e in quattro e quattr’otto tagliò il ramo perfettamente alla base, dopo averlo legato in modo che, cadendo, non causasse danni.
Faceva dei nodi forti che poi, con un solo gesto, scioglieva.
Era una fonte di informazioni utili; le regalava solo per il piacere di donare.
Mi raccontava il suo amore per il mare, per la pesca; amava andare in bicicletta, da giovane aveva fatto il pugile dilettante. Aveva un fisico forte. C’era qualche problema ma affrontava tutto, faceva visite di controllo e stava bene. È bastata un’infezione di batteri resistenti presa in ospedale nel corso di un intervento per la cataratta (me lo raccontò Anna) per indebolirlo terribilmente e portarlo alla fine.

Lucky è un vecchio che basta a se stesso (come il gatto); lo vediamo svegliarsi la mattina, lavarsi, impegnarsi negli esercizi ginnici da camera. Va a fare colazione nel solito bar. Tutti gli vogliono bene, nonostante i suoi modi bruschi, scontrosi.
Passa il tempo con le parole crociate e ha un grosso vocabolario su un leggio per trovare il significato delle parole che non conosce. Per esempio: realismo.
Oppure telefona a un amico, che non vediamo mai, da cui riceve spiegazioni, a cui dà informazioni.
Parla poco. Il suo sguardo sperduto comunica lo smarrimento della tartaruga che teme di trovarsi capovolta ad aspettare per vedere che succede. Il mondo gira in modo inaspettato, il corpo non è sempre sotto controllo.
A Lucky capita di perdere l’equilibrio senza una causa apparente.
Non ha perso i sensi, non è inciampato. Si rimette in piedi. È la vecchiaia. Neanche il medico riesce a spiegare che cosa gli sia capitato, ma, soprattutto, il medico, dopo i vari controlli, non si spiega come faccia a stare bene, nonostante fumi un pacchetto di sigarette al giorno.

Da piccolo andavo a messa la domenica, così mi avevano insegnato; ora ci vado qualche volta, ma solo per presidiare una cultura minacciata, che rischia di scomparire.
Ricordo un vecchio (allora mi sembrava vecchissimo), tutto storto, curvo, piegato su se stesso, seduto davanti a me, nella chiesa di San Rocco; ogni tanto chiudeva gli occhi e si concentrava intensamente nella preghiera.
Pensavo: starà immaginando ciò che dovrà vedere tra poco.
Mi meravigliavo di come passasse al normale atteggiamento, ai normali discorsi sul tempo o sul pranzo, dopo le parole con cui don Nicola ci congedava: «Ite, Missa est» (capisco avere eliminato il latino per staccarsi dalla tradizione, per essere universali, ma perché non hanno conservato questa bella espressione, sintetica, precisa?).
Forse quel vecchio era arrivato alla stessa conclusione che Lucky, il personaggio interpretato da Harry Dean Stanton, ci spiega alla fine del film: finché siamo vivi, guardiamoci intorno con un sorriso. Questo è il senso di un racconto quasi privo di trama.
Non si può non sorridere vedendo questi ragazzi con lo zaino a tracolla, nel treno per Pisa, dopo il film. Chissà da dove vengono!
Hanno dipinta sul volto la beata incoscienza che ci accompagna fino a quando tutte le strade sembrano aperte, la vita lunghissima davanti.
Non si può non sorridere davanti a certi paesaggi: “La lunga valle, disseminata di querce, coperta di verde pastura e formicolante di cervi” che apparve per caso allo sguardo del rude capitano spagnolo nell’incipit de I Pascoli del Cielo di John Steinbeck.
Il paesaggio era così bello da riempire di stupore persino quell’uomo crudele, che aveva catturato e stava riportando alla Missione, legati uno all’altro in una lunga catena, venti poveri indios, convertiti per forza.
«Madre di Dio! Questi sono i verdi Pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!»
Lo scrittore racconta un villaggio contadino della California, venti fattorie in una valle, un posto dove l’infelicità supera di molto la felicità, il cosiddetto male (Konrad Lorenz) domina la vita degli abitanti, immigrati e indigeni.
Un inferno, o quasi, in un paesaggio paradisiaco.
Un sorriso che si riempie di emozione quando Harry Dean Stanton (sono tornato a parlare del film), che sapeva cantare molto bene e anche suonare l’armonica a bocca, nel corso di una tipica festa di compleanno di una famiglia messicana, canta con struggente intensità la canzone Volver, volver («Tornare, tornare a questo amore appassionato …», di Fernando Maldonado), accompagnato da un gruppo di mariachi e dagli invitati, che lo guardano sorridenti, stupiti di scoprire che uno yankee conosce la loro lingua e condivide il loro “sentimiento”.
Viene in mente la Canción mixteca, il malinconico motivo messicano che accompagna il film Paris,Texas.
Non è la prima volta che un attore protagonista è così importante da determinare le scelte del regista, da inserire riferimenti precisi a precedenti interpretazioni dell’attore.
Chissà perché mi piacciono tanto i film che hanno i vecchi come protagonisti! (Domanda retorica).
Harry Dean Stanton interpreta se stesso.
David Lynch, il famoso regista (non imparentato con il regista del film) è un vecchio completamente partito di testa: la vecchiaia può portare con sé anche questo beffardo regalino.
Belle la scena iniziale e la scena finale. La testuggine Roosevelt lentamente si muove verso il proprio destino: una lunga vita o una fine anticipata, guardando il mondo capovolto; poi il nulla.

E Marina Abramović?
Entrando nella mostra di Palazzo Strozzi (settembre 2018) si passa, volendo, tra due giovani nudi, un uomo e una donna che stanno lì in piedi come gli stipiti di una porta.
Io ne ho fatto a meno: lo spazio era ristretto; ho preferito evitare contatti.
Poi si accede a una serie di video che danno modo di assistere a precedenti performance dell’artista, in coppia con il suo ex compagno Ulay, artista anche lui.
In uno di questi si vede uno schermo bianco. Ai due lati dello schermo appaiono due giovani, naturalmente nudi: sono i due artisti da giovani, quando lavoravano insieme.
Camminano in senso inverso, uno da destra verso sinistra, l’altra al contrario, uscendo fuori dallo schermo dal lato opposto. Poi rientrano e ricominciano.
Questa scena si ripete più e più volte, con una certa monotonia.
Incontrandosi ogni volta al centro dello schermo, cominciano a sfiorarsi, poi a urtarsi, a scontrarsi.
Perché non si scansano? Non si sa.
Per quale motivo dovrebbero scansarsi, dal momento che, in un’altra performance, vanno a sbattere continuamente contro delle colonne?
Si vede che non gli piace scansarsi. Avranno le loro ragioni.
In un video i due lanciano urli disperati, molto fastidiosi, guardandosi intensamente negli occhi; in un altro si scambiano un bacio che non finisce mai, le labbra azzeccate una all’altra, come i manifesti sui muri.
È il video di una performance durata non so quanto, interrotta dallo svenimento di entrambi. Sembra di assistere alle esibizioni per entrare nel Guiness dei primati o a gare di resistenza.
Al bacio soffocante seguono, in un altro video, gli schiaffi.
Si scambiano schiaffi con tutta calma, alternativamente, un po’ come Stanlio e Ollio, che si tiravano un colpo alla volta, con una piccola pausa, mentre l’altro lasciava fare.
Poi c’è la stanza degli orrori, dove una ragazza sporca (sporca per finta, si vede benissimo), abbrutita (per finta), pulisce ossessivamente uno scheletro umano (finto, di plastica);  alla parete campeggia la gigantografia della stessa performance realizzata da Marina, non so dove.
In un video l’artista dà l’impressione di voler ipnotizzare un asino guardandolo intensamente negli occhi: l’asino sembra leggermente imbarazzato. Forse si domanda: «Questa qui che vuole da me? Perché mi guarda?»
La performance si chiama Confession.

Avrei evitato volentieri di vedere l’artista mentre mangia una grossa cipolla, addentandola in modo vomitevole.
Anch’io mangio le cipolle, non crude (qualche pezzetto nell’insalata, con olio e aceto) e, soprattutto, non in quel modo; il bruciore dev’essere tanto.
Mentre mangia, Marina rivolge gli occhi al cielo e si lamenta nella sua lingua.
Sotto al monitor c’è la trascrizione della traccia audio, cosicché possiamo sapere di che si lamenta.
Elenca tutte le cose di cui è stanca, per esempio: prendere l’aereo, aspettare il treno, dormire negli alberghi.
Cose normali, comuni, direi, di cui siamo stanchi un po’ tutti, ma non per questo mangiamo una cipolla cruda.
È stanca di innamorarsi della persona sbagliata, stanca di vergognarsi del suo naso troppo grosso e del suo culo troppo largo.
Tranne per l’ultima, una preoccupazione che non ho mai avuto, condivido i motivi di stanchezza di Marina, anche se riferendomi a un’altra fase della vita.
Proverò con una fettina di cipolla, per allontanare il pericolo del ritorno di quella fase (non si sa mai).
Continuando l’elenco, Marina dichiara di essere stanca di doversi vergognare della guerra nella ex Iugoslavia (la performance risale al 1995).
Capisco lo sfogo, però mi sembra strano riunire motivi di stanchezza e di vergogna così diversi.
Ma sicuramente la mia osservazione è sbagliata.
Ha senso entrare nella logica di una performance? No. Se le gira di mangiarsi una cipolla e di lamentarsi dei vicini di casa o del cattivo tempo, Marina Abramović si mette davanti a una telecamera e fa la performance.
Oppure va al MoMA di New York e fa la performance.
Se poi trova qualcuno, come me, che paga il biglietto per vederla, buon per lei.

Ogni tanto un visitatore prende il tutto molto sul serio e segue le “istruzioni per lo spettatore” scritte accanto a qualcuno degli oggetti esposti.
Una ragazza si è seduta su una sedia di legno rigido che ha, incastonati nella spalliera, dei cristalli di quarzo.
La sedia è rivolta verso il muro, la ragazza sta lì con gli occhi chiusi. A che pensa? Che cosa si aspetta da una cosa così semplice che potrebbe fare a casa sua?
Forse Marina e questa ragazza si aspettano miracoli dai cristalli di quarzo.
Anch’io mi sono seduto su una sedia dietro a un tavolo per riposarmi e scrivere le mie osservazioni.
Ogni tanto qualcuno si sedeva sulla sedia di fronte e mi guardava fisso.
Non avevo letto le istruzioni. Mi sono accorto che sulla parete si svolgeva un video lentissimo (l’avevo preso per una foto) nel quale Marina, rosso vestita, guardava fissamente negli occhi la persona seduta sulla sedia di fronte, come se stesse giocando a chi ride per primo.
Forse quelli che si sedevano all’altro lato del tavolo hanno pensato che volevo entrare nel gioco e provavano a guardarmi fissamente negli occhi.
Vedendo che mi facevo i fatti miei e continuavo a scrivere, qualcuno dava l’impressione di rimanere deluso.
Mi sono guardato intorno e ho visto tanti piccoli video (non ci avevo prestato attenzione), che ricoprivano le pareti, in cui si vedevano i volti di alcune delle persone fissate da Marina per tre mesi, sette ore al giorno, al MoMA di New York, nel 2010.
La performance si chiama The artist is Present e, si legge nella descrizione, ha prodotto il “fluire di emozioni” tra lei e le persone che ha fissato, senza muoversi dal suo posto, complessivamente per 736 ore e 30 minuti, senza mangiare e senza andare nella toilette (la precisazione, molto interessante, fa parte della spiegazione della performance). Il fluire delle emozioni doveva essere particolarmente impegnativo quando il corpo spingeva per realizzare il fluire dei prodotti del metabolismo verso l’esterno.
Una domanda mi piacerebbe rivolgere all’artista o a chi ha avuto la pazienza di partecipare alla performance: è capitato che qualcuno scoppiasse a ridere?
Se non è capitato mi preoccuperei della mancanza di senso del ridicolo dei frequentatori del MoMA di New York.
Una ragazza si è distesa su una panca di legno disposta tra due grossi cristalli di quarzo e ha chiuso gli occhi, secondo le istruzioni.
Che cosa si aspetta che accada? Quale “miracolo” si aspettano, lei e Marina, dai due grossi cristalli di quarzo? Nelle istruzioni è scritto: “Non muoversi finché l’energia non viene trasmessa”.
La ragazza starà ancora su quella panca di legno?
Due scale di legno, con i pioli formati da grossi coltelli, sostavano minacciose, unica via per accedere a un soppalco (chi ci deve salire? Ci saranno istruzioni? Lasciamo perdere!).

Solo una performance mi è piaciuta, come può piacere un panino con la mortadella: il percorso di duemila chilometri che i due artisti hanno fatto in Cina in senso inverso sulla Grande Muraglia per incontrarsi e dirsi addio (anche due artisti si separano per una banale questione di tradimenti, come lei racconta in un video).
Se questa moda prende piede, si incrementerà di molto il Pil della Cina, alla voce: turismo, Grande Muraglia.
Sarebbe stata una bella idea, nel momento dell’incontro, far partire Marino Marini, o Rocco Granata (l’autore), o Renato Carosone che cantano: «Oh mia bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi rovinare, oh no, no, no, no, no». È un’idea che cedo volentieri, senza nessuna pretesa di diritto d’autore.
Però, cara Marina, guardando il video qualche dubbio viene a chi ha esperienza di lunghi cammini, anche se molto più modesti: non sembravi attrezzata in maniera adeguata per un percorso così lungo.
Ti portavi dietro una troupe che ti riprendeva da diversi lati? Campi lunghi, primi piani; non si vedono bagagli. Anche questo è The Relation Work Project? Traduco dalle istruzioni: «Una serie di esibizioni concettuali molto spinte in cui gli artisti usavano i corpi per esplorare e trascendere i limiti fisici, mentali e psicologici attraverso la resistenza e il rischio».
In conclusione: questa forma di arte non è cosa mia, il progetto mi sembra il piano di lavoro di un corso di arti marziali. Dopo avere girato per un po’, curiosando intorno, mi sono avviato tranquillamente lungo via de’ Tornabuoni, ho preso un caffè, un buon caffè napoletano in un posto che conosco (non voglio “trascendere i limiti fisici”), sono entrato nella sala del cinema Spazio Uno per vedere Lucky, con il grande Harry Dean Stanton (riposi in pace), che, a metà del film, mi ha donato un’emozione cantando una bella canzone messicana.
(25 settembre 2018)

Volver, volver (Fernando Maldonado; canta Harry Dean Stanton)
Tornare, tornare a questo amore appassionato

Este amor apasionado
Anda todo alborotado por volver
Voy camino a la locura
Y aunque todo me tortura, se querer
Nos dejamos hace tiempo
Pero se llego el momento de perder
Tu tenias mucha razon
Le hago caso al corazon
Y me muero por volver
Y volver, volver, volver
A tus brazos otra vez
Llegare hasta donde estes
Yo se perder, yo se perder
Quiero volver, volver, volver
Nos dejamos hace tiempo
Pero se llego el momento de perder
Tu tenias mucha razon
Le hago caso al corazon
Y me muero por volver
Y volver, volver, volver
A tus brazos otra vez
Llegare hasta donde estes
Yo se perder, yo se perder
Quiero volver, volver, volver