25 settembre 2018 h 19.30
Cinema Spazio Uno Firenze – via del Sole, 10

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Più di un motivo mi spingeva a vedere questo film, al cinema Spazio Uno di Firenze.
Il primo motivo si chiama Harry Dean Stanton, l’attore che interpreta il personaggio principale, uno spilungone novantenne che, un po’ dopo l’uscita del film, nel 2017, è morto.
Questo giovanotto – alto, slanciato, la faccia scavata, il corpo appassito, consumato – ha al suo attivo (aveva) una interpretazione straordinaria (secondo me) in un film straordinario (sempre secondo il mio modo di vedere): Paris, Texas (1984) di Wim Wenders. È la storia malinconica di un uomo solo, sbandato, che, dopo avere distrutto la famiglia (gelosia, alcol), cerca la moglie – interpretata dalla splendida Nastassja Kinski di quegli anni – per ricongiungerla al figlio, un bambino cresciuto dalla famiglia del fratello.
Ritrova la moglie in un peep show, un posto dove le donne si esibiscono mentre i clienti, nascosti dietro a un vetro semiriflettente, sbirciano (un peep show si trova anche in Un affare di famiglia, di Kore’eda Hirokazu).

Harry Dean Stanton parlava poco in Paris,Texas. Il suo personaggio, chiuso in un disperato mutismo, riusciva ad aprirsi solo in quella situazione sbilanciata, mentre sbirciava la moglie senza farsi riconoscere. «Devo spogliarmi?», chiedeva lei, credendo fosse uno dei clienti guardoni. «No, lasci stare», diceva lui: «Parliamo».
Il personaggio che interpreta in Lucky è uno di quei vecchi solitari che ti guardano storto se dici cose inutili o frasi convenzionali, ed è anche fumino: nel bar dove fa colazione – lo conoscono tutti e gli vogliono bene – incontra un avvocato assicuratore; discute un po’ con lui: non gli piace, lo minaccia senza mezzi termini («Ti aspetto fuori») e si toglie la giacca, per far vedere che non sta scherzando, fa sul serio, lo aspetta fuori.
Certamente l’avvocato passerebbe un brutto momento se lo seguisse, pur avendo meno della metà dei suoi anni.

Un novantenne che fuma un pacchetto di sigarette al giorno – anche se si lamenta con una bella ragazza nera che è venuta a fargli visita perché «non gli si alza più» – quando si tratta di menare le mani è un ragazzo.
Poi i due si riconciliano davanti a una tazza di caffè americano poco attraente – non c’è neanche la tazza, l’avvocato beve un liquido scuro da uno squallido bicchiere di plastica.
Fanno pace perché l’avvocato assicuratore manifesta le sue insicurezze, che prima aveva mascherato, le sue paure, le stesse del novantenne, e ammette che di fronte alla morte non c’è assicurazione che valga («Hai assicurato i superstiti, ma per te non cambia niente, quando sarai morto»).

Il film vuole essere una riflessione sulla vecchiaia e sulla morte.
Azz! E rittə nientə! (hai detto niente!) si direbbe dalle mie parti per sottolineare la difficoltà dell’impresa.

C’era un altro motivo per andare a vedere Lucky, in quel cinema, a quell’ora (oltre all’ammirazione per Harry Dean Stanton): un motivo strettamente pratico.

Conosco poco (in realtà non conosco) l’arte contemporanea; ogni volta che mi sono imbattuto in essa sono rimasto freddo; qualche volta mi sono divertito a scherzare su opere che mi sembrava dimostrassero un solo talento dell’autore: la volontà di provocare.
Hai provocato. Va bene, bravo. E poi?
Gli artisti di una volta si rivolgevano a tutti, mettevano i loro lavori nelle chiese, nei palazzi, nelle piazze, nelle case (gli sponsor erano papi, cardinali, principi, mecenati, mercanti d’arte).
Si entrava nella chiesa di san Michele a Carmignano, si vedeva la Visitazione del Pontormo, si passava per piazza Signoria, si vedeva il David di Michelangelo (oggi nella Galleria dell’Accademia), si entrava in una chiesa, in qualsiasi paesino, si vedevano statue, dipinti.
L’opera d’arte restava impressa nella memoria, legata, nel ricordo, a persone, incontri, matrimoni, battesimi, funerali, feste. Non sempre si trattava di capolavori.
Eravamo noi a farli diventare capolavori, in qualche modo collaborando con l’artista, costruendoci un museo personale. Anche la persona più semplice aveva nella mente una personale Galleria degli Uffizi, un Louvre a cui accedeva senza andare in Francia e senza pagare il biglietto d’ingresso.
Gli artisti di oggi sembra si rivolgano solo ai critici d’arte e producano opere che dimentichiamo subito dopo averle viste.
Non riesco a distinguere il ricordo di una porta esposta da un artista al Museo Madre di Napoli dalla porta dei servizi igienici che, nella stessa occasione, ho visitato. La porta dei servizi igienici era meglio rifinita, ma sempre di una porta si trattava! C’era anche un letto, esposto con l’etichetta per farci capire che non era una comodità del museo, non serviva per il riposo dei custodi o dei visitatori che avessero un momento di abbiocco. Ancora più difficile distinguerlo dai tanti letti, certamente tutte opere d’arte, che abbiamo visitato, ammirato e utilizzato nella vita.

Qualcuno potrebbe obiettare: l’anno scorso (2017) nel periodo natalizio il comune di Firenze ha messo una scultura di un “maestro” svizzero in piazza Signoria e tu l’hai chiamata: Il monumento allo stronzo.
È vero: mi sembrava proprio un monumento allo stronzo. Anzi, per essere esatti: un monumento stronzo, uno stronzo di monumento (così si evita il richiamo a Merda d’artista di Piero Manzoni, che aveva una sua ragion d’essere).
Si potrebbe aggiungere: ogni volta che vedi un cavallo di Paladino ti domandi: «Quanti ne ha fatti?».
Tutti uguali; da lontano, con lo sfondo di un paesaggio, rendono interessante una fotografia; da vicino: noiosi. Dopo un po’ stancano.
La Montagna di Sale, sempre di Mimmo Paladino, in piazza Plebiscito, a Napoli, sembrava un gioco per i ragazzi; i ragazzi napoletani si divertivano a scalarla, quando la sorveglianza diminuiva, e si dispiacquero per lo smantellamento alla fine delle feste. Non credo che la gente comune l’avesse percepita come un’opera d’arte, su cui fermarsi per riflettere e per stupirsi. Non credo che qualcuno si sia emozionato, guardandola.
Se non serve a riflettere e a stupirsi, a provare emozioni, l’arte a che serve?
Tanto valeva mettere veramente un gioco, nella bella piazza liberata dalle macchine dalla giunta Bassolino.
La Venere degli stracci, di Pistoletto, che ho visto al Museo Madre al palazzo Donnaregina nel 2007 (non so dove si trovino ora tutti quegli stracci), sembrava un’installazione della nettezza urbana per educare alla raccolta differenziata: la statua rappresenta il cittadino che depone correttamente gli stracci negli appositi spazi; aggiungendo i contenitori per altri tipi di rifiuti l’installazione potrebbe svolgere una funzione utile.
L’unica mostra di arte contemporanea che ho visitato con piacere è quella dell’anno scorso a Palazzo Strozzi, con i bellissimi video, i diluvi universali e gli incendi di Bill Viola. Trovo interessante la reinterpretazione delle grandi opere rinascimentali con l’utilizzo della realtà virtuale.
M’interessava la tecnica, non posso dire che mi abbia emozionato; ovviamente coltivo la concezione, probabilmente superata, ingenua, dell’artista come “spacciatore di emozioni”.

Ehi, Mr Tambourine man, play a song for me! – dai signor Tambourine, canta una canzone per me! procurami una overdose di emozioni, non una overdose di veleni.

In questo periodo si svolge, in Palazzo Strozzi, una mostra delle opere di Marina Abramović. Mi sono detto: vediamo di che si tratta.
Che c’entra con il film?
C’entra l’orario. Il film inizia alle 19.30, c’è tutto il tempo per girare per la mostra, assistere a qualche performance, curiosare, farsi un’idea (è ciò che voglio, niente di più), e raggiungere il cinema in tempo per l’inizio del film: Spazio Uno si trova in via del Sole, vicino a Santa Maria Novella.
Un modo efficiente di impiegare il tempo.

Se la mostra mi annoia ho un’altra possibilità: il film. Se mi annoia anche il film vuol dire che la serata è andata così: può succedere.

C’è, infine, per andare a vedere questo film, un motivo che per me è il più importante: il titolo.
Ho sentito risuonare tante volte il richiamo «Lucky, Lucky!» nella corte (il cortile), di sera. Anna chiama il gattino che va in giro nell’orto.
Il mio vicino di casa, un amico, un uomo anziano morto da qualche mese, era particolarmente legato a questo gatto che vedevo girare con aria furtiva. Pensavo che andasse a caccia e gli ho attribuito la responsabilità della morte della tartaruga. Sono pentito della faciloneria con cui ho emesso la sentenza, senza nessuna indagine approfondita.
Anna, la vedova di Claudio, mi ha detto che succede alle tartarughe di capovolgersi quando cercano di superare un dislivello, senza colpa di nessuno, e restare lì, aspettando la fine.

Immagino la tartaruga che si è casualmente capovolta e aspetta, guardando il mondo al contrario o chiusa nel carapace. La fame, la sete, la fine desiderata, invocata. Perché tanta sofferenza? Povera tartaruga! Voleva solo superare un dislivello.
Nel film una grossa tartaruga terrestre (testuggine), di nome Roosevelt, svolge un ruolo importantissimo.

Ogni volta che Claudio saliva nell’orto, immancabilmente, dietro di lui appariva Lucky.
Mi è capitato di aiutare Claudio a estirpare l’erbaccia cresciuta sul muretto di contenimento che separa il suo orto dalla strada.
Immancabilmente, alzando lo sguardo, vedevo Lucky (stavo scrivendo appollaiato, ma si offenderebbe: mi hai preso per un pollo?) in cima al muretto, lo sguardo fisso sul suo amico.
Claudio si girava, lo vedeva, io vedevo quell’omone grande e grosso sciogliersi di tenerezza: «Oh Lucky, o che tu fai lassù?».
Quando poi Lucky si muoveva verso qualcosa che aveva attratto la sua curiosità, diceva: «Fai una giratina?».
Di sera Lucky faceva sempre una giratina per gli orti.

Ora non lo vedo più.

Anna mi ha raccontato che uno dei gatti che stazionano sulla sua bella terrazza, liberi di andare e venire come gli pare, sta male, non mangia da quando Claudio è morto.
Non le ho chiesto se si tratta di Lucky, ero troppo emozionato per fare domande.

Aggiorno dopo un anno (per me queste righe fungono da diario): il gattino si è ripreso; mi capita spesso di vederlo nell’orto, mentre si aggira circospetto. Verso le otto di sera sento Anna chiamarlo nel cortile: «Lucky … oh Lucky!» per dargli da mangiare.
Dopo un po’ appare, con la sua andatura svogliata, da gran signore che si degna di farsi accudire.

Claudio aveva un rapporto speciale con gli animali e con le piante.
Era riuscito a coltivare sulla sua terrazza due limoni in due vasi grandi (qui il clima non è favorevole, d’inverno c’è sempre una gelata), li sapeva potare e aveva una produzione abbondante di limoni.
Mi ricordo quando una volta mi aiutò a segare un grosso ramo di un albicocco (legno duro), che era seccato.
Io ero salito sulla scala pieno di buona volontà: mi agitavo, sudavo, senza ottenere niente. Mi disse: scendi; salì al posto mio e in quattro e quattr’otto tagliò il ramo perfettamente alla base, dopo averlo legato in modo che, cadendo, non facesse danno.

Faceva dei nodi forti che poi, con un solo gesto, scioglieva.

Era una persona speciale, una fonte di informazioni utili, che regalava solo per il piacere di donare.

Mi raccontava il suo amore per il mare, per la pesca; amava andare in bicicletta, da giovane aveva fatto il pugile dilettante. Quando l’ho conosciuto era già anziano, ma aveva un fisico forte; c’era qualche problema (la vecchiaia non è cosa da femminucce, diceva Bette Davis), ma affrontava tutto e stava bene; poi è bastata un’infezione di batteri resistenti presa in ospedale, nel corso di un intervento per la cataratta (me l’ha raccontato Anna) per indebolirlo terribilmente.

Da tutto ciò si capisce: non potevo non andare a vedere un film che si chiama Lucky.

Il personaggio principale è un vecchio che vive da solo; lo vediamo svegliarsi la mattina, lavarsi, fare i suoi esercizi ginnici da camera, la sua passeggiata, la colazione nel solito bar, dove tutti gli vogliono bene, nonostante i suoi modi bruschi.
Ama fare le parole crociate e ha un grosso vocabolario su un leggio per trovare il significato delle parole che non conosce, per esempio: realismo.
Oppure telefona a un amico, che non vediamo mai, da cui riceve spiegazioni, a cui dà informazioni.

Parla poco. Il suo sguardo sperduto comunica lo smarrimento della tartaruga che si è accorta di essersi capovolta e non può fare altro che aspettare per vedere che succede. È la situazione in cui ci troviamo tutti dopo una certa età: capovolti; il mondo gira in modo inaspettato e anche il nostro corpo, ogni tanto, ci fa brutti scherzi.
A Lucky capita di perdere l’equilibrio senza una causa apparente.
Non ha perso i sensi, non è inciampato. Si rimette in piedi. È la vecchiaia. Neanche il medico riesce a spiegare che cosa gli sia capitato, ma, soprattutto, il medico, dopo i vari controlli, non si spiega come faccia a stare bene, nonostante fumi un pacchetto di sigarette al giorno.

Da piccolo andavo a messa la domenica, così mi avevano insegnato; ora ci vado ogni tanto, ma solo per presidiare una cultura minacciata, che rischia di scomparire.
Ricordo un vecchio (allora mi sembrava vecchissimo), tutto storto, curvo, piegato su se stesso, seduto davanti a me, nella chiesa di San Rocco; ogni tanto chiudeva gli occhi e si concentrava intensamente nella preghiera.
Pensavo: starà immaginando ciò che dovrà vedere tra poco.
Mi meravigliavo di come passasse al normale atteggiamento, ai normali discorsi sul tempo o sul pranzo, dopo le parole con cui don Nicola ci congedava: «Ite, Missa est» (perché non hanno conservato, almeno, questa bella espressione, sintetica, precisa?).
«Andate, la Messa è»: fa parte della realtà attuale; l’evento si è verificato, lo abbiamo vissuto, dunque è.
Se traduciamo con «La Messa è finita» perdiamo una parte del significato, che rendiamo implicito (è finita, dunque si è verificata), dove, nell’espressione latina, è esplicito. Un latinista potrebbe correggermi, ma questa è la mia interpretazione, dettata, forse, dall’amore per una espressione sentita da bambino, alla fine della Messa.
La formula non era difficile, la capivano anche quelli che non avevano studiato. Bella e sintetica era anche la nostra risposta: «Deo gratias», due parole, rispetto alle quattro della formula attuale. Ora si risponde: «Rendiamo grazie a Dio», con quel “Rendiamo” che mi sembra burocratico, inutile. Sarebbe meglio rispondere: «Grazie Dio» e, dato che l’italiano non è sintetico come il latino, per non lasciare l’espressione in sospeso, potremmo aggiungere: «Ti ringraziamo per averci concesso il miracolo della tua presenza tra noi». Ma come? Ti lamenti del passaggio da due a quattro parole e proponi un’espressione ancora più lunga? Una persona diceva: se devo ubriacarmi voglio ubriacarmi col vino buono.

Forse quel vecchio era arrivato alla stessa conclusione che Lucky, il personaggio interpretato da Harry Dean Stanton, ci spiega alla fine del film: finché siamo vivi, guardiamoci intorno con un sorriso.
È l’unico momento in cui Lucky sorride.

Non si può non sorridere vedendo questi ragazzi con lo zaino a tracolla, nel treno per Pisa, dopo il film.
Chissà da dove vengono!
Hanno dipinta sul volto la beata incoscienza che ci accompagna fino a quando tutte le strade sono aperte, dobbiamo solo decidere quale intraprendere; la vita ci sembra lunghissima.
Non si può non sorridere davanti a certi paesaggi: “La lunga valle, disseminata di querce, coperta di verde pastura e formicolante di cervi” che apparve per caso allo sguardo del rude capitano spagnolo nell’incipit de I Pascoli del Cielo di John Steinbeck.
Il paesaggio era così bello da riempire di stupore persino quell’uomo crudele, che aveva catturato e stava riportando alla Missione, legati uno all’altro in una lunga catena, venti poveri indios, convertiti per forza.
«Madre di Dio! Questi sono i verdi Pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!»
Lo scrittore racconta un villaggio contadino della California, venti fattorie in una valle, dove l’infelicità supera di molto la felicità, il cosiddetto male (Konrad Lorenz) domina la vita degli abitanti, immigrati e indigeni.
Un inferno, o quasi, in un paesaggio paradisiaco.

Anche al mare può capitare di sorridere stupiti (sperando di non essere presi per scemi) davanti a quella massa d’acqua semovente che in lontananza si confonde con il cielo.

A Firenze si sorride quando, uscendo da via de’ Cerretani, appare “il mio bel San Giovanni”, in una piazza formicolante di turisti (uguali ai cervi della valle californiana, brucano, però, con la testa all’insù) o, in una sera invernale, deserta, sferzata dalla pioggia che fa risaltare ancora di più la bellezza del Battistero, del Campanile di Giotto, di Santa Maria del Fiore.

Un sorriso che si riempie di emozione quando Harry Dean Stanton (sono tornato a parlare del film), che sapeva cantare molto bene e anche suonare l’armonica a bocca, nel corso di una tipica festa di compleanno di una famiglia messicana, canta con struggente intensità la canzone Volver, volver («Tornare, tornare a questo amore appassionato …», di Fernando Maldonado), accompagnato da un gruppo di mariachi e dagli invitati, che lo guardano sorridenti, stupiti di scoprire che uno yankee conosce la loro lingua e condivide il loro “sentimiento”.

Viene in mente la Canción mixteca, il malinconico motivo messicano che accompagna Paris,Texas.
Non è la prima volta che un attore protagonista è così importante da determinare le scelte del regista o dello sceneggiatore, da inserire riferimenti precisi a precedenti interpretazioni dell’attore.
Harry Dean Stanton ha messo molto di sé in questo film.
David Lynch, il famoso regista (non imparentato con il regista del film, nonostante il cognome) interpreta un vecchio completamente partito di testa: la vecchiaia può portare con sé anche questo beffardo regalino.

Belle la scena iniziale e la scena finale, con la testuggine Roosevelt che lentamente si muove verso il proprio destino: una lunga vita o una fine anticipata, guardando il mondo capovolto; poi il nulla.

E Marina Abramović?

Entrando nella mostra di Palazzo Strozzi si passa, volendo, tra due giovani nudi, un uomo e una donna che stanno lì in piedi come gli stipiti di una porta.
Io ne ho fatto a meno: lo spazio era ristretto; nonostante l’avvenenza della ragazza ho preferito evitare contatti dall’altra parte.
Poi si accede a una serie di video che danno modo di assistere a precedenti performance dell’artista, in coppia con il suo ex compagno Ulay, artista anche lui.
In uno di questi si vede uno schermo bianco. Ai due lati dello schermo appaiono due giovani, naturalmente nudi: sono i due artisti da giovani, quando lavoravano insieme.
Camminano in senso inverso, uno da destra verso sinistra, l’altra al contrario, uscendo fuori dallo schermo dal lato opposto. Poi rientrano e ricominciano.
Questa scena si ripete più e più volte, con una certa monotonia.
Incontrandosi ogni volta al centro dello schermo, cominciano a sfiorarsi, poi a urtarsi, a scontrarsi.
Perché non si scansano? Non si sa.
Per quale motivo dovrebbero scansarsi, dal momento che, in un’altra performance, vanno a sbattere continuamente contro colonne mobili, che hanno il doppio del loro peso, spostandole?
Si vede che non gli piace scansarsi. Avranno le loro ragioni.
In un video i due lanciano urli disperati, molto fastidiosi, guardandosi intensamente negli occhi; in un altro si scambiano un bacio che non finisce mai, le labbra azzeccate una all’altra, come i manifesti sui muri.
È il video di una performance durata non so quanto, interrotta dallo svenimento di entrambi (sembra di assistere alle esibizioni per entrare nel Guiness dei primati o a gare di resistenza).
Al bacio soffocante seguono, in un altro video, gli schiaffi.
Si scambiano schiaffi con tutta calma, alternativamente, un po’ come Stanlio e Ollio, che si tiravano un colpo alla volta, con una piccola pausa, mentre l’altro lasciava fare.

Poi c’è la stanza degli orrori, dove una ragazza sporca (sporca per finta, si vede benissimo), abbrutita (per finta), pulisce ossessivamente uno scheletro umano (finto, di plastica);  alla parete campeggia la gigantografia della stessa performance realizzata da Marina, non so dove.

In un video l’artista dà l’impressione di voler ipnotizzare un asino, guardandolo intensamente negli occhi: l’asino sembra leggermente imbarazzato. Sembra si domandi: «Questa qui che vuole da me? Perché mi guarda?»
La performance si chiama Confession.

Avrei evitato volentieri di vedere l’artista mentre mangia una grossa cipolla, addentandola in modo vomitevole.
Anch’io mangio le cipolle, non crude (qualche pezzetto nell’insalata, con olio e aceto) e, soprattutto, non in quel modo; capisco: il bruciore dev’essere tanto.
Mentre mangia, Marina rivolge gli occhi al cielo e si lamenta nella sua lingua.
Sotto al monitor c’è la trascrizione della traccia audio, cosicché possiamo sapere di che si lamenta.
Elenca tutte le cose di cui è stanca, per esempio prendere l’aereo, aspettare il treno, dormire negli alberghi.
Cose normali, comuni, direi, di cui siamo stanchi un po’ tutti, ma non per questo mangiamo una cipolla cruda.
È stanca di innamorarsi della persona sbagliata, stanca di vergognarsi del suo naso troppo grosso e del suo culo troppo largo.
Tranne l’ultima, una preoccupazione che non ho mai avuto, mi identifico perfettamente, condivido i motivi di stanchezza di Marina, anche se riferendomi a un’altra fase della vita.
Proverò con una fettina di cipolla, per allontanare il pericolo del ritorno di quella fase (non si sa mai).
Certamente la cipolla cruda allontana il pericolo di innamorarsi della persona sbagliata, perché le altre persone, giuste o sbagliate che siano, tendono a tenersi a distanza.
Continuando l’elenco, Marina dichiara di essere stanca di doversi vergognare della guerra nella ex Iugoslavia (la performance risale al 1995).
Capisco lo sfogo, però mi sembra strano riunire motivi di stanchezza e di vergogna così diversi.
Ma, sicuramente, la mia osservazione è sbagliata.

Ha senso entrare nella logica di una performance? No. Se le gira di mangiarsi una cipolla e di lamentarsi dei vicini di casa o del cattivo tempo, Marina Abramović si piazza una telecamera davanti e fa la performance.
Oppure va al MoMA di New York, e fa la performance.
Se poi trova qualcuno, come me, che paga il biglietto per vederla, buon per lei.

Ogni tanto un visitatore prende il tutto molto sul serio e segue le “istruzioni per lo spettatore” scritte accanto a qualcuno degli oggetti esposti.
Una ragazza si è seduta su una sedia di legno rigido che ha, incastonati nella spalliera, dei cristalli di quarzo.
La sedia è rivolta verso il muro, lei è rimasta lì con gli occhi chiusi. A che pensa? Che cosa si aspetta da una cosa così semplice che potrebbe fare anche a casa sua?
Forse Marina e questa ragazza si aspettano miracoli dai cristalli di quarzo.
Anch’io mi sono seduto su una sedia dietro a un tavolo per riposarmi e scrivere le mie osservazioni.
Ogni tanto qualcuno si sedeva sulla sedia di fronte e mi guardava fisso.
Non avevo letto le istruzioni. Mi sono accorto che sulla parete si svolgeva un video lentissimo (l’avevo preso per una foto) nel quale Marina, rosso vestita, guardava fissamente negli occhi la persona seduta sulla sedia di fronte, come se stesse giocando a chi ride per primo.
Forse quelli che si sedevano all’altro lato del tavolo hanno pensato che facevo parte dell’organizzazione, che avevo il compito di guardare fissamente negli occhi chi si sedeva di fronte a me.
Vedendo che mi facevo i fatti miei e continuavo a scrivere tenendo gli occhi sul quadernino, qualcuno dava l’impressione di rimanere deluso.
Finito di scrivere, mi sono guardato intorno e ho visto tanti piccoli video (non ci avevo prestato attenzione), che ricoprivano le pareti, in cui si vedevano i volti di alcune delle persone fissate da Marina per tre mesi, sette ore al giorno, al MoMA di New York, nel 2010.
La performance si chiama The artist is Present e, si legge nella descrizione, ha prodotto il “fluire di emozioni” tra lei e le persone che ha fissato, senza muoversi dal suo posto, complessivamente per 736 ore e 30 minuti, senza mangiare e senza andare nella toilette (la precisazione, molto interessante, fa parte della spiegazione della performance). Il fluire delle emozioni doveva essere particolarmente impegnativo quando il corpo spingeva per realizzare il fluire dei prodotti del metabolismo verso l’esterno.
Una domanda mi piacerebbe rivolgere all’artista o a chi ha avuto la pazienza di assistere alla performance: è capitato che qualcuno scoppiasse a ridere?
Se non è capitato mi preoccuperei della mancanza di senso dell’umorismo, e del confinante senso del ridicolo, dei frequentatori del MoMA di New York.
Una ragazza si è distesa su una panca di legno disposta tra due grossi cristalli di quarzo e ha chiuso gli occhi, seguendo le istruzioni.
Che cosa si aspetta che accada? Quale “miracolo” si aspettano, lei e Marina, dai due grossi cristalli di quarzo? Nelle istruzioni è scritto: “Non muoversi finché l’energia non viene trasmessa”.
La ragazza starà ancora su quella panca di legno?

Due scale di legno, con i pioli formati da grossi coltelli, sostavano minacciose, unica via per accedere a un soppalco (chi ci deve salire? Ci saranno istruzioni? Lasciamo perdere!).

Solo una performance mi è piaciuta, come può piacere un panino con la mortadella: il percorso di duemila chilometri che i due artisti hanno fatto in Cina in senso inverso sulla Grande Muraglia per incontrarsi e dirsi addio (anche due artisti si separano per una banale questione di corna, come lei racconta in un video).
Se questa moda prende piede, si incrementerà di molto il Pil della Cina, alla voce: turismo, Grande Muraglia.
Sarebbe stata una bella idea, nel momento dell’incontro, far partire Marino Marini, o Rocco Granata (l’autore), o Renato Carosone che cantano: «Oh mia bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi rovinare, oh no, no, no, no, no». È un’idea che cedo volentieri, senza nessuna pretesa di diritto d’autore.

Però, cara Marina, guardando il video qualche dubbio veniva a chi ha esperienza di lunghi cammini, anche se molto più modesti: non sembravi attrezzata in maniera adeguata per un percorso così lungo.
Ti portavi dietro una troupe che ti riprendeva da diversi lati? Campi lunghi, primi piani; non si vedono bagagli. Anche questo è The Relation Work Project? «A series of highly charged conceptual performances», una serie di esibizioni concettuali molto spinte «in which the artists used their bodies to explore and transcend physical, mental and psychological limitations through endurance and risk», in cui gli artisti usavano i corpi per esplorare e trascendere i limiti fisici, mentali e psicologici attraverso la resistenza e il rischio.

In conclusione: questa forma di arte non è cosa mia, il progetto mi sembra il piano di lavoro di un corso di arti marziali, per cui, dopo avere girato per un po’, curiosando intorno, mi sono avviato tranquillamente lungo via de’ Tornabuoni, ho preso un caffè, un buon caffè napoletano in un posto che conosco (non potevo rischiare anche con il caffè), e, senza fumare il solito mezzo sigaro toscano (non fumo se ho camminato a passo svelto, mi piacciono gli sfizi ma sono un salutista, non voglio “trascendere i limiti fisici”), sono entrato nella sala del cinema Spazio Uno per vedere Lucky, con il grande Harry Dean Stanton (riposi in pace), che, a metà del film, mi ha donato un’emozione cantando una bella canzone messicana.

Volver, volver (Fernando Maldonado; canta Harry Dean Stanton)
Tornare, tornare a questo amore appassionato

Este amor apasionado
Anda todo alborotado por volver
Voy camino a la locura
Y aunque todo me tortura, se querer
Nos dejamos hace tiempo
Pero se llego el momento de perder
Tu tenias mucha razon
Le hago caso al corazon
Y me muero por volver
Y volver, volver, volver
A tus brazos otra vez
Llegare hasta donde estes
Yo se perder, yo se perder
Quiero volver, volver, volver
Nos dejamos hace tiempo
Pero se llego el momento de perder
Tu tenias mucha razon
Le hago caso al corazon
Y me muero por volver
Y volver, volver, volver
A tus brazos otra vez
Llegare hasta donde estes
Yo se perder, yo se perder
Quiero volver, volver, volver