7 marzo 2020 h 17.50
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

Artisti
// Tenet (nel commento: Tomás Saraceno) // Volevo nascondermi (Antonio Ligabue) // Escher Viaggio nell’infinito // Il mio capolavoro (nel commento: “Modigliani e l’avventura di Montparnasse 1920 – 2020” Livorno Museo della Città) // Lucky (nel commento: Marina Abramović) // Ella & John (nel commento: Urs Fischer) // Alla ricerca di Van Gogh //

Sette Marzo del Duemilaventi. Ci hanno detto che non dobbiamo muoverci da casa se abbiamo i sintomi dell’influenza, in particolare la febbre alta, e se abbiamo frequentato persone provenienti da zone a rischio.
Non vado dal medico da anni, quest’anno non ho avuto il raffreddore, non ho frequentato persone provenienti da zone a rischio, sto bene, i cinema sono aperti. Vado al cinema.

Alla stazione di San Miniato c’è poca gente.
Due ragazze dall’aspetto serio, forse studentesse. Una ha in mano un libro.
Davanti ai binari una coppia abbracciata; poi una signora e un ragazzo.
Tre giovani debosciati attraversano per raggiungere il binario dei treni per Firenze (il secondo binario), ignorando il sottopassaggio.
Due giovani di colore conversano ad alta voce tra di loro e con il telefonino, nella loro lingua. Una conversazione a tre, con uno a distanza che partecipa attivamente: si sente la sua voce.
Credo siano nigeriani; ogni tanto colgo qualche parola o espressione in inglese semplificato (per esempio “I no know” al posto di “I don’t know”, “no wahala” al posto di “no problem”); parlano il pidgin english, una mescolanza di basic english e di parole e espressioni africane. Questa lingua si parla soprattutto in Nigeria e rende possibile la comunicazione tra gruppi appartenenti a etnie diverse. Ha avuto origine nell’epoca delle colonizzazioni ed è molto diffusa.

I due giovani di colore hanno i capelli rasati sotto e i riccioletti sopra. Sono altissimi. Sembrano perfettamente a proprio agio. Sicuramente hanno trovato una soluzione ai problemi del vivere in un paese straniero.
Uno dei debosciati dice, in direzione dei neri: «Fratè, hai una sigaretta?»
Il debosciato ha preso la sigaretta, ha acceso e ha detto, rivolto all’altro nero: «Fratè tutt’apposto?»
Per un momento, quando ha chiesto la sigaretta, ho pensato si rivolgesse a me e stavo per rispondere, poi ho visto uno dei neri accennare di sì col capo, prendere un pacchetto dalla tasca interna del giaccone, estrarne una sigaretta, porgergliela.
Si sono capiti in un attimo, attraversandomi con lo sguardo come se fossi trasparente. Poi ognuno è tornato nel proprio gruppo.

Fa freddo. Nessuno porta la mascherina. Ne parlano in televisione, ma nelle farmacie non si trova.
Arriva il treno; la coppia si scioglie, continuando a tenersi per mano, qualcuno sbuca di corsa dal sottopassaggio, dopo essersi avventato sulle scale; arriva esausto.
Ci avviciniamo a un vagone, il più vicino; non c’è tempo per separarci, come ci hanno consigliato di fare in televisione: forse ci crediamo poco. Solo le studentesse si sono allontanate, previdenti. Facciamo spazio a chi scende; ci mettiamo, più o meno, in fila.
È la novità: sul treno si sale mettendosi in fila, come a Londra, dove si mettono in fila anche alla fermata del pullman. Questo succedeva negli anni settanta, non so ora.
Ci teniamo un po’ distanti. A occhio e croce un metro c’è tra me e la signora che mi segue. Però non riesco a tenere un metro di distanza da quello davanti; la signora è più attenta di me: mi guarda con diffidenza (sarà un’impressione).

Sul treno – sarà un’impressione – mi sembra che ci guardiamo storto: ognuno può essere untore. Se dura, la pandemia distruggerà la simpatia nei rapporti tra sconosciuti, spontanea in terra latina.
Per fortuna non ho incontrato persone conosciute (fingo di essere sovrappensiero? Fingo di non avere riconosciuto? Mi chiudo in me stesso? Dipende. Passare da rincoglionito non mi fa piacere).
Molti posti disponibili; è facile mettersi da soli.
Mi domando come hanno fatto i pendolari. Ce ne saranno di meno, non ci sono gli studenti, ma nelle ore di punta, quando si giravano tre vagoni prima di trovare un posto per sedere, difficilmente sono riusciti a stare da soli.
Si saranno stretti al loro posto, si saranno fatti “piccerillə, piccerillə”, come diceva Nello Arena in Ricomincio da tre, si saranno fatti “liggiérə, liggiérə” (piccoli, piccoli; leggeri, leggeri).

Per fortuna non mi è venuto un colpo di tosse.
Un colpo di tosse capita anche se non si ha il raffreddore. Sarei riuscito a sopportare lo sguardo indagatore di chi è seduto da solo nel gruppo di quattro sedili di fronte?
E se al primo starnuto fosse seguito un secondo? E se la polvere dei vagoni ne avesse richiamato un terzo, una serie? Mi sarei trovato improvvisamente dentro ai Promessi Sposi, con un ruolo poco piacevole: «Va’ via, povero untorello!».

Nella stazione di Santa Maria Novella molto meno gente del solito. Ognuno guarda davanti a sé.
Compare la prima mascherina. Incornicia il volto di una ragazza cinese, molto bella.
La mascherina, elegante, di colore azzurro, mette in risalto gli occhi.
Però! Potrebbe partire una moda.
Quando la sensazione di disastro incombente sarà passata, certamente qualche stilista ci farà un pensierino.
Già vedo le modelle asettiche, magrissime, praticamente pelle e ossa, sfilare con la mascherina, che accentua il loro aspetto spettrale, considerato un pregio dai dittatori della moda.
Per il momento, nonostante le trasmissioni televisive sorbite in continuazione sull’argomento (non si parla d’altro), non ho capito se serve o non serve.

Serve a chi l’indossa? Serve agli altri? Deve avere il filtro, come quelle degli operatori sanitari?
Domande a cui i medici interpellati hanno fornito risposte diverse.
Si va da chi ha detto – sono inutili – a chi ha detto – sono dannose perché si dovrebbero cambiare in continuazione, perché danno una falsa sicurezza – a chi ha detto – in alcuni casi possono servire – a chi ha detto – se la mascherina vi tranquillizza, mettetela: male non fa. Secondo lui dovrei tenere una cosa noiosa davanti alla bocca e al naso perché male non fa. È come dire: se sei scemo, mettila.
Noi siamo attenti, precisi, e notiamo le differenze, che ci sembrano enormi, le piccole contraddizioni.
Alla fine non sappiamo che fare.

La scienza non dà mai una risposta univoca e definitiva. Si basa sugli esperimenti, su ciò che scopriamo vivendo.
Chi si aspetta la verità assoluta dagli scienziati si predispone a forti delusioni.
Però si sono notate troppe differenze di opinione tra i virologi; si è verificato qualche litigio.
«È solo un’influenza», «metterà a tappeto il nostro sistema sanitario», «tamponi sì, tamponi no, tamponi quasi».
Poi ci sono i soliti politici sciacalli.
Ho deciso: non mi pongo il problema, tanto, sulla vetrina di ogni farmacia c’è il cartello: Non ne abbiamo, sono finite.

La ragazza cinese avrà i suoi canali, forse obbedisce ad altri esperti, ad altre regole, forse è abituata a non mettere in discussione le disposizioni delle autorità; o l’ha indossata semplicemente perché, guardandosi allo specchio, ha notato che la mascherina le dona. Il fascino del mistero.
C’è un’altra possibilità, che non ci fa onore: i cinesi sono stati trattati malissimo all’inizio di questa epidemia. Li guardavano come untori. Mettersi la mascherina era un modo per attutire l’aggressività (era come dire: vedete? Non diffondiamo il virus).
Ora gli untori siamo noi e ci accorgiamo di come sia stupido generalizzare.

All’inizio di via Nazionale, nello spiazzo che si chiama Largo Fratelli Alinari, un vecchio con la barba distribuisce pezzetti di un panino ai colombi, che accorrono a frotte.
Mi sembra una bella scena, merita di essere fotografata.

In fondo, Ligabue era solo un vecchio con i baffi lunghi che ci ha donato pezzetti di arte. Si arrabbiava, urlava come un ossesso quando noi non capivamo la sua arte e, anziché accorrere a frotte, come i colombi, notavamo che la tigre sembra un gatto, che l’immagine è fuori squadra, che le statue sembrano giocattoli.

Per raggiungere il cinema Principe, alla fine di viale Matteotti: solito percorso.
Andata: stazione, piazza San Lorenzo, statua di Giovanni delle Bande Nere, via de’ Gori, via Cavour; si passa davanti piazza San Marco, si arriva in piazza Libertà; a dieci metri c’è il cinema.
Prima di entrare in sala: sosta nella pasticceria sotto ai portici di piazza Libertà, dove fanno un buon caffè, molto ristretto per i miei gusti, ma buono. Nella stagione calda: mezzo sigaro toscano ai tavolini all’aperto. Il timore di ingrassare distoglie dalla Sachertorte … solo semel in anno, perché è molto buona e ricorda i primi film di Nanni Moretti.

Ritorno: via San Gallo, fino a una delle traverse del mercato San Lorenzo che portano alla stazione.
Per quale motivo percorro due strade diverse all’andata e al ritorno? Non so; faccio sempre così; mi va di fare così.
All’andata, in pieno giorno, mi piace camminare per via Cavour, vedere il cielo sopra le case; al ritorno, nel buio illuminato dai lampioni e dalle vetrine delle trattorie, mi piace via San Gallo, che, come ho scritto da un’altra parte, con il suo basolato sconnesso e gli alti edifici, mi ricorda certe stradette lunghe e storte intorno all’Università Federico Secondo di Napoli, in via Mezzocannone.

Sul percorso non si nota molta differenza rispetto al solito. Forse la gente, quando si muove su ampi spazi, si sente più tranquilla (via Cavour è molto larga).
Mi viene in mente che oggi è sabato. Per un sabato i turisti sono pochi.

Sulla strada, dopo il Palazzo Medici Riccardi, una mostra su Tutankhamon (credevo si dicesse Tutankhamen, ma è scritto così).

Non mi sembra il massimo come buon auspicio. Forse ho capito chi ha portato il Covid 19 da queste parti. Si dice che questo faraone egizio non avesse gradito l’apertura della sua tomba; si dice che tutti gli archeologi coinvolti siano finiti male.
Devo confrontare la data dei primi casi con la data di inizio della mostra. Potrebbe essere una scoperta. “Esperto sconosciuto ha trovato la causa della mutazione. Dietro l’epidemia c’è un faraone egizio”.

Anche questo è scienza: osservazioni, misure, correlazioni tra i dati.
Un piccolo problema, da poco: su che base si trova la correlazione? Un altro problemino, da nulla: la misura è influenzata da chi la esegue.
Ecco perché se ne sentono tante in giro: non dimentichiamo il discorso sui no vax, che trovò orecchie attente nel movimento dei cinque stelle e della scienza fai da te (ora fingono di avere dimenticato e invocano il vaccino).

Al cinema poca gente.
La regola: una poltrona vuota ai lati di ogni spettatore. Anche le coppie vengono separate. Se la sala si riempisse, avrebbe la metà dell’incasso massimo.
In effetti le poltrone vuote, distanziatrici, sono molte di più.
Gli spettatori delle sale cinematografiche erano già pochi: quest’anno ho visto la sala piena solo per due film: The Irishman, a Pietrasanta ai primi di novembre, e Tolo Tolo, a Pisa a gennaio; questa crisi ha dato un colpo, spero non mortale, ai cinema rimasti. Vedremo!

Il film è bellissimo.
Ero in dubbio se andare a vederlo perché sono molto legato al ricordo dello sceneggiato televisivo (regia di Salvatore Nocita) sullo stesso argomento (il pittore Antonio Ligabue) e all’interpretazione di Flavio Bucci.
Temevo di rimanere deluso, di rovinarmi un bel ricordo. Non è stato così.
Elio Germano è un grande attore e un professionista coscienzioso: non lascia niente al caso, è entrato perfettamente nella parte. La sceneggiatura non è caduta nel tranello di cercare di spiegare un mistero riducendolo a una banale biografia, falsa come sono false e arbitrarie tutte le biografie.

Cose importanti del film: l’interpretazione di Elio Germano, la fotografia, il racconto non sequenziale, ma onirico.
Meravigliosa la lettura fuori campo delle richieste scritte che Antonio Ligabue – consigliato da qualcuno che voleva aiutarlo (sicuramente mise solo la firma) – presentò alle autorità per trovare un rifugio, un’assistenza.
Ligabue (Leccabue era il cognome originale del padre; in realtà lui si chiamava Costa, come la madre) ha avuto molto bisogno di aiuto e raramente l’ha trovato.
Emozionante la sua ricerca ossessiva di una donna da accarezzare, da baciare, il suo desiderio inappagato di una donna.

Aveva un aspetto ripugnante e riuscì ad avvicinare qualcuna – che fingeva di accettare la sua tenerezza nella speranza di sottrargli un disegno – solo quando divenne famoso e ricco.
Comprò tante motociclette – che puliva in continuazione – un cappotto – da cui non si separava mai, neanche d’estate (ho sofferto tanto il freddo che non posso avere caldo, diceva) – una macchina con l’autista.
Aveva un desiderio così forte di una donna, da arrivare a vestirsi da donna, perché, diceva, così mi sento meglio.
Era totalmente indifeso. Si faceva riprendere in momenti intimi, forse perché non si rendeva conto di essere ripreso.

Pochi lo aiutarono. Quando i suoi quadri cominciarono a essere apprezzati, trovò molti approfittatori.
C’è un momento in cui una sempliciona che Antonio voleva sposare sta per accettare un suo bacio. Poi entra qualcuno e lui si ritrae, intimidito. Forse la ragazza aveva pensato ai suoi soldi, alle paste, alla macchina, alla sua devozione; forse la devozione totale di Antonio le aveva fatto superare la repulsione. Non si sa.
In un’altra scena una donna, pagata per sfruttarlo, si mostra nuda nel letto. Lui si ritrae. Scappa. È troppo. Non era quello che voleva.

Sono scene del film, si riferiscono a riprese dal vero di Antonio, realizzate da un regista che non aveva molto rispetto, lo riprendeva in situazioni personali, intime.

In questo film nessuna pretesa di raccontare la vita di un artista in modo sequenziale, di impelagarsi in facili e presuntuose spiegazioni psicanalitiche.
Si va avanti per flash, per ricordi, per incubi.
Elemento importantissimo del film: la lingua originale, sia quando parlano in tedesco svizzero, all’inizio, sia quando parlano in dialetto emiliano stretto.

Riguardo all’arte di Antonio Ligabue, il film, soprattutto alla fine, sui titoli di coda, dà alcuni spunti dai quali chi è interessato può trarre la voglia di approfondire, di trovare qualche pezzetto di arte che quel vecchio con i baffi (che ogni tanto assomiglia a Groucho Marx) ci ha distribuito con generosità.

Per cominciare ad approfondire, c’è su YouTube e, forse, su RaiPlay, un meraviglioso documentario in cui Romolo Valli, per la mia generazione un mito del teatro, parla della sua predilezione per questo pittore.
S’intitola IO E … ROMOLO VALLI E LIGABUE di Anna Zanoli (1974).

Raccomando questo documentario, realizzato per una bella trasmissione Rai, Odeon, che dimostra come si possa dire tutto, proprio tutto, su un artista come Ligabue, mantenendo rispetto e ammirazione, mostrando i luoghi in cui è vissuto, facendo parlare le persone che lo hanno conosciuto.

Il regista di Volevo nascondermi, Giorgio Diritti, gli sceneggiatori, fra i quali lo stesso regista, l’interprete principale, Elio Germano, sono riusciti a far venir fuori una cosa importante, almeno per me.
Antonio Ligabue, nonostante la sua immensa sofferenza, è stato un uomo fortunato e ha avuto una vita bellissima. Prima di fermarsi a pensare: che cazzate sta dicendo? – prego seguire il ragionamento.
Anche quando lo legavano a un letto di contenzione, lo sottoponevano ai trattamenti durissimi che gli psichiatri utilizzavano a quei tempi con la convinzione che il dolore avrebbe sconfitto la malattia, quando è vissuto in povertà, quando è vissuto come una bestia, quando aveva freddo e dormiva in un fienile, Antonio sapeva che sarebbe riuscito a fare una cosa che tanti uomini apparentemente soddisfatti non otterranno mai: esprimere la propria angoscia con l’arte, liberarsi dagli incubi, per un momento, sotto forma di animali dipinti su una tela.

Una vita faticosa, difficile, ma cerchiamo di immaginare se non avesse avuto questo dono: la sua vita sarebbe stata solo un immenso calvario, un immenso, inutile calvario.
Per tanti uomini è così.
Antonio aveva il dono dell’arte, per questo la sua vita ebbe momenti di felicità, forse quando dipingeva, o quando faceva i versi dell’animale rappresentato su un quadro.
Amava gli animali.
Perché sui cavalli non piove? gli chiese un mercante d’arte.«Perché io rispetto i cavalli, io rispetto i cavalli», rispose.
Come per Modigliani, le sofferenze convivevano con il talento, che gli dava momenti di felicità.
Modigliani ebbe anche in dono il fascino personale, l’amore di una donna, Jeanne Hébuterne, ma sono convinto che la sua vera felicità fu la stessa che quell’uomo malato, rachitico, sporco, rifiutato da tutti, ebbe la fortuna di vivere in alcuni momenti: la felicità della creazione artistica.

Antonio sapeva che non doveva cedere, nonostante l’impegno degli altri a modificarlo, a normalizzarlo; doveva essere se stesso, con tutti gli eccessi che il suo spirito gli suggeriva, con tutte le deformità e le sofferenze che il suo corpo gli offriva.
Ho molto apprezzato la dedica di Elio Germano al Festival di Berlino (Berlinale 2020), dove ha vinto il premio come miglior attore: «a tutti gli storti, agli sbagliati, agli emarginati, a tutti i fuori casta, ad Antonio Ligabue e alla grande lezione che ci ha dato».

Volevo nascondermi è l’ultimo film visto in sala, prima della chiusura dei cinema causata dalla pandemia. Il commento trasmette lo sconcerto di quei giorni.
Domenica 8 marzo 2020 – Sul Corriere online leggo che il decreto del governo per fronteggiare la diffusione del Coronavirus prevede che in tutto il Paese “siano sospese le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, compresi quelli cinematografici e teatrali svolti in ogni luogo, pubblico o privato …” fino al 3 aprile.
La proiezione a cui ho assistito ieri sera (sabato 7 marzo 2020), al cinema Principe di Firenze, è stata una delle ultime in sala cinematografica in Italia. Dopo le due proiezioni successive (20.10 e 22.30) i cinema sono stati chiusi; resteranno chiusi almeno fino al 3 aprile.
Se riapriranno, sarà il segnale che la guerra è finita, come è stato dopo l’ultima guerra mondiale.