18 gennaio 2018 h 17.00
Cinema Teatro La Compagnia Firenze – via Cavour, 50r

La Cina è vicina
// In the mood for love // One second // Mr Long (attore cinese, ambientazione giapponese) // Alla ricerca di Van Gogh //

Artisti
// Tenet (nel commento: Tomás Saraceno) // Volevo nascondermi (Antonio Ligabue) // Escher Viaggio nell’infinito // Il mio capolavoro (nel commento: “Modigliani e l’avventura di Montparnasse 1920 – 2020” Livorno Museo della Città) // Lucky (nel commento: Marina Abramović) // Ella & John (nel commento: Urs Fischer) // Alla ricerca di Van Gogh //

I giovani
// Sick of Myself // Io Capitano // Animal House // Next Sohee // Close // Chiara // Penguin Highway // 1917 // Jojo Rabbit // Un giorno di pioggia a New York // La paranza dei bambini // Roma // Mirai // La terra dell’abbastanza // Lady Bird // Alla ricerca di Van Gogh //

Su Van Gogh girano due film.
Uno di animazione: Loving Vincent. A questo film hanno lavorato attori che non appaiono in carne e ossa. La loro immagine è stata inserita all’interno di moltissime riproduzioni di quadri di Van Gogh. Le riproduzioni sono state fornite di animazione. I personaggi dei quadri si muovono. Un effetto piacevole, se non si esagera.

L’altro film è cinese. Si chiama Alla ricerca di Van Gogh (il titolo inglese, China’s Van GoghsI Van Gogh cinesi – contiene una sottile ironia).
Si tratta di un docufilm che indaga nella realtà con gli strumenti del cinema. Strumenti che il regista adopera con grande perizia.

In realtà il primo, Loving Vincent (l’ho visto quando è uscito, a ottobre), secondo me è una sòla, come si dice a Roma, anche se una sòla di successo e pluripremiata, ciò che rende ancora più difficile sfuggirle. È costato parecchio lavoro, tempo, denaro, per cui dispiace parlarne male; ha riempito le sale cinematografiche in tutto il mondo – questa è una buona notizia per chi ama il cinema. È piaciuto a molti, critici di mestiere e spettatori comuni. A me non è che proprio non sia piaciuto, è che mi è sembrato una sòla (più avanti tradurrò la parola per i non romani, per quanto forse sia inutile).

Vediamo i personaggi dei quadri muoversi, interagire tra loro e con Vincent – anch’egli un personaggio dei suoi quadri (fece diversi autoritratti) – per costruire una storia che avanza faticosamente lungo il film e nessuno seguirebbe fino in fondo se non contribuisse a tenerci svegli il continuo movimento di figure animate sullo schermo.
A questo va aggiunto che i pittori, non so quanti, ma tanti, che hanno collaborato al film, non solo hanno riprodotto i quadri, hanno anche modificato le proporzioni degli oggetti rappresentati, in modo che potessero entrare esattamente nello schermo del cinema.

Si capisce che un quadro quasi quadrato non può essere inserito in un rettangolo senza lasciare scoperte due superfici ai lati. A maggior ragione se il quadro è più alto che largo. Se vogliamo occupare tutto il rettangolo dello schermo cinematografico, dobbiamo aggiungere sfondo, dipinto “alla maniera di Van Gogh”, ai due lati del quadro.

Potremmo anche – non so se questo si sia verificato, ma in linea teorica è possibile – aggiungere immagini prese da altri quadri, o, addirittura, immagini di oggetti che Vincent avrebbe potuto dipingere col suo stile inconfondibile, ma che, purtroppo, non ha dipinto, per cui noi, i pittori che hanno lavorato a questo film, correggiamo il quadro, lo rendiamo più adatto ai nostri schermi e lo mettiamo in movimento. Diamo nuova vita a Van Gogh, si potrebbe dire, ma è proprio lui? O forse è un giovane pittore, uno di quei cento e più, uscito dall’Accademia, che si diverte a “fare il Van Gogh”?

È ovvio che un cambiamento di proporzioni determina un cambiamento radicale di prospettiva: non si tratta più degli stessi quadri, indipendentemente dalla bravura dei pittori e dalla loro capacità di rifare uno stile. Se, dunque, qualcuno vuole farmi credere che sullo schermo vedrò i quadri di Van Gogh animarsi, approfitta della mia superficialità.

Per questo parlo di sòla, fregatura, truffa.

A maggior ragione dal momento che alcuni paesaggi sono stati fatti passare dall’inverno all’estate, modificando i colori, aggiungendo rami e foglie. Non dimentichiamo che si tratta di un film, deve raccontare una storia: non si può cambiare stagione passando da una scena all’altra. Se Van Gogh ha dipinto d’inverno l’ambiente che serve d’estate nella sceneggiatura del film, poco male, ci pensiamo noi, i cento e passa pittori, con i nostri pennelli e il nostro rotoscopio (lo strumento che si usa per colorare i fotogrammi).

Ciò che vediamo animarsi, dunque, sono brutte o belle copie – dipende dai gusti – che, accostate agli originali, si rivelano come quadri dipinti imitando lo stile di Van Gogh, nulla di più.
Non si tratta di pretendere che sullo schermo ci siano i veri quadri, ma la copia non dovrebbe volutamente falsificare l’originale.
Le copie sono come i soldi falsi: qualcuno ci casca, ma chi ha un po’ di intelligenza li guarda controluce o li fa passare attraverso la macchinetta: «Non mi freghi. Non valgono nulla.».
Lo schermo si riempie di pennellate che si muovono passando da una scena alla successiva, come se ciascuna fosse dipinta in quel momento davanti a noi. Ma noi sappiamo che non è così.
Se, fra i titoli di testa, avessero fatto apparire una bella scritta: «Le immagini di questo film sono liberamente ispirate ai quadri di Van Gogh», e un’altra: «La storia raccontata è vagamente ispirata alla vita e alle circostanze della morte di Van Gogh», non parlerei di truffa. Gli autori potrebbero dire: lo spettatore è avvertito, il film può piacergli o non piacergli, ma non è una sòla.

Invece, dal trailer, dalla pubblicità e dal modo in cui il film è presentato, sembra che, sprofondato nella poltrona della sala cinematografica, mi venga offerta un’esperienza sconvolgente, unica, anche se fruibile a ripetizione: vedere i quadri di Van Gogh animarsi, vederli uscire dal pennello del pittore (sto volutamente esagerando).
Inoltre, all’interno di questa esperienza di realtà virtuale, troverò una tesi fondata su solide basi riguardo ai motivi che indussero il pittore a darsi la morte. Non è così: i quadri non sono di Van Gogh e la tesi è solo il tentativo di creare un po’ di interesse che spinga lo spettatore a sottoporsi a questo movimento continuo di linee, fastidioso, fino alla fine.
Il film è una sòla.

A Dorota Kobiela e Hugh Welchman, la pittrice polacca e il regista inglese del film, direi: inventate un altro personaggio, anche non presente nei quadri; inventate, soprattutto, una storia che catturi la nostra attenzione dall’inizio alla fine. Riprendete pure una tesi qualsiasi – tanto: chi se ne frega! Non andiamo al cinema per scegliere tra una tesi e un’altra – ma fate un film; animato, non animato, ma che sia un film, un racconto basato su immagini in movimento (senza esagerare con il movimento). Soprattutto, lasciate stare il povero, grande, Vincent.

Il film cinese Alla ricerca di Van Gogh, invece, non è una sòla, anche se il racconto si basa su copie dei quadri di Van Gogh realizzate da artigiani cinesi, quindi, sostanzialmente, su una truffa; poi, come in ogni giallo che si rispetti, bisogna capire chi è il truffatore. Nel corso del film lo capiamo: il vero truffatore è uno che vive dalle parti di Amsterdam e vende riproduzioni di quadri.

La vicenda si svolge a Shenzhen, nella Cina sud-orientale, una metropoli che in alcune inquadrature sembra la megalopoli invivibile post guerra nucleare di Blade Runner. In un quartiere di Shenzhen, che si chiama Dafen (poca cosa, “solo” 10.000 abitanti), molti hanno imparato a copiare lo stile di Van Gogh. Sono così bravi che le loro copie sono acquistate da commercianti olandesi privi di scrupoli, economici e artistici, per venderle ai turisti di bocca buona, che ingoiano qualunque cosa.

Nel passaggio da Shenzhen ad Amsterdam il prezzo delle copie si moltiplica anche più di otto volte, partendo da un valore molto basso. Cosicché il commerciante olandese si arricchisce, mentre i poveri artigiani cinesi riescono a malapena a tirare avanti, lavorando fino all’esaurimento per produrre copie in continuazione.

Ho visto questo film nella confortevole sala del Cinema Teatro La Compagnia, che si apre alla vista all’improvviso percorrendo via Cavour, a Firenze, subito prima di arrivare in piazza San Marco (chiesa e convento omonimi, affreschi del Beato Angelico; priore più famoso: il piagnone per antonomasia Girolamo Savonarola).

Eravamo in tre in sala a vedere un film bello e coinvolgente, poetico.

Gli abitanti del quartiere Dafen di Shenzhen fanno continuamente copie dei quadri di Van Gogh, in una vera e propria catena di montaggio (si sa che nella Cina sedicente comunista lo sfruttamento dei lavoratori non ha limiti) per rispondere alle ordinazioni provenienti da Amsterdam. I pittori lavorano con i pennelli e con i colori; mangiano, dormono, vivono nello stesso laboratorio ventiquattro ore su ventiquattro.

Le scene più belle, e tristi, sono girate nella lunga sala, dove giovani a torso nudo continuamente rifiniscono le copie, controllati da compagni esperti che li costringono a rifare più volte un orecchio o il contorno di un vaso, senza nessuna possibilità di ribellione. Di notte dormono nella stessa sala, uno accanto all’altro, come fossero legati a una catena, da cui si liberano, ogni tanto, quando hanno completato, impacchettato e spedito una consegna, e, liberi per poche ore, vanno in un parco divertimenti a farsi le fotografie davanti alla copia della Tour Eiffel, del Tower Bridge, dei mulini a vento, o a cantare con la ragazza in un locale di karaoke. Ogni aspetto della loro vita consiste nel copiare o ammirare la copia di qualcosa: il lavoro (Van Gogh), il turismo (le copie dei siti famosi), il divertimento (il karaoke).

Il protagonista principale del film, titolare dell’impresa, dà lavoro ai giovani, ma anche lui e la moglie lavorano senza sosta; ha realizzato, in più di venti anni, migliaia di copie di quadri di Van Gogh.

Dopo tutto questo tempo e questo lavoro, ha coltivato un sogno: vedere da vicino quei quadri di cui conosce solo le riproduzioni. Il viaggio è costoso, però il truffatore olandese (qualcuno direbbe il commerciante, però il mercato senza regole e senza limiti allo sfruttamento è truffa), il truffatore dei cinesi e dei turisti, che acquista le sue copie da vent’anni e ci tiene a mantenere un rapporto così conveniente con un’azienda che non ha alcuna possibilità di imporre un prezzo equo, è disposto a pagargli il vitto e l’alloggio ad Amsterdam; deve solo pagarsi il biglietto aereo. Così il suo sogno, insieme ad alcuni compagni, si può realizzare. Raggiungono Amsterdam, entrano nel Van Gogh Museum.

Da questo punto il film è poesia: L’Infinito di Leopardi, la testa e il collo di Madame Zborowska di Amedeo Modigliani. Poesia.

Non esistono diversi gradi di poesia: la poesia è una, o c’è o non c’è. In questo film c’è, anche se espressa, naturalmente, con mezzi diversi dalla scrittura o dalla pittura. È espressa con la tecnica cinematografica, che il regista sa usare con grande maestria.

È difficile spiegare: ci sono tante scene memorabili ed emozionanti; bisogna vedere il film. Basti dire che alla fine, tornato in Cina, il giovane protagonista decide di non più limitarsi a copiare (deve pur continuare a vivere), ma di diventare Van Gogh, nel senso di esprimere con la pittura il proprio animo.

Si ritaglia uno spazio per dipingere le cose della sua vita: la nonna grinzosa che vive in campagna, le case “sgarrupate” del villaggio dov’è nato – uno che passa in macchina e lo vede armeggiare con i pennelli gli urla dal finestrino: «Fagli una fotografia!», come per prenderlo in giro. Dipinge il laboratorio dove ha trascorso tanta parte della vita insieme ai familiari, agli amici, ai compagni di lavoro, copiando i quadri di Van Gogh.

Prima di partire si era procurato un vecchio film (Lust for Life, titolo italiano: Brama di vivere, regia di Vincente Minnelli, con Kirk Douglas, 1956) e aveva seguito la storia romanzata, ma ben interpretata e raccontata, del grande pittore, incompreso e disperato, in una sala piena di fumo, proiettata sullo schermo con un proiettore che da noi sarebbe roba d’altri tempi, insieme ai suoi amici, con grande partecipazione.

Per fortuna non aveva trovato Loving Vincent. La presunzione di questo film gli avrebbe fatto credere che sia possibile essere Van Gogh senza sofferenza, senza pazzia, senza morte; gli avrebbe suggerito che, per diventare Vincent, tutto ciò che serve è un rotoscopio, col quale disegnare e colorare, insieme ad altri cento e più pittori, i fotogrammi di un film di animazione.