9 aprile 2020

La malattia
(“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
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Il silenzio era interrotto da un ticchettio elettronico.
«No, non è una sveglia.
Non mi sembra una sveglia.
Io non ho la sveglia. Non le ho mai sopportate.
Che cos’è?

Un allarme? È un allarme.
Non metterò la mascherina! Non mi arrendo!
La mascherina è una cosa seria se si vede sul viso del chirurgo che esce dalla sala operatoria, sul viso dell’infermiera.
È una cosa seria se si trova sotto alla maschera grande, trasparente, sul viso dell’operaio che lavora al decespugliatore nel parco.
In campagna bastava la maschera grande, di plastica; non avevo mai visto uno con la mascherina di stoffa.
La mascherina non è seria se a indossarla è il salumiere, il macellaio, la casalinga con la borsa della spesa.
Sarà anche utile, necessaria, non lo nego. Ma non è seria.
Cos’è questo rumore? Perché non lo fanno smettere? Dove sono? Devo cercare di svegliarmi.
Vogliono obbligare tutti a indossare la mascherina.

Obbligheranno anche la vecchietta che cerca l’elemosina sul portone della chiesa?
Non si vedrà più l’espressione intensa, di sofferenza muta, su cui si basa tutta l’interpretazione.
Non bastano gli occhi.
Quel pezzo di stoffa attaccato con i fili alle orecchie disturba.
È come, a teatro, il microfono che spunta a lato della bocca sulla faccia dell’attore, incapace di far arrivare la voce fino in fondo alla sala. Gli attori di una volta, senza microfono, si sentivano anche quando sussurravano nell’orecchio del vicino.
Mi ricordo … mi ricordo … aspè … quella volta …
Per questo non vado più a teatro.
Ora mi sento meglio. Non c’è più quel rumore elettronico. Sto bene. Mi sento proprio bene. Meno male!
Non farò l’elemosina; la vecchietta con la mascherina non riuscirà a emozionarmi, a ricordarmi la contraddizione con ciò che abbiamo recitato e cantato e ascoltato in chiesa.
Recitato … cantato … ascoltato … recitato … cantato … recitato …
Devo pensare qualcosa di comico, una scena comica, che mi metta di buon umore, devo superare questo senso di oppressione, la tristezza. Da quanto tempo ce l’ho? Non ricordo.
Da quando è morta … … … Da quando è morta.
Qualcosa di comico.

Un lebbroso supplica Cristo di guarirlo. Cristo tende la mano e dice: La tua fede ti ha salvato. Sei guarito. Però … metti la mascherina!
Come si chiamava? … Quel pittore del quattrocento … il pittore non avrebbe dipinto la scena se tra Cristo e il lebbroso ci fosse stata una mascherina.
Beati quelli che non partecipano agli assembramenti e non alitano goccioline di saliva piene di virus in faccia ai vicini, perché di loro è il regno dei cieli.
Nel quadro di Giotto Cristo avrebbe detto alla Maddalena: Noli me tangere. Non mi toccare, non sai che è pericoloso? Prima disinfetta le mani!
Niente mistero, niente poesia.
Niente religione.
Non c’è più religione.
Ora c’è matematica. Lo dicevamo a scuola. Tanto tempo fa.
Non mi convinci. Non ce la faccio a metterla.
La gente la porta in un modo!
Ieri ho visto uno che aveva fatto un buchino in corrispondenza della bocca e ci aveva infilato una sigaretta accesa.
Quello ha capito tutto. Dev’essere uno degli scienziati che intervistano alla televisione, uno dei grandi esperti che parlano, parlano e si contraddicono tra di loro, sono solo interessati a dire: io l’avevo detto, gli altri sbagliavano.
Allora ditelo qualche volta, cazzo! Ditelo: Non so. Le mascherine servono, non servono, sono inutili, sono necessarie, si possono riutilizzare: non so. Fate un po’ voi, o rivolgetevi a qualcun altro.
Mi è bastato leggere il numero dei morti per avvertire un brivido nelle ossa e convincermi della necessità di non uscire, nonostante la primavera.
Resto in casa, non mi va di mettere la mascherina! Va messa anche in casa? Per via di mio figlio che è tornato da zone a rischio? Che esagerazione!»

Così diceva tra sé e sé mentre lo portavano in terapia intensiva, stranamente sereno.
Sicuramente lo avevano sedato. Si apprestavano a intubarlo e il cervello, quasi assente, ripercorreva l’ultima telefonata, prima di addormentarsi.