26 ottobre 2020 h 22.00
Schermo televisivo

La malattia
(“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
// L’invenzione della neve (malattia mentale) // The father (Alzheimer) // Zona arancione (pandemia) // Zona rossa (pandemia) // Ci risiamo! (pandemia) // Se c’è un aldilà sono fottuto (tossicodipendenza) // Dopo la liberazione provvisoria (pandemia) // L’illogica allegria (pandemia) // La mascherina (pandemia) // Tutto il mio folle amore (autismo) // La linea verticale (cancro) // Arrivederci professore // Dolor y gloria // Domani è un altro giorno // Don’t worry // Quanto basta (autismo) // The party //

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
// Campo di battaglia (la prima guerra mondiale) // Dostoevskij // Another End // Silent Land (la morte di un immigrato) // Marx può aspettare (la morte di un fratello) // Se c’è un aldilà sono fottuto (la morte di Claudio Caligari) // Hart Island, Bronx (racconto) // La bicicletta (racconto) // Si vedono i primi segni (racconto) // 1917 (la prima guerra mondiale) // Hammamet (la morte di Craxi) // Il settimo sigillo (la morte) // Il sacrificio del cervo sacro (la maledizione) //

Un docufilm dedicato a Claudio Caligari.
Valerio Mastandrea, il 3 ottobre 2014, attraverso le pagine del giornale Il Messaggero, scrisse una lettera aperta, indirizzata a Martin Scorsese.

“Caro Martino
Ti scrivo per una ragione semplice.
Tu ami profondamente il Cinema. In Italia c’è un Regista che ama il Cinema quanto te. Forse anche più di te. Certo non basta amarlo per farlo bene, il Cinema, ma questo signore prossimo ai 70 ha avuto poche opportunità per dimostrare il suo valore. Quando le ha avute, lo ha fatto.
La sua filmografia fai presto a leggerla: Amore tossico, 1983, L’odore della notte, 1998.
Ti scrivo perché, dopo tanti anni di “resistenza umana” alla vita, a questo mestiere e alle sue dinamiche, questo signore ha avuto il coraggio di scrivere un nuovo copione, e di provare a girare un nuovo film.
Da circa due anni un gruppo di amici di cui faccio parte lo sta supportando muovendosi nei meandri delle istituzioni e delle produzioni grandi e piccole ottenendo piccoli risultati ma importanti. Attorno a questo film si è creata un’atmosfera molto rara. In tanti lo vogliono fare per rispetto di questo signore e del più alto senso del Cinema e di chi vive per il Cinema. Molte delle eccellenze del nostro settore hanno espresso la volontà di lavorare gratuitamente o di entrare in partecipazione.
Se starai ancora leggendo, ti chiederai: «allora perché non riuscite a metterlo in piedi?»
La risposta a questa legittima domanda ti obbligherebbe a un’altra domanda: «È così difficile fare i film in Italia?». Questo è un altro discorso. Più lungo e più maledettamente ovvio, almeno per noi.
Perché il Cinema di questo signore, Claudio Caligari, merita molto di più di quanto è stato fino ad oggi. E perché, lo ripeto, quanto lo ama Claudio, il Cinema, forse neanche tu, Martino.

Caro Martino, questa mia lettera è solo un tentativo che va ad aggiungersi alle centinaia che abbiamo fatto in questi due anni. Non riusciamo a raggiungere una cifra tale per mettere questo signore sul set: che è il suo luogo naturale.
Ho pensato: questo signore parla e cita Martino come se fosse un suo compagno di scuola. Conosce il Cinema e soprattutto quello di Martino come lo avessero fatto assieme. A noi mancano tanti soldi per fare questo film. È piccolo ma ne mancano ancora tanti, anche per quel piccolo. Allora io chiedo a Martino di leggere il copione e di guardarsi Amore tossico.
Spero che Martino lo faccia, si innamori del Cinema di questo signore e venga qui a conoscerlo, pronto a produrre il suo film insieme a noi che siamo la sua piccola banda che il Cinema lo ama e lo detesta forse per quanto lo ama.
Spero che Martino non si offenda per come lo chiamo, ma è questo signore che lo chiama sempre così.
Ecco, questo ho pensato e questo spero. E anche se questa lettera sarà tradotta e con la traduzione forse si perderà la commozione con cui è stata scritta, sarà stato un altro tentativo a cui ne seguiranno altri magari ancora più folli.”

Non so se Martin Scorsese abbia risposto a questa lettera e se si sia mosso per consentire al suo collega italiano di fare il film Non essere cattivo. Non so, non ho indagato, non voglio saperlo, è un fatto che appartiene alla sua sfera privata.
Perdiamo continuamente occasioni nella vita, non so se Martin Scorsese abbia colto questa. Non m’interessa, non è affar mio.
Claudio Caligari riuscì a completare il film di cui parla Mastandrea; partecipò alle ultime fasi del montaggio. Poi morì.

In conclusione, alla filmografia riportata nella lettera, bisogna aggiungere Non essere cattivo, 2015.
L’odore della notte, 1998.
Amore tossico, 1983.

Ho riportato di nuovo le date dei film per evidenziare la distanza temporale tra l’uno e l’altro.
Chi viene conquistato da Amore tossico, un capolavoro, e apprezza gli altri due, nei quali si vede la mano del maestro, non può fare a meno di domandarsi: perché così pochi? Perché solo tre, a distanza di quindici anni uno dall’altro?
La domanda è legittima, dal momento che il regista per tutta la vita ha prodotto copioni, sceneggiature, progetti di film estremamente dettagliati.
Non si troverà una risposta a questa domanda, forse solo qualche ipotesi, ma molto parziale e inadeguata a spiegare tanto spreco di talento da parte di un sistema (produttori, distributori, esercenti delle sale, critici cinematografici, esperti di cinema, spettatori fruitori di questa forma d’arte) che si lamenta per la mancanza di grandi registi e non si batte, come Valerio Mastandrea e quella che lui chiama la “piccola banda”, per dare la possibilità a qualcuno che ha dato prove di sé di continuare a lavorare e a produrre in questo campo.

Non essere cattivo è reperibile su RaiPlay: alla produzione ha partecipato anche Rai Cinema; questo è un motivo che mi fa essere contento e orgoglioso di pagare il canone Rai.
L’odore della notte si trova su YouTube.
In questo docufilm sulla vita e sul cinema di Claudio Caligari ci sono molti spezzoni significativi di Amore tossico e si vedono interviste d’epoca al regista e interviste attuali agli attori, si vede come erano e come sono diventati, i sopravvissuti, negli stessi luoghi, seduti sulle stesse panchine o sul muretto che delimita il piazzale del pontile a Ostia Lido.

Classe 1948, cresciuto nel pieno della contestazione, dopo alcuni cortometraggi, alcuni “documentari a sfondo politico sociale” (come dice un suo compagno di scuola e collaboratore di quegli anni), Claudio Caligari riuscì ad avviare la realizzazione del suo primo lungometraggio.
La location, per dirlo come direbbe Martino, è Ostia e i dintorni di Roma.
Il linguaggio è il romanesco, non brutto come la lingua delle stesse periferie molti anni dopo; basta confrontare con la lingua sporca, brutta, aggressiva di Favolacce (fratelli D’Innocenzo).
Questo peggioramento della lingua deve essere la conseguenza di profonde mutazioni, termine utilizzato dai virus (oggi assai di moda) per designare i propri cambiamenti riguardanti le sequenze di nucleotidi; i virus sono molto più semplici di noi e hanno una vita sociale ridotta al minimo, forse per questo sono così insistenti e decisi a romperci le scatole. Noi siamo troppo complicati per riuscire a competere: possiamo solo puntare a una convivenza – più o meno – pacifica.

«Ma come! dovemo svortà e te piji er gelato?»
«Nun te capisco. Se sbattemo per mette insieme quattro lire e fasse no schizzo e tu te piji er gelato!»
«Figurate! A me ’sta robba ormai me rimbarza. È troppo scrausa.»
«A Ciopper! Te staj a rifà ll’occhi, eh?»
«Me so punzicato!»

Un bel dialetto romanesco, una lingua che canta, anche quando parla di cose brutte.

Il filo che tiene insieme la trama è sottile e delicato; i protagonisti sono tossicodipendenti alla periferia di Roma, fino a Ostia.
Negli anni settanta le organizzazioni criminali avevano immesso nelle strade grandi quantità di eroina.
Trovavi eroinomani soprattutto nelle periferie delle grandi città, ma anche nelle medie e piccole, in alcune piazze di cui si erano impossessati.
Nel decennio successivo un’opera teatrale, In exitu (1988) di Giovanni Testori, rappresentò con linguaggio assai crudo il soliloquio di un giovane tossicodipendente, che poi si trasformava in dialogo con l’autore, e, alla fine, nel rantolo di un moribondo, in un vespasiano alla stazione di Milano.

Sul palcoscenico, di fronte al pubblico, l’interno di un vespasiano, di quelli presenti nelle stazioni e dintorni fino agli anni novanta, quando furono sostituiti dai bagni pubblici.
Un ragazzo è disteso sul pavimento, con la testa appoggiata alla parete, i piedi rivolti verso il pubblico; si vede il fondo delle sue scarpe da ginnastica.
Ogni tanto si alza e barcolla avanti e indietro, poi torna nella posizione di partenza.
Lancia in aria con disperazione un flusso di parole, pochi verbi; nomina una serie di cose in fila, in italiano, in dialetto milanese, in una lingua inventata da Testori, a volte cose turpi. Non sempre si capisce quello che dice; si capisce la disperazione, si distinguono le bestemmie.
Si chiama Riboldi Gino; tante volte ripete, urla il proprio nome: «… Lui, Riboldi Gino. Gino! – l’urlo della madre; vomito di sangue; emorragia di partoriente; da sopra i chiodi trapassati, in lei, dal Golgota; dalla croce. Quand’avèa saputo. L’occhio atterrito sui violacei fori; benché pesti; benché marci. Nere tombe, lì, nella carne-cancrena …».
Alla fine morirà per overdose, con la testa nel water alla turca.
Al teatro La Pergola di Firenze alcuni spettatori reagirono al linguaggio crudo del personaggio, a volte blasfemo, manifestando la propria disapprovazione. Secondo me non capivano che il poeta rappresentava una realtà molto più vicina alle persone cosiddette benpensanti di quanto potessero immaginare. Testori aveva scritto quest’opera teatrale spinto da una notizia letta sul giornale. In un vespasiano della stazione di Milano era stato trovato un ragazzo morto di overdose, con la testa finita nel foro del water.

Ci vuole un attimo di respiro dopo aver letto questa notizia, anche se lontana da noi. Si capisce che un poeta scriva di getto una lunga poesia, nella “sua” lingua, una poesia che poi diventa opera teatrale.

Alla fine della Sacra Rappresentazione (nonostante le parolacce e le bestemmie, mi fece pensare a «Donna de Paradiso / Lo tuo figliuolo è priso …»), quando gli attori vanno sul proscenio per ricevere l’applauso e ringraziare il pubblico, Franco Branciaroli, straordinario interprete di Gino, non si muove dall’ultima posizione assunta morendo dal suo personaggio: non muove un muscolo, mentre una parte del pubblico applaude e un’altra parte esprime il proprio dissenso col silenzio o con grida di disapprovazione.

Questo per dire il clima, sociale e culturale, in cui Caligari propose e riuscì a realizzare il suo film: gli artisti non potevano ignorare un dramma che aveva investito la società, in particolare i giovani, dopo la fine dell’allegra, vitale, contestazione del ‘68 (a cui seguirono i “morti senza tomba” della droga e gli assassini delle brigate rosse).

Gli eroinomani sono drogati particolari; hanno un aspetto assai debole, remissivo; quando sono in rota sono disposti a umiliarsi fino all’estremo. Hanno un solo pensiero, fisso, e si sbattono ogni giorno, fino a quando non trovano la dose di cui hanno bisogno, che aumenta in continuazione.
Gli eroinomani di vecchia data hanno le braccia e le gambe coperte di buchi, perché quando la pelle, sfregiata, reagisce con le cicatrici, diventa difficile bucarla nella stessa zona. Ogni volta bisogna trovare una parte del corpo meno tartassata, per bucarla e raggiungere la vena.
Ragazze che pochi mesi prima sarebbero scoppiate a piangere per un’iniezione intramuscolo, si facevano ripetute endovene, da sole, senza nessuna precauzione, usando la siringa passata da uno che si era appena bucato. Di qui la diffusione dell’AIDS.
C’è gente che ha venduto le cose più care, tra le quali il proprio corpo, per procurarsi la quantità sempre maggiore di eroina necessaria per riprovare l’estasi dei primi buchi.

Un gruppo di tossicodipendenti che circolavano tra Ostia e i dintorni di Roma sono i protagonisti di Amore tossico; il film si basa su una ricerca condotta in quegli anni dal sociologo Guido Blumir (Caligari era molto rigoroso, i suoi film partono da uno studio) e racconta una storia d’amore, un amore condizionato dalla situazione particolare dei protagonisti: amore fra tossici, amore tossico, amore e basta.
Il film fu molto apprezzato, soprattutto da Marco Ferreri, che aveva dato una mano a Claudio per sbloccare il finanziamento da parte della casa di produzione, allora importante, la Gaumont.
Quando era stato girato in parte, le riprese si erano dovute fermare per mancanza di soldi. Caligari era partito con un piccolo produttore; fu grazie all’interessamento e all’impegno di Marco Ferreri che intervenne la Gaumont e, dopo una interruzione durata quasi un anno, il film fu ripreso e portato a termine. Era stato fermo per un anno e molte cose, nel frattempo, erano cambiate.
I tossicodipendenti non hanno una vita stabile: iniziano la disintossicazione che abbandoneranno per l’ennesima volta, si perdono completamente, finiscono al gabbio, come si dice a Roma, o all’ospedale per il fegato o per l’AIDS. Qualcuno riesce a venire fuori dal famoso tunnel.
A quei tempi non si sapeva bene come aiutarli, i centri di accoglienza facevano i primi passi.
Ma Claudio aveva le spalle forti: con gli opportuni interventi sulla sceneggiatura riuscì a superare questa difficoltà; il film uscì e fu molto apprezzato.
Ostia, in quegli anni, con la sua spiaggia, la sua pineta, i giovani sottoproletari che avevano tanto attratto Pierpaolo Pasolini – in quei luoghi aveva girato Accattone – era diventata un centro di spaccio dell’eroina, con un numero crescente di morti.
L’intenzione di Caligari era di mostrare la trasformazione del sottoproletariato descritto da Pasolini dopo che la droga, originariamente bene di consumo dell’alta borghesia (che disponeva di medici e di soldi sufficienti per tenerla sotto controllo), era stata spostata dalle organizzazioni criminali sui giovani delle classi sociali meno abbienti. Non avendo la possibilità di tenere sotto controllo la situazione, si trovavano in un attimo dentro a un vortice che li conduceva inesorabilmente al degrado, alla malattia, alla morte.
Venne fuori un film estremamente realistico, ma anche simbolico, crudo e poetico nello stesso tempo (mi torna ancora una volta alla mente In exitu), una rappresentazione a volte impressionante di un mondo poco conosciuto, che includeva l’iniezione di sostanze nelle vene: gli attori, tossicodipendenti, accettarono di iniettarsi sostanze innocue per mostrare questo momento che si ripeteva più volte nella loro giornata.
Le scene più drammatiche si svolsero intorno al monumento dedicato a Pasolini, eretto nel posto dove aveva trovato la morte.
Il film fece scalpore, trovò apprezzamenti, ma anche critiche feroci, suscitò discussioni, polemiche.
Sembrava che per il regista, la cui bravura nessuno metteva in discussione, fosse aperta la strada che l’avrebbe condotto a trovare i finanziamenti per fare altri film.

Invece tutto si bloccò. La strada, per Claudio Caligari, inspiegabilmente si chiuse.
Per quindici anni le sue proposte non furono prese in considerazione; un film addirittura avviato, con la scelta del cast e i sopralluoghi, si fermò, perché i soldi non bastavano. I produttori esitavano a puntare su questo regista, nonostante la qualità del primo film.

Dopo quindici anni, nel 1998, Caligari riuscì a realizzare il suo secondo film: L’odore della notte.
Anche questo un grande film.
Prendeva spunto dalle imprese della cosiddetta “banda dell’Arancia Meccanica”, una banda di delinquenti della periferia romana che, negli anni tra la fine dei settanta e i primi ottanta, assaliva le ville della Roma bene, strappava pellicce dalle spalle, collane dal collo delle signore, picchiava, stuprava, ricattava.
Nel film c’è la famosa scena di cui parlo nel commento a un’Avventura (regia di Marco Danieli, 18 febbraio 2019) in cui Little Tony, che interpreta se stesso, è costretto a cantare Cuore matto sotto la minaccia della pistola puntata alla testa da un delinquente.
Anche questo film descriveva una trasformazione del sottoproletariato, che, lontano dall’impegno politico, si procurava i beni di consumo, i simboli della ricchezza, ammazzando e facendosi ammazzare.

Nonostante l’apprezzamento unanime che accolse il film, il regista non riuscì a trovare i finanziamenti per altri progetti e rimase fermo, anche per la crisi economica che investì il mondo del cinema e convinse i produttori a puntare sul sicuro (i cinepanettoni, le commedie).
Così arriviamo a Non essere cattivo, di cui parlava Mastandrea nella lettera a Martin Scorsese.
Nel frattempo Claudio Caligari si era ammalato gravemente, aveva subìto interventi e chemioterapia.

Anche in quest’ultimo film rappresentò una mutazione del sottoproletariato: l’arrivo delle droghe sintetiche, ancora più potenti, che sconquassano il cervello, prima ancora di rovinare il fegato.
Mentre i drogati di Amore tossico vivevano momenti alterni tra giri con gli amici, tentativi di “svortà” che finivano male, sbattimenti alla ricerca dell’eroina, quelli di Non essere cattivo sono ridotti quasi ad automi, perdono gradualmente ogni contatto con la realtà.
Due giorni dopo la conclusione del montaggio, Claudio Caligari morì.

Alcune frasi colte nel docufilm mi hanno colpito; le ho scritte come su un quaderno di appunti, come a scuola, per ripassarle, per rifletterci su.
Sono state dette da Claudio, da Valerio Mastandrea, da Luca Marinelli, da altri attori, dalla mamma di Claudio, da tecnici e amici che lo hanno conosciuto da ragazzo o che hanno imparato a conoscerlo lavorando e collaborando con lui.
Le elenco in ordine sparso, stando attento al senso, più che all’esattezza della citazione.

«La domanda è: fa più male morire ucciso con un colpo di pistola, o rientrare nei ranghi in una società che non ti darà mai la possibilità di migliorare la tua vita?

Il cappellino di Cesare è un riferimento a Mean Street.

Saranno quindici anni, venti che dico: si può fare un altro Mean Street. Questo è un altro Mean Street, il film che mi è più vicino.

Claudio è andato al cinema per la prima volta con suo padre perché facevano Ben Huhr. È ritornato tutto … dice: che roba! ma che roba! Ma come fanno? Io voglio fare il cinema.

Era un bambino timido. Parlava poco. Per farlo parlare bisognava parlare di cinema.

Mi piaceva il suo modo di essere asciutto, secco. Le poche parole. Nel cinema si parla tanto, tanto. Ognuno dice la sua. Le sue parole erano pesate, erano quelle e dovevano essere così, perché aveva le idee chiare.

Non era il solito furbo, simpatico, che con le parole riesce a convincerti, a intortarti … era uno attento e sicuro, che voleva fare quella cosa lì in quel modo lì, e guai se non lo mettevi in condizioni di farla in quel modo.

Quello che mi ricordo di più era la sua particolare intransigenza sulle planimetrie. Era necessario che gli consentissero di girare nel modo in cui lui aveva immaginato di girare.

Partiva da Roma e andava a Milano a vedere i cineclub; poi non tornava a casa perché non c’era più il treno. Dormiva in stazione sulle panchine di legno e tornava al mattino.

All’anteprima al Festival di Venezia c’è stata una rissa. Marco Ferreri ha tirato il cappello, ha dato dello stronzo a Tatti Sanguineti, le sedie che volavano, la Schygulla in piedi sulla sedia che urlava “Ha ragione Marco”, parolacce, un casino incredibile. Ma noi ci siamo divertiti tantissimo.

A me interessava particolarmente [a proposito di Amore tossico] mettere in scena la tragedia storica che ha investito tutte le grandi periferie urbane; le borgate romane che sono nel film stanno per tutte le periferie urbane, dove la droga è l’unico consumo sostanzialmente concesso.

Due giorni prima di morire ha finito il montaggio. Quando l’ha finito mi ha detto: Accompagnami a letto. Mamma io ho ancora in mente tre film pronti da fare. Lui è morto così. Con la sua idea del cinema.

Muoio come uno stronzo e ho fatto solo tre film. Se n’è uscito così. Fermi a un semaforo rosso. Stavamo andando insieme a parlare con un amico oncologo in ospedale … … …» [Valerio Mastandrea]

Claudio (un amico si chiama per nome, anche se non si è conosciuto di persona, ma solo attraverso la sua arte), Claudio, amico mio, hai fatto tre grandi film.
Devo contraddirti: non sei morto come uno stronzo. La gente come te non è stronza, non lo è mai stata da viva, non lo è da morta. La gente come te non viene dimenticata, almeno fino a che ci sarà qualcuno che si emoziona vedendo i tuoi film e si emoziona al racconto della tua vita, a vederti altero nelle interviste, a saperti mai piegato al compromesso, ai piccoli sotterfugi dei piccoli uomini, a sentirti spiegare le tue intenzioni e come sei riuscito a realizzarle in un film, con lucidità e giusto orgoglio.

«… … finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane»

Dei Sepolcri (Ugo Foscolo)

Al Festival di Venezia 2015, dove l’ultimo film di Claudio Caligari fu premiato – dopo la sua morte – gli attori, i tecnici, gli amici, la madre, si abbracciavano commossi. Mancava solo lui (o, forse, c’era?).
Guardavo quelle scene, sullo schermo del televisore, verso la fine del docufilm; guardavo la sala piena di gente. Pensavo all’ultimo dpcm, alle previsioni catastrofiche di fonte autorevole e mi domandavo: non staremo più così vicini gli uni agli altri? Non ci abbracceremo più? Abbiamo perso tutto questo? Un senso di angoscia mi ha preso. (27 ottobre 2020, piena notte o quasi alba)