26 ottobre 2019 h 21.15
Cinema Comunale di Pietrasanta (LU) – piazza del Duomo

Altro film del regista: // Il ritorno di Casanova //

Famiglia (genitori e figli)
// La sala professori (la scuola è un’estensione della famiglia) // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw /e/ Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //

La malattia
(“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
// L’invenzione della neve (malattia mentale) // The father (Alzheimer) // Zona arancione (pandemia) // Zona rossa (pandemia) // Ci risiamo! (pandemia) // Se c’è un aldilà sono fottuto (tossicodipendenza) // Dopo la liberazione provvisoria (pandemia) // L’illogica allegria (pandemia) // La mascherina (pandemia) // Tutto il mio folle amore (autismo) // La linea verticale (cancro) // Arrivederci professore // Dolor y gloria // Domani è un altro giorno // Don’t worry // Quanto basta (autismo) // The party //

Sarei più contento se Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores mi fosse piaciuto.
Il Cinema Comunale di Pietrasanta è un antico teatro; quando non ci sono spettacoli teatrali funziona da cinema.
In alto, in rilievo sul marmo al di sopra della doppia porta di legno, c’è la scritta “Teatro”. Di fronte al teatro, in una bacheca, è segnalato il film che sarà proiettato quel giorno e nei giorni successivi nell’unica sala, generalmente in due orari: 18.00 e 21.15.
Chi non conosce questa particolarità e arriva alla bacheca, se è lento di comprendonio, come me, vede il teatro ma non capisce dove sia il cinema.
Dal momento che i responsabili del bar interno, che fanno i biglietti, vanno a cena dopo la proiezione pomeridiana e riaprono una mezz’ora prima della proiezione serale, se si arriva in anticipo, quando il teatro è chiuso, si gira intorno e si guarda tenendo un punto interrogativo disegnato sulla testa, come nei fumetti: dov’è il Cinema Comunale di Pietrasanta in piazza Duomo?
Nessun problema: si chiede a uno dei camerieri o delle cameriere dei ristoranti o dei bar che affacciano sulla piazza; il tempo di un caffè, dopo un po’ le porte del teatro si aprono e, lungo un corridoio che porta al guardaroba, al bar, poi alla sala, si scorgono le locandine dei film; poche, non invadenti.

È bella questa situazione: il cinema teatro apre le porte dopo che il bigliettaio ha cenato – una situazione che rispetta i tempi del lavoratore ed è perfettamente coerente con il posto in cui ci troviamo: un invito alla lentezza, al rilassamento, come in quella vecchia pubblicità con il grande Ernesto Calindri: “Contro il logorio della vita moderna”.
Pietrasanta, città d’arte: contro il logorio della vita moderna.

Basta guardare questa grande piazza dallo spiazzo, un po’ in rilievo, antistante il teatro, entrare nel Duomo (1300), visitare il campanile cinquecentesco con scala elicoidale autoportante (alcuni ritengono progettata da Michelangelo Buonarroti), o anche solo ammirare le facciate, il marmo bianco degli edifici, girare per le vie intorno, entrare nei musei, nelle chiese (ahi Fernando! Disgraziato! Ma che cosa hai combinato!?)*.
In questa cittadina arroccata tra le Alpi Apuane e il mare c’è tutto il necessario per vivere bene: il mare, la collina, la montagna, la campagna, gli olivi, gli odori, i sapori e i suoni della Versilia, l’arte.

*[nota] «Ammannato, Ammannato, che bel marmo t’hai sciupato» è la frase che molti fiorentini rivolgevano all’autore del “Biancone” di piazza Signoria, Bartolomeo Ammannati. Con le esclamazioni tra parentesi s’intende esprimere la disapprovazione per i due pannelli, intitolati Porta del Paradiso e Porta dell’Inferno (vedi in Fotografie) di Fernando Botero, che campeggiano, uno di fronte all’altro, nella Chiesa di San Biagio o Della Misericordia. Per alcuni sono capolavori, per altri, tra i quali mi metto anch’io, solo la stanca applicazione di uno stile incapace di evocare sentimenti, emozioni, meno che mai il sentimento religioso.

A Pietrasanta c’è tutto.
Anche la stazione ferroviaria, per arrivare e partire comodamente (mezz’ora da Pisa).
Per me è fondamentale: non rinuncio alla possibilità di allontanarmi in treno da un posto quando ne ho voglia. Ho la necessità di alternare quiete e confusione, natura e città; vivo volentieri in un paesino, a patto di non sentirmi prigioniero.

La statua del granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, detto Canapone, che fu l’ultimo a governare questi posti prima dell’Unità d’Italia, mostra le spalle all’ingresso del teatro.

È ricordato, tra le altre cose, per la stazione Leopolda a Firenze, seconda linea ferroviaria dopo Napoli – Portici; collegava Firenze, Pisa e Livorno (praticamente la FI-PI-LI sui binari); il nonno di Leopoldo secondo (Pietro Leopoldo) aveva abolito, per primo in Europa, la pena di morte.

Sotto alla statua una iscrizione riporta la dichiarazione, approvata all’unanimità dall’Assemblea Toscana il 16 agosto 1859 con la quale si dichiarava decaduto il regno degli Asburgo – Lorena.
È buffo questo omaggio: la statua con annesso vituperio (l’iscrizione sottostante).
“L’ASSEMBLEA TOSCANA
Dichiara che la dinastia Austro Lorenese, la quale nel 27 aprile 1859 abbandonava la Toscana, senza ivi lasciar forma di governo e riparava nel campo nemico, si è resa assolutamente incompatibile con l’ordine e la felicità della Toscana. … …”
Con questa dichiarazione l’Assemblea Toscana poneva fine al Granducato austriaco, durato 122 anni, senza abbattere statue. A me sembra un segno di civiltà.

Guardando la statua di Leopoldo a Pietrasanta o l’altra, nella piazza Bonaparte a San Miniato, mi salgono alle labbra i versi di Giuseppe Giusti.

«Al Re Travicello / piovuto ai ranocchi, / mi levo il cappello / e piego i ginocchi: / lo predico anch’io / cascato da Dio. / Oh comodo, oh bello / un Re Travicello! / Calò nel suo regno / con molto fracasso; / le teste di legno / fan sempre del chiasso: / ma subito tacque, / e, al sommo dell’acque, / rimase un corbello: / il Re Travicello / … … …»

Sembra la descrizione dei “leader carismatici” di oggi, che hanno la faccia tosta di mettere il proprio nome sul simbolo (si ritengono insostituibili) e vanno avanti a forza di tweet, di like, di falsi profili, di strutture organizzate per la propaganda, di proposte elettorali che non si confrontano mai con la realtà.
Fanno danno quando sono all’opposizione e quando governano, perché sono ignoranti, come il corbello di cui parla Giusti, come corbelli di fichi, ma neanche, come corbelli vuoti, come i corbelli che ci rompono quotidianamente, con le loro ottuse espressioni soddisfatte che occhieggiano dagli schermi televisivi.

«… … … / Volete il serpente / che il sonno vi scuota? / Dormite contente / costì nella mota, / o bestie impotenti: / per chi non ha denti / è fatto a pennello / un Re Travicello! / … … …»

Notare “costì”, presente attualmente nel parlato solo in Toscana, insieme al suo parente prossimo: codesto; alcune parole hanno il suono di una carezza.

A Napoli c’è chi rimpiange i Borbone, a Trento chi rimpiange Francesco Giuseppe, qui alcuni rimpiangono il re travicello; in un certo senso, in fondo, danno ragione a Giusti, perché si comportano esattamente come il poeta aveva previsto: fanno a meno del buon senso.

«… … … / Un popolo pieno / di tante fortune / può farne da meno / del senso comune. / Che popolo ammodo! / Che Principe sodo! / Che santo modello / un Re Travicello!»

Succederà anche ai politici di oggi di essere rimpianti in futuro? Tutto può succedere!

Nel Cinema Teatro Comunale di Pietrasanta ho visto l’ultimo film di Gabriele Salvatores.
Sarei più contento se Tutto il mio folle amore mi fosse piaciuto, perché avevo trascorso una bella giornata al mare: la spiaggia senza ombrelloni è proprio bella, anche se il mio amico Fabrizio, del lido Pervinca, di passaggio per mettere a posto le cose, ha detto che questo caldo a fine ottobre è cosa nuova; non dev’essere un buon segno.

Passeggiando sul bagnasciuga, con i piedi in acqua massaggiati dalle onde, poco dopo ho percepito lo stesso discorso, un pezzo di conversazione tra due signore che passeggiavano anch’esse con i piedi in ammollo; dall’aspetto sembravano professoresse nel giorno libero.
Mi sono fermato per sentire meglio.
«La costa sarà sommersa fino a quell’altezza»; mi ha colpito la precisione, il tono deciso, sicuro, che ha confermato l’ipotesi: professoressa.
Mi sono girato per cogliere il gesto della mano, ma l’aveva abbassata; avrei voluto chiedere: quando?
Meglio non sapere.

C’è come l’attesa della catastrofe: il riscaldamento del pianeta, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento delle acque, il diluvio universale; Greta in lacrime.
Nelle lacrime (o quasi) di questa ragazzina, nello sguardo disperato, mentre pronuncia le sue accuse, nel suo tono apocalittico, mi sembra di vedere un riflesso dell’ambiente luterano da cui proviene; non ho indagato questo aspetto, la sua famiglia potrebbe non essere protestante, tuttavia il clima culturale che si respira in Svezia dev’essere quello (Ingmar Bergman, anche se di altra epoca, docet).
Greta si acciglia per i peccati dell’umanità; mi sembra di vederla con il dito accusatore, un po’ tremolante di sdegno contenuto, puntato anche contro se stessa, nonostante, per la giovane età, non abbia alcuna responsabilità.
Ho letto che sarebbe affetta da sindrome di Asperger, una forma lieve di autismo.
Se è vero – bisogna sempre far precedere le notizie che circolano sul web da quintali di formule dubitative – questo è un segno di speranza per gli ammalati e la dimostrazione di come un sistema sanitario efficiente, erede di un’antica tradizione socialdemocratica, riesca a garantire a tutti, indipendentemente dalla presenza di disturbi psicofisici, l’affermazione delle proprie potenzialità.

La gente parla con convinzione delle catastrofi, poi passa ad altro, si aspetta per domani la fine del mondo e oggi si occupa di cambiare le tende.

A me questi discorsi fanno l’effetto di rovinare (solo per poco, poi subentra il fatalismo) il piacere di una bella giornata di sole a fine ottobre sulla spiaggia: sembra estate, ma è più bello senza ombrelloni, sedie a sdraio, lettini, venditori asfissianti di cose inutili; la sabbia è pulita, il mare limpido, l’acqua un po’ fredda, ma non tanto.
Possibile che questo piacere debba essere pagato, domani, da tutta l’umanità?

Sarà mica colpa mia, perché ho deciso di concedermi questa vacanza fuori stagione (vacanza obbligata) e ho sperato di trovare il bel tempo, di non essere costretto ad andare sul pontile di Marina di Pietrasanta sotto l’ombrello e intabarrato per proteggermi dal vento?
La mia speranza di una bella giornata di sole ha influito sul destino del mondo?

Ci sono momenti in cui tutti, influenzati dalle trasmissioni televisive, ci sentiamo importanti, e, quindi, responsabili in prima persona dei mali del mondo. Meno male che ieri sera ho provveduto a smaltire i rifiuti organici con le apposite buste compostabili e li ho depositati nell’angolo, davanti al cancello!
Basterà per salvare l’umanità?

Dicono che anche un piccolo gesto sia utile per salvare il pianeta, ma io penso che la somma di tanti piccoli gesti sia solo un gesto un po’ più grande, ma sempre piccolo, infinitesimale in confronto alle dimensioni del fenomeno.
Servirà a non sentirsi in colpa, ma non a risolvere il problema.

Se metto da parte un centesimo al giorno, alla fine del mese avrò accumulato 30 centesimi, alla fine dell’anno 3 euro e 65 centesimi, dopo dieci anni un po’ più di 30 euro. Non sarò diventato ricco.
Moltiplico per 10, per 100: è lo stesso. Non si è ricchi avendo in banca 300 euro o 3.000 euro dopo dieci anni di risparmi.
Se posso mettere da parte cifre maggiori, vuol dire che ero ricco in partenza.
Dalla povertà non viene fuori la ricchezza semplicemente risparmiando.
Se risparmiamo, tutti i componenti della famiglia, piccole cifre, e intanto continuiamo a spendere senza controllo le grosse cifre, il salvadanaio non ci salverà dalla miseria.

Con una legge fatta bene e se si riuscisse a convincere quel tale in America (o gli americani a non votarlo), si otterrebbe molto di più che con questi piccoli gesti.
Ma poi si dovrebbero convincere i cinesi. La vedo dura.
È più facile puntare sulle mie bucce di mela e su quelle del vicino di casa, come se tutto dipendesse da noi.

Intanto, passeggiando lungo i lidi, costeggiando i ristoranti, d’estate, di sera, si vedono contenitori enormi pieni di “rifiuti indifferenziati”. Che fine fanno? I natanti ancorati nei porti, quando navigano solitari in mezzo al mare, dove buttano i rifiuti? Li conservano? Speriamo. Qualcuno effettua un controllo serrato? Non so, domando.
Non sarebbe più sensato agire a monte (la produzione) anziché a valle (la raccolta)?
Ci invitano a separare e capire dove e in quali giorni liberarci di oggetti inquinanti che basterebbe una legge per eliminare del tutto; ma si ha, è evidente, paura di quei travicelli abituati a rivolgersi alla pancia del popolo, a proclamare che la gente ha sempre ragione, anche quando vuole la botte piena e la moglie ubriaca.

Se quegli oggetti inquinano (per esempio la maggior parte degli imballaggi nei quali sono venduti i congegni elettronici) si spenderebbe meno a eliminarli dal mercato che a recuperarli porta a porta dopo che hanno svolto la loro inutile funzione, a riciclarli trasformandoli in altri oggetti inquinanti o a mandarli a inquinare poveri paesi africani; si spenderebbe meno a riconvertire chi lavora alla loro produzione, in modo che il lavoro serva a produrre oggetti utili, non inutili e dannosi.
Ci vorrebbe una classe politica seria, competente, che prendesse esempio da Churchill: «Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore» («blood, toil, tears and sweet»). Ci vorrebbe un politico capace di dire: io ho fatto la mia parte, se votate per gli altri, peggio per voi.
Al 99 per cento voterebbero per gli altri. Ma ci sarebbe l’uno per cento di probabilità di salvarsi, una probabilità molto più alta dell’attuale di riuscire a convincere la maggior parte degli elettori a votare con la testa, non con la pancia.

Solito schema: la televisione lancia allarmi, i governanti (tranne uno) si dicono preoccupati, ma sono timorosi di perdere consensi con interventi troppo drastici, i soliti politici da avanspettacolo cominciano lo show, puntando diritti alla pancia della gente (la parte del corpo al cui contenuto sono più affini); pubblicità.

Sarei più contento se Tutto il mio folle amore mi fosse piaciuto, perché Salvatores mi è simpatico, col suo sguardo sereno, il modo pacato di parlare, l’atteggiamento da monaco buddista napoletano.
Lo zen e l’arte di infornare la pizza.

Mi piacciono alcuni film di Salvatores, in particolare Mediterraneo (premio Oscar) e gli attori che predilige, fra i quali soprattutto Diego Abatantuono.
Pensavo che lo avrebbe fatto uscire dal personaggio che ha interpretato a ripetizione negli ultimi tempi; forse i registi sono influenzati dall’aspetto di grosso cagnone San Bernardo che Diego ha assunto invecchiando e gli fanno fare sempre lo stesso personaggio: settentrionale (niente “viulenza”), un po’ razzista (verso i terroni, verso gli omosessuali), brontolone, in fondo buono, alla fine cedevole su tutta la linea; cede alla moglie, ai figli, a chi gli sta intorno.
Ripensando al ruolo che interpreta in questo film, alcune, non tutte, le caratteristiche elencate sono rappresentate; soprattutto la mancanza di iniziativa: la moglie decide sempre lei che cosa fare, cammina un metro più avanti; lui si accoda e raccoglie i cocci.

Mi volevo far piacere Tutto il mio folle amore anche perché mi piace il titolo. Per questo lo ripeto in continuazione.
È un verso di una canzone scritta da Pierpaolo Pasolini e cantata da Domenico Modugno in un episodio (Che cosa sono le nuvole?) del film Capriccio all’italiana, diretto da diversi registi (sei episodi, sei registi), fra i quali, appunto, Pasolini.

«… Che io possa esser dannato / se non ti amo, / e se così non fosse / non capirei più niente. / Tutto il mio folle amore / lo soffia il cielo, lo soffia il cielo / così …»

C’entra con il film? È la prima domanda che sorge spontanea (Lubrano) uscendo dalla sala, un po’ deluso.

Il cantante bello, che imita benissimo Modugno, canta e conquista donne nei paesi della ex Jugoslavia, si ubriaca, forse perché comincia a sentire la solitudine e l’aridità del suo modo di vivere, ricorda di avere un figlio, che non ha mai visto, entra nella casa di Elena, la donna che non vedeva da sedici anni, addirittura arriva accanto al suo letto mentre sta dormendo; la sveglia.
Elena, per un attimo, vedendolo, sorride; poi, ovviamente, lo aggredisce.

Si erano conosciuti sulle navi da crociera, lei cameriera, lui cantante; alla notizia: sono incinta, il cantante si è squagliato.
Elena ha dato alla luce e ha cresciuto un bimbo, Vincent, si è sposata con Mario, interpretato da Diego Abatantuono. Mario ha adottato il bambino che, intorno ai due anni, ha cominciato a manifestare i segni dell’autismo.

Il cantante come ha fatto a trovarla? Forse lei non ha cambiato casa; eppure nel frattempo si è sposata con uno che svolge un’attività editoriale importante; non credo che potesse permettersi quella casa quando faceva la cameriera sulle navi da crociera.
Possibile che chiunque, qualunque estraneo, entri come a casa sua e raggiunga la stanza dove Elena dorme?

Dalla descrizione che lei ne fa, sembra non sia stato un lungo rapporto; dà l’idea di una cosa veloce, finita in un porto della Grecia; in sedici anni lui non si è fatto vivo.

Di chi è «tutto il mio folle amore»?
Del padre verso il figlio che ha abbandonato prima ancora che nascesse, o del figlio verso il padre, che non ha mai conosciuto?
Alla fine sembra che tutto il folle amore del padre adottivo, il personaggio interpretato da Diego, la sua disponibilità, valga meno dell’amore manifestato dopo sedici anni dal padre naturale, il cantante imitatore di Modugno.

Comodo per il cantante, che si fa chiamare Willy e mette più volte il figlio in serio pericolo nel corso del loro viaggio tra Serbia e Croazia.
Un incosciente; alla fine addirittura lascia che il ragazzo autistico beva qualcosa di forte su un materassino galleggiante in una piscina, mentre lui è ubriaco; lo mette a rischio, non solo a rischio, quasi lo fa morire affogato nella piscina.
La polizia croata, che ha avuto la denuncia di scomparsa, è così inefficiente?

Volevo farmi piacere questo film, anche perché nella mia vita precedente ho avuto esperienze di contatto con ragazzi autistici.
Colpisce la particolarità dei sintomi: sembra quasi una normalità esagerata, portata all’estremo.
Osservare i “riti” di cui si circondano questi ragazzi, le “liturgie” che mettono in atto e che continuamente ripetono, fa pensare a se stessi, perché in esse riconosciamo le nostre liturgie, i nostri riti, con un’unica differenza: la durata.
Noi allineiamo gli oggetti per due, dieci, trenta volte, loro lo fanno per tutta la giornata e oltre.

Noi, ogni tanto, abbiamo paura degli altri; loro hanno paura anche solo ad essere sfiorati con un dito.

I ragazzi autistici sono spesso fisicamente fortissimi, sono spesso ben sviluppati e belli (questa è la mia esperienza, non sono un esperto).

Il giovane attore, Giulio Pranno, che interpreta la parte di Vincent, è molto bravo a rendere l’aria sperduta di questi ragazzi, l’atteggiamento quasi da folletto, le reazioni al contatto, le corse, i salti di gioia e di paura, gli abbracci improvvisi, le fughe.
Fin dall’inizio, con quella corsa gioiosa o disperata dietro i cavalli, fino all’esaurimento che consente di bloccarlo e ci fa entrare nel tema del film.

Non l’amore, come dice il titolo, è il tema del film, ma la solitudine autistica, del ragazzo e degli adulti: il padre naturale, “Modugno della Dalmazia”, la madre, abbandonata nel peggiore dei modi (ti svegli e non trovi più la persona di cui ti fidavi), il padre adottivo che, forse, non ha voluto figli da Elena per il timore che potesse nascere un altro bambino problematico (nessuna causa genetica di questo disturbo, che io sappia, è stata individuata).

Il rapporto tra Elena e Mario non è mai chiarito; per accenni si capisce che c’è una difficoltà di comunicazione, una solitudine autistica all’interno della coppia; si intuisce che per lei, molto più giovane, quel nuovo legame è stato un ripiego. Qualche volta sembra che non sopporti più quel bravo cagnone San Bernardo, disponibile sempre a raccogliere i cocci.
Molte cose sono lasciate nel vago in questo film, alcuni personaggi accennati e non chiariti; per esempio quel tipo lungo, ossuto, nervoso, anzi proprio incazzoso, che incontrano nel viaggio (se tuo figlio ha problemi, mettigli il guinzaglio, aveva detto al cantante).
Sembra sia in dubbio fra suicidarsi o ammazzare qualcuno; intanto dorme con una pistola carica accanto in una stanza piena di candele accese (forse per abituarsi al cimitero), una stanza da cui chiunque sarebbe andato via al più presto, di corsa.
Invece Elena decide: restiamo. Beve una birra da una lattina, insieme all’aspirante suicida, e gli racconta la sua storia. Mario si accoda; rimangono lì tutta la notte, nella speranza che riveli il nome del posto dove Willy ha portato Vincent.

È mai possibile che un ragazzo autistico di sedici anni, che all’inizio si dimostra non in grado di controllare gli sfinteri anali, o non intenzionato a farlo, sia accompagnato dal padre naturale da una prostituta per il suo primo rapporto sessuale in cambio di un orologio?
Siamo in pieno reato di circonvenzione di incapace, ma, soprattutto, di assurdità cinematografica: reato gravissimo, perché ci distrae e ci impedisce l’immedesimazione in un padre che si “consola” pensando che il figlio autistico, che ha appena conosciuto, sta avendo il suo primo rapporto sessuale (sul retro di un furgoncino).

Domanda: un ragazzo di sedici anni – che fa i suoi bisogni nella cabina della doccia e li spande sul vetro della stessa, perché ha, evidentemente, un rapporto problematico, infantile con l’eliminazione delle scorie intestinali – può avere un rapporto sessuale (anche se con una donna non molto selettiva nelle sue scelte)?

Non dico che un ragazzo autistico non possa avere un rapporto sessuale, dico che quel ragazzo non riesce a lavarsi i capelli da solo, a depositare le feci nell’attrezzo destinato a riceverle; come fa a vivere un’esperienza che implica l’aprirsi intimamente a un’altra persona e un controllo adeguato degli sfinteri?

Prima c’era stata una cavallerizza circense che, attratta sessualmente dal ragazzo, bello ma evidentemente complicato, non si era accorta delle sue difficoltà (incredibile!), l’aveva portato nella roulotte, gli aveva offerto una birra, aveva avviato un approccio sessuale, era riuscita solo ad impaurirlo, a metterlo in crisi in modo molto pericoloso (in questo film in due occasioni si scherza con un coltello, una volta il padre, una volta la circense).
Salvatores! Ma che ci racconti!?

Il film è tratto da un libro di Fulvio Ervas: Se ti abbraccio non aver paura.
Come è scritto nei titoli di testa, è molto liberamente tratto dal libro (molto l’ho aggiunto io, non sono riuscito a leggere tutto il contenuto della nota, che è rimasta poco sullo schermo); l’idea di partenza del film, il viaggio di padre e figlio autistico, viene dal libro.
Il viaggio, nel libro, è vero; il padre non è un cantante incosciente con un nome da fesso, non ha abbandonato la madre quando il figlio è nato.
Non viaggiano fra i tipi strani e la polizia inefficiente della ex Jugoslavia ma negli Stati Uniti, dove ci sono tipi anche più strani, ma, se un ragazzo viene sottratto al tutore, si mette in moto una macchina delle ricerche che non si ferma finché non viene trovato, e se un incosciente fa ubriacare il figlio autistico, parte una denuncia, interviene un giudice federale, soprattutto se il ragazzo è stato lì lì per rimanere accucciato sul fondo di una piscina. Il padre viene messo in condizioni di non fare danni.

Sì, avrei voluto farmi piacere Tutto il mio folle amore, ma è stato impossibile.
Mi è piaciuta la conclusione: Elena se ne va con il figlio che ha salvato, se ne va da sola con Vincent, abbandona i due uomini: il padre naturale di suo figlio, infantile ed egoista, il padre adottivo, buono, disponibile, ma terribilmente noioso, che – a me sembra evidente – era stato solo un ripiego, una soluzione alla situazione di abbandono in cui si era trovata.

Mai confondere l’amore con la riconoscenza verso un uomo generoso e non farsi fregare la seconda volta da un cantante troppo generoso con se stesso.
Questa è la conclusione, come l’ho capita io; è una conclusione aperta a diverse possibili interpretazioni.
Per questo mi è piaciuta.