20 luglio 2019 h 14.50
Rai 3

La malattia
(“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
// L’invenzione della neve (malattia mentale) // The father (Alzheimer) // Zona arancione (pandemia) // Zona rossa (pandemia) // Ci risiamo! (pandemia) // Se c’è un aldilà sono fottuto (tossicodipendenza) // Dopo la liberazione provvisoria (pandemia) // L’illogica allegria (pandemia) // La mascherina (pandemia) // Tutto il mio folle amore (autismo) // La linea verticale (cancro) // Arrivederci professore // Dolor y gloria // Domani è un altro giorno // Don’t worry // Quanto basta (autismo) // The party //

Sono ignorante, purtroppo. Mi occupo di cinema ma seguo poco i nuovi scrittori, mi lascio sfuggire le novità delle serie televisive. Non conoscevo Mattia Torre.
Quando ho letto della sua morte, per un tumore, a 47 anni, ho scoperto che era lo sceneggiatore di Boris, serie televisiva e film.
Avevo visto il film, che mi era molto piaciuto, ma, stranamente, avevo visto anche diverse puntate della serie televisiva.
Dico stranamente perché non guardo le serie televisive, pur sapendo di perdere delle belle cose: per vedere The Young Pope ho dovuto comprare il cofanetto; lo ammetto: sono troppo pigro per cercare soluzioni alternative.

Non seguo le serie, come ho già scritto in un commento, innanzitutto perché non riesco a mantenere un appuntamento con la televisione: proprio non ci riesco.
Mi capita di vedere una puntata, mi piace, decido di vedere il seguito, ma regolarmente, la volta dopo, mi dimentico o esco, faccio un’altra cosa.
Mi dà fastidio essere obbligato a trovarmi davanti allo schermo della televisione in un certo giorno a una certa ora; in realtà, non solo mi dà fastidio, ma proprio non riesco a rispettare un impegno con il tempo.

Gli appuntamenti fissi, gli orari, sono stati un tormento della mia vita, da cui mi sono liberato da poco (a volte si ripresentano sotto forma di incubi).

Lo so: ci sono abbonamenti che consentono di farsi il proprio palinsesto personale, ma c’è un motivo che mi spinge a non cercare queste soluzioni (oltre alla pigrizia).

Non mi piace stare davanti alla televisione per troppo tempo.

Voglio andare al cinema – non solo per lo schermo grande, fondamentale per una forma d’arte che si basa sui dettagli (un quadro piccolo potrebbe avere senso, entro certi limiti; un film sullo smartphone, o sull’iPad, è un’assurdità), ma anche per la liturgia legata all’andare al cinema.

Si va a piedi, senza farsi infessire dalla ricerca del parcheggio, dalla tensione della guida (chi dice che si rilassa guidando non sa che cosa sia il rilassamento o rischia di trovarsi in un grosso guaio).

Nel mio caso, oltre ai piedi, è necessario un mezzo di locomozione. Non c’è gara: vince il treno a man bassa.

Viaggiare in treno è di per sé un’esperienza piacevole: richiama i primi viaggi, le prime volte in cui ci siamo lanciati alla scoperta del mondo, con una grande curiosità, la libertà della gioventù, che ha bisogno di poco, da incoscienti felici.

Per la mia generazione il treno era questo. Forse i giovani di oggi provano le stesse emozioni quando si avventurano in un viaggio aereo low cost, con pochi soldi e tanta voglia di vivere.

La prima volta che arrivai alla Victoria Station, dopo un viaggio in seconda classe durato tutta la notte fino a Calais (la Manica si attraversava su un traghetto) – disteso su una delle due serie di poltrone che si fronteggiavano in ogni scompartimento, solo nello scompartimento, ogni tanto spostavo la tendina per guardare fuori del finestrino: la campagna, i capistazione francesi che davano il via soffiando nel fischietto, i rari viaggiatori: ero felice – misi da parte i soldi del biglietto per il ritorno e mi dissi: se non trovo nulla, quando mi rimane solo questa cifra faccio il biglietto e torno a casa.

Anche l’attesa in stazione può essere utile: si legge, si osserva la varia umanità che si muove intorno, si scrive sullo smartphone (che sostituisce egregiamente la penna e il blocco di carta ed è molto più comodo); se perdi il treno, niente male: prendi il successivo e leggi o scrivi un po’ di più. Non stai andando a comandare l’avvio del conto alla rovescia per il lancio di un veicolo spaziale (in questi giorni si parla continuamente di Apollo 11: queste frasi vengono fuori da sole).

Differentemente da ciò che mi accade quando guardo un film sul televisore di casa, al cinema mi concentro interamente sullo schermo: niente telefonate, internet, ultime notizie, squilli del citofono. Se non mi piace, fa parte dello spettacolo prendermela mentalmente con il regista o con gli attori.

Al cinema mi piace addirittura la pubblicità, mi piacciono i “Prossimamente”.

Mi sembra un bel modo di trascorrere il pomeriggio e la sera, una, due volte alla settimana, ora che continuamente si rischia di ingrassare e non si possono fare più le belle cene, le tavolate di una volta (meglio saltare la cena, lo dicono tutti i dietologi).

Nonostante quanto ho appena scritto, un po’ prima del peana sui viaggi in treno, ho visto molte puntate di Boris. Mi piaceva l’umorismo della sceneggiatura.
Ho scoperto ieri che lo sceneggiatore e coregista è Mattia Torre, autore anche di geniali monologhi.

Naturalmente non avevo visto la serie televisiva intitolata La linea verticale, serie televisiva tratta dal libro omonimo di Mattia Torre, in cui racconta la sua esperienza.

Il giorno 20 luglio, dopo il telegiornale del pomeriggio, che ho seguito mentre pranzavo (lo so, non è una buona abitudine, ma se non lo vedo mentre pranzo non lo vedo più), su Rai 3 è partita la prima puntata della serie.

Mi ha subito attratto, anche per la commovente scritta, in alto a destra sullo schermo “In ricordo di Mattia Torre”.

Ma non solo per questo.

Si vede subito che l’autore è un grande scrittore, osservatore, umorista e, in più, questa serie è tutta sua.

La bella sorpresa è stata scoprire che dopo la prima puntata seguiva la seconda, poi la terza e così via, fino alla fine, senza interruzioni pubblicitarie.
Ho cambiato la programmazione del pomeriggio, mi sono disteso sulla poltrona e ho visto tutte le puntate.

Era impossibile staccarsi, perché ad ogni puntata c’era una nuova invenzione geniale (per dirne una: l’oncologo seguito dalla morte con la falce).

È un ritratto assolutamente realistico, anche se apparentemente paradossale, ma realistico in tutti i dettagli (compresa la morte con la falce) della discesa agli inferi di un uomo che si ammala di cancro e della sua cattura in ospedale.

Assolutamente realistico il rapporto con la medicina e con le varie tipologie di medici.

Sono grato ai responsabili del palinsesto di Rai 3 per avere dato la possibilità di vedere interamente questa serie a un tipo distratto come me e per avere ricordato un autore nell’unico modo possibile: mostrando la sua opera, che gli sopravviverà, ha già cominciato a farlo, il giorno dopo la sua morte.

Penso che i produttori della serie, la stessa Rai, credo, abbiano dimostrato molto coraggio, perché la gente non vuole sentire parlare di questi argomenti, soprattutto nei termini realistici che, dietro l’apparenza del paradosso, sono utilizzati per rappresentare le diverse situazioni che caratterizzano la vita, o la parvenza di vita, in un ospedale.

La scienza ha fatto progressi enormi, però questi progressi non si traducono per tutti nella pratica medica; in questo campo vige un rigido sistema di segregazione sociale, con pochi, pochissimi, fortunati e molti, moltissimi, abbandonati nell’angoscia, col dubbio di non sapere se il sistema sta facendo tutto il possibile per salvarli o si sta solo parando il culo.

Purtroppo è un sistema che l’homo sapiens, vivente nella società moderna occidentale (ma in altre società va anche peggio) ha organizzato in quel modo per affrontare la malattia: quando è grave, quando è gravissima.

Solo quando è leggera non sei catturato, ma sei preso dall’angoscia che possa rivelarsi, o trasformarsi in grave o gravissima.
Perché in questo caso rimani impigliato in una rete da cui non sai quando, come, e, soprattutto, se riuscirai a liberarti.

Nella serie si tratta, apparentemente, di un buon ospedale, pulito, in un edificio moderno.
La situazione peggiora, diventa una vera e propria sosta all’inferno, in un ospedale fatiscente e sporco, inserito in un ambiente degradato.

È un sistema che abbiamo costruito in questo modo e non lo cambiamo perché chi ne avrebbe il potere non ha l’interesse (quando sono ricoverati sono seguiti da un nugolo di telecronisti, operati da luminari della scienza medica che interrompono tutto per mettersi a disposizione).
Tutti gli altri, il 99,99 per cento della popolazione, ci limitiamo a sperare di non essere catturati e intanto seguiamo le trasmissioni in cui si mitizzano i grandi risultati della medicina e gli artefici di questi risultati, si parla dei medici come di eroi del nostro tempo, disponibili e sempre presenti per aiutare i malati e per sollevarli dalle sofferenze.

Si tratta di un’immagine molto lontana dalla realtà che ciascuno di noi scopre quando ha, personalmente o in famiglia, un problema serio di salute.

Alla fine quasi tutti ringraziano il chirurgo che li ha operati; il problema è che non sappiamo se ha fatto la cosa giusta, non sappiamo che cosa è successo in camera operatoria, se lui, non solo il malato, lui, quello col bisturi, era nelle condizioni migliori per operare, se ci ha tolto il necessario o qualcosa di più, se ha impiegato la stessa attenzione di quando ha operato il grand’uomo seguito da un nugolo di telecronisti in ansia.

Dobbiamo fidarci.

Questo è il problema (io non mi fido di nessuno).

In definitiva, con tutti i progressi scientifici e tecnologici attuali (domani si commemora lo sbarco sulla luna), il singolo individuo ammalato si trova nella stessa situazione dell’uomo primitivo o di chi viveva nelle società arcaiche: siamo terrorizzati e speriamo che Dio sia clemente, che lo stregone ci protegga.

Ma abbiamo buone ragioni per ritenere che Dio e lo stregone, molto probabilmente, siano indifferenti alla nostra sorte, o, comunque, non siamo in grado di saperlo; non sappiamo se il sacrificio di un caprone, che lo stregone ci ha suggerito, potrà bastare a placare Dio o lo farà incazzare di più.

Se gli sembra che l’offerta votiva, per il momento, abbia funzionato e riesce a uscire dalla rete, il paziente (quanta pazienza ci vuole!) ringrazia.

Anche Luigi, il personaggio della serie, ringrazia alla fine e si dice grato al sistema che lo ha liberato da un nemico senza spendere un euro.

È così contento di essere sfuggito alla rete da dimenticare che quel sistema è pagato da tutti con le tasse.

Forse non c’è altra possibilità, forse davvero la medicina non può essere altro da quello che è: un sistema che sfrutta il terrore dell’uomo che un attimo prima si sentiva padrone del mondo e un attimo dopo diventa un bambino indifeso, in balia di altri uomini che possono sbatterlo avanti e indietro, se hanno una giornata storta.

La figura del medico inavvicinabile, nascosto dietro i suoi paroloni, che se ne fotte della situazione del paziente, è molto più diffusa di quanto si dica nelle trasmissioni consolatorie sulla medicina.

Mi ricordo un’esperienza che feci nel primo mese dopo la laurea in Biologia, quando ero in dubbio se buttarmi nella scuola o in un ospedale (sono fatto così: sempre in dubbio nelle mie scelte); seguii un corso intensivo, della durata di un mese, che mi portava a frequentare alcuni giovani medici che, per cominciare a lavorare, sostituivano di notte i titolari della guardia medica in un importante ospedale per la cura dei tumori.

Mi raccontavano dei manicaretti che si facevano arrivare da un ristorante e del modo, diciamo allegro, di trascorrere quelle ore di attesa.
Dicevano che il problema era ricomporsi quando improvvisamente erano chiamati in corsia, cambiare l’espressione del viso davanti a un dramma.

Forse sono stato sfortunato, ho incontrato gente particolarmente cinica e non motivata.

Può darsi, ma questa è la mia esperienza, per non parlare di altre, che, come tutti, potrei raccontare, altrettanto deprimenti, come familiare di pazienti (fortunatamente, finora, sono sfuggito alla cattura personale).

Devo dire che Valerio Mastandrea ha dimostrato in questa serie una straordinaria capacità di interpretazione; assolutamente straordinaria.

Ho parlato molto male dell’attore Valerio Mastandrea, commentando un film (Domani è un altro giorno, commento 2/03/2019) che non mi è piaciuto.
Questo film ha due sceneggiatori in comune con Boris, ma non Mattia Torre.

Dal momento che la parte più carente di Domani è un altro giorno è proprio la sceneggiatura (conseguentemente l’interpretazione dei due protagonisti principali), per un semplice calcolo matematico, ne deduco che la presenza di Mattia Torre nella sceneggiatura di Boris è stata fondamentale. Senza di lui, suppongo, la serie Boris sarebbe stata la solita minestra riscaldata.

Ne La linea verticale Valerio Mastandrea è grande. Ogni atteggiamento, ogni esitazione, ogni sguardo, ogni parola è quella giusta per quel personaggio in quella situazione.

Voglio ridirlo: è grande.

Riguardo all’argomento della serie, è da tempo che ho preso una decisione, in considerazione del fatto che non sono un giovane padre, come il personaggio interpretato da Mastandrea nel film, ma un vecchio che è vissuto abbastanza.

Se capitasse a me di avere la notizia che sconvolge la vita di quel personaggio e lo precipita in una situazione kafkiana, in una dipendenza totale dai camici bianchi – ripeto: sto parlando di me stesso, non di un giovane, o di un adulto, o di chiunque decida, giustamente, di lottare fino in fondo – non mi farei catturare.

Io non mi farei catturare: semplicemente considerei finito lo spettacolo, finita la pellicola. E scriverei: The End.

Seguono i versi di un poeta ingiustamente dimenticato, che potrebbe insegnare un po’ di ironia agli adolescenti che, a volte, si prendono troppo sul serio e ridono poco: Giuseppe Giusti.

« Per me tanto ho deciso
di non voler veder la morte in viso:
perciò, se piace a Dio,
quando arriverà lei me n’andrò io »

(Giuseppe Giusti – Poesie: Epigramma XVI)

Perché questa immagine a conclusione di un commento che, forse, trasmette un senso di angoscia?

Perché la vita è comunque piena di cose belle, piacevoli: una giornata di sole, un panorama riposante, l’opera dell’uomo, le collezioni mineralogiche, paleontologiche e zoologiche che si trovano, per esempio, nel Museo di Calci (Pisa), e hanno dato un contributo al progresso delle Scienze; fra di esse, la Medicina, che dovrebbe servire ad aiutarci nei momenti difficili.

Siamo stati noi, fino a questo momento, a organizzare le strutture sanitarie in un modo che, anziché aiutarci realmente, diventa causa di ulteriore angoscia.

È accaduto anche con la religione: doveva servire a rasserenarci, a darci un motivo per accettare volentieri le regole della convivenza (i dieci comandamenti, il discorso della montagna), è stata, ed è ancora, un mezzo di oppressione, causa di divisioni, di guerre, di sofferenze, di morte.
I dinosauri sono stati i vertebrati dominanti per circa 140 milioni di anni … … …