1 novembre 2023 h 17.30
Cinema Excelsior Empoli (FI) – via Cosimo Ridolfi, 75

Altro film del regista: // The Irishman //

Violenti per caso o per scelta (gli horror e i thriller sono nel tema “suspense“)
// Killers of the Flower Moon (la violenza subita dai nativi americani) // Animali selvatici [R.M.N.] (la paura di essere invasi genera violenza) // Il potere del cane (violenza domestica nel Far West) // Il male non esiste (boia per caso) // Joker // La terra dell’abbastanza (ragazzi spinti da adulti) // Dogman (anche una pecora, se l’aggredisci, prima o poi si ribella) // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //

Questo film ne contiene almeno due.
Martin Scorsese avrebbe potuto dividerlo in due parti, separate e autonome, da far uscire nelle sale in tempi diversi (come le tre parti di Il padrino).

Prima parte.
Centrata su William Hale («Chiamami King»), un personaggio epico nel male e una grande interpretazione di Robert De Niro. Nonostante la lunga (eccessiva) durata del film la famiglia di Hale è nell’ombra. In una prima parte il regista avrebbe approfondito i legami famigliari di questo lupo cattivo affamato di soldi e di potere, nascosto dietro la finta bonomia e il finto sostegno nei confronti dei nativi Osage. Avrebbe sviluppato il rapporto di Hale con la moglie, sposata sicuramente per denaro e illusa del suo affetto, con la figlia rimasta nubile (si può immaginare un amore contrastato dal padre), con gli altri bianchi e con la comunità Osage, di cui aveva superato la diffidenza e conquistato la fiducia. Fiducia mal riposta.

Seconda parte.
Centrata su due incapaci: Ernest e Mollie.
Ernest Burkhart, nipote stupido di Hale, si sposa con Mollie Kyle su istigazione dello zio; è innamorato della moglie, legato alla famiglia che bene o male ha costruito. È incapace di resistere al male, soprattutto per difetto di intelligenza. Ernest esce troppo tardi dal ruolo di assassino incosciente che gli è stato assegnato dallo zio.
Mollie Kyle non riesce a uscire dal ruolo di vittima predestinata, tranne in uno scatto finale. Appartiene alla tribù Osage, a cui gli invasori europei hanno sottratto l’armonia con la natura dando in cambio infelicità sotto forma di terre non fertili – raggiunte dopo vari spostamenti e fughe dai propri territori – infestate da giacimenti di petrolio e, di conseguenza, da ricchezza spropositata, amori finti inquinati dalla ricchezza, malattie inguaribili e violenza.

Paolo Sorrentino divise Loro in due parti autonome e complete; uscirono nei cinema a distanza di mesi. Qualche stacanovista della cinefilia volle vedere le due parti una di seguito all’altra, cominciando nel pomeriggio e finendo a notte inoltrata. La maggior parte di noi (amanti del cinema, ma soprattutto della pigrizia) preferì vedere i due film in tempi diversi, con comodo, e li collegò mentalmente.

Anche Il padrino e i suoi due sequel sono autonomi e completi. Io adoro Il padrino di Marlon Brando e quello di Robert De Niro; non sopporto il terzo, pieno di complotti. Al Pacino, che giganteggia nei primi due, perde lo sguardo magnetico nel terzo.

Marco Bellocchio ha trasformato un film in una serie (non la serie nel film) e nelle sale ha mandato prima Esterno notte 1, poi, dopo circa un mese, Esterno notte 2. È un film di lunga durata diviso in due parti (in televisione diviso in sei); sarebbe offensivo considerarlo una serie, perché, come dice Pupi Avati a Aldo Cazzullo (Corriere online, 29/10/2023): “Le serie difficilmente diventano cinema. Sono per lo più speculazioni commerciali di dilatazione del racconto”.
Non si poteva dire meglio: speculazioni commerciali di dilatazione del racconto.

Mi è piaciuta la prima serie di Paolo Sorrentino sul papa giovane (The Young Pope). L’ho vista in un paio di giorni utilizzando un DVD (a volte anch’io faccio lo stacanovista). Sarebbe stata un buon film, forse un capolavoro, ma dura troppo, è ripetitiva e dilatata.

Le serie non sono film: si vedono sul televisore, interrompendo la visione per andare in bagno, per prendere qualcosa dal frigorifero, per rispondere al telefono, per avviare la lavatrice, per discutere con il o con la convivente, per giocare con i bambini, per addormentarsi sulla poltrona e farsi spiegare, al risveglio, che cosa è successo, se tizio ha lasciato la moglie, se caio si è perduto nella nebbia, se sempronio è morto, se è resuscitato.
Il film è un’altra cosa. Si vede al cinema, sul grande schermo, richiede attenzione all’insieme e ai particolari. Anche quando è leggero e divertente porta a concentrarsi. Per questo non può durare troppo. Per leggere un libro impegnativo e lungo ci diamo delle pause. Con il film non funziona: si perde l’insieme. Andava bene il breve intervallo che si inseriva per cambiare la “pizza” delle pellicole tra il primo e il secondo tempo, non di più.

In un film ogni scena dev’essere non solo bella, dev’essere necessaria e deve durare il giusto, non un secondo di più.
Nella storia del cinema ci sono battute e scene divenute leggendarie, tante che sarebbe difficile elencarle tutte.
«Quando un uomo col fucile …»
«Ho visto cose che voi umani …»
«Maccarone, tu mi provochi …»
«La corazzata Potëmkin è …»
«Domani è un altro giorno».

Lo sceriffo Will Kane (Gary Cooper) contro Frank Miller in Mezzogiorno di fuoco.
Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella fontana di Trevi.
Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant: uno alla guida della Lancia Aurelia, l’altro seduto accanto (Il Sorpasso).

Quale battuta o quale scena resterà nella memoria degli spettatori dopo avere visto Killers of the Flower Moon?
Nessuna, nonostante il film sia stracolmo di scene bellissime.
Mi piacerebbe avere la possibilità di rivedere al cinema Kafka a Teheran, dei registi iraniani Ali Asgari e Alireza Khatami, nonostante sia stato realizzato con pochi mezzi (inquadratura fissa in un ambiente grigio).
Non è necessario dispiegare tutta la ricchezza di una produzione colossale per fare il capolavoro.

Eppure … eppure Martin Scorsese conferma di essere un grande per il modo in cui ci porta alla conclusione.
Deve raccontare come sono finiti il processo e l’indagine dell’FBI sulla serie di delitti che colpirono la comunità dei nativi Osage negli anni venti.
Capisce che se continuasse per un’altra mezz’ora con udienze, indagini e interrogatori ci costringerebbe ad alzarci e uscire dalla sala.
Allora che cosa fa per ridestare la nostra attenzione che ha contribuito ad addormentare cantando la ninna nanna negli ultimi tre quarti d’ora? S’inventa un dramma radiofonico, voluto dal capo dell’FBI Edgard Hoover, nel quale si racconta come finisce il processo e come finiscono i personaggi. Ci avesse pensato mezz’ora prima non staremmo a parlare di mancanza di sintesi.

È emozionante l’apparizione, tra gli interpreti del dramma radiofonico, dello stesso Martin Scorsese: lancia nel film il suo vecchio corpo ottantenne per raccontare come morì Hale, come morì Ernest, come morì Mollie. Perché questa è la vera conclusione di ogni vicenda storica, di ogni indagine, di ogni processo, di ogni furto, di ogni omicidio tentato o portato a termine, di ogni film, di tutti gli attori, dello stesso regista e degli spettatori.
The End.