13 gennaio 2018 h 18.15
Cinema Teatro Odeon Firenze – piazza degli Strozzi

Altro film del regista: // Gli spiriti dell’isola //
Temi
Violenti per caso o per scelta (gli horror e i thriller sono nel tema “suspense“)
// Killers of the Flower Moon (la violenza subita dai nativi americani) // Animali selvatici [R.M.N.] (la paura di essere invasi genera violenza) // Il potere del cane (violenza domestica nel Far West) // Il male non esiste (boia per caso) // Joker // La terra dell’abbastanza (ragazzi spinti da adulti) // Dogman (anche una pecora, se l’aggredisci, prima o poi si ribella) // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //

Famiglia (genitori e figli)
// La sala professori (la scuola è un’estensione della famiglia) // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw /e/ Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //

La vicenda raccontata in “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” mi ha fatto venire in mente la professoressa Maria Luisa Iavarone, madre di Arturo, il giovane aggredito a pugni, calci e coltellate da una banda di delinquenti suoi coetanei, il 18 dicembre scorso (2017), alle cinque del pomeriggio, a Napoli, in via Foria; non lontano, credo, dal Museo Archeologico Nazionale.

Arturo è figlio di tutti noi.
Anche i minorenni assalitori sono nostri figli; sono figli che hanno bisogno di aiuto. Hanno bisogno di padri e madri.
Se i genitori biologici non hanno saputo o potuto educarli, in qualche caso senza colpa, noi non dobbiamo sottrarci, rinunciare a essere severi, rassegnarci alla realtà di delinquenti e loro complici che se ne vanno in giro liberi di minacciare, aggredire, cercare ragazzi sui quali sfogare la propria infelicità.
La mamma di Arturo, a cui va tutta la solidarietà delle persone civili (gli incivili sono i complici diretti o indiretti dei delinquenti e chi vorrebbe far passare le aggressioni per cose di poco conto), è decisa a non mollare fino a quando la baby gang non sarà identificata e, dice, «nei grandi limiti previsti dalla legge sui minori, assicurata alla giustizia».
Non si può non sottoscrivere: nei grandi limiti previsti dalla legge, i delinquenti, anche se minori, devono essere messi in condizioni di non continuare a commettere reati.

Three billboards outside Ebbing, Missouri.
Mrs Hayes non accetta che gli assassini della figlia restino impuniti e ha fatto affiggere – sulla strada che porta alla città di Ebbing, in Missouri – tre manifesti: accusa la polizia, in particolare lo sceriffo, di non darsi da fare abbastanza per trovare gli autori del delitto.
Il suo gesto suscita reazioni diverse, anche violente, che s’intrecciano con altre storie.

Lo sceriffo sembra una brava persona; ha fatto il possibile per risolvere il caso, ma forse evitando di scavare in profondità e accettando la presenza di uno psicopatico razzista tra i poliziotti. Si giustifica: «Se caccio tutti i razzisti mi restano solo due poliziotti che ce l’hanno con i gay». Apparentemente è un atteggiamento realista. In realtà è l’ammissione di un fallimento.

Lo vediamo agitarsi, rimproverare Mrs Hayes per le accuse che ritiene ingiuste, poi ammazzarsi per non affrontare una grave malattia. Vediamo il suo rapporto tenero con la moglie e con le figlie piccole. Tenero? Povere bambine! Dev’essere difficile crescere a Ebbing, Missouri, con quel padre che ha il profilo di Marlon Brando e il tono di voce sempre perentorio: «pescate le bambole, non vi muovete, chiudete gli occhi, dormite», e vuole dirigere tutti, anche dopo morto (prima di suicidarsi lascia in una lettera disposizioni dettagliate).

Un’altra situazione che confligge con l’iniziativa di Mrs Hayes, la protagonista del film, è il rapporto difficile con il figlio e con l’ex marito, che si è messo con una ragazzina un po’ scema. Poi ci sono i sensi di colpa nei confronti della figlia assassinata, sensi di colpa che l’ex marito, naturalmente, cerca ogni occasione per rinfocolare.

Nessuno controlla il poliziotto violento, fino a che arriva il sostituto dello sceriffo, un negro (pardon! Il più razzista di tutti, quello che picchia i neri, ci insegna, nel film, che non si dice negro). Il nuovo sceriffo, uno che ha la pelle ricca di melanina, istruito e pacato, arriva come i nostri nei western americani (non c’è la tromba che suona la carica, ma a noi, che ci stavamo macerando, pare sentirla), finalmente toglie la pistola a quell’immondo cumulo di aggressività repressa (non sempre repressa) e lo licenzia.

Le storie s’intrecciano, senza una divisione netta tra i buoni e i cattivi, in un posto dove la violenza sembra essere all’ordine del giorno e alla portata di tutti e persino il poliziotto che ha agito indisturbato la sua follia per buona parte del film ha il suo momento di riscatto, quando, per trovare il DNA di un presunto stupratore, lo graffia per catturarne la pelle sotto le unghie, facendosi massacrare di botte.

La prova del DNA scagiona il sospetto, nonostante si fosse vantato di uno stupro commesso in circostanze simili a quelle in cui è stata assassinata la figlia di Mrs Hayes (un’atmosfera di follia aleggia a Ebbing, Missouri). Potrebbe avere stuprato e ucciso una donna in un altro posto, forse in Afghanistan, ci fa intendere lo sceriffo nero, o in uno dei teatri di guerra che hanno visto impegnati i militari americani negli ultimi anni. Potrebbe avere immaginato tutto. Non si sa. Per l’ex poliziotto e per Mrs Hayes è colpevole e dev’essere punito.
Uniti, alla fine, in una missione comune, caricano i fucili in macchina e partono insieme per la città dove il presunto colpevole abita. Non sappiamo come andrà a finire.
La storia è avvincente, si fa seguire anche nei momenti di pausa, come quando la protagonista parla dolcemente con una cerbiatta o aiuta un insetto, che si è capovolto, a rimettersi sulle zampe. Raddrizzare le cose, questo, in fondo, vorrebbe Mrs Hayes, ma non riesce, perché è impossibile; fa solo un guaio dopo l’altro e, alla fine, si avvia a farne uno ancora più terribile.

Si diceva della capacità del regista, Martin McDonagh, di interrompere l’azione, a volte travolgente, per fermarsi a osservare i dettagli, i piccoli gesti dei grandi attori protagonisti di questo film: quanto riesce a entrare nella parte, quanto è bravo a farsi odiare Sam Rockwell, che interpreta l’agente psicopatico Dixon!
Questo è il cinema: conoscere un personaggio partendo da un particolare, da un gesto, da un episodio marginale, da un tic (Mastroianni in Divorzio all’italiana), da un dettaglio.

Molto efficace, da applauso a scena aperta, il discorso con cui Mrs Hayes – mi verrebbe da dire: la cara Mrs Hayes (non si riesce a non volerle bene, anche quando fa dei gesti assolutamente folli) – per contrastare il perbenismo del prete, che cerca di convincerla, con “sagge” parole, a desistere dalla sua azione per non disturbare la buona coscienza dei parrocchiani, gli rinfaccia l’atteggiamento omertoso di quei preti che non denunciavano i loro colleghi pedofili perché appartenenti alla stessa banda (se protegge i delinquenti suoi associati, anche la chiesa cattolica è una banda).
Le “brave” persone, come questo prete, dispensano volentieri “sagge” parole e consigli che mascherano la loro ipocrisia.

Fatte le dovute differenze di luogo e di clima, e rigettando quest’idea di giustizia fai da te che trasforma le vittime in assassini, vorrei che molte mamme italiane, ma non solo le mamme, prendessero iniziative come quelle di Mrs Hayes e le sostenessero con la stessa caparbietà, per costringere chi ha il compito di mettere in condizioni di non nuocere teppistelli e delinquenti vari a svolgere il proprio lavoro con la necessaria determinazione.
In fondo è solo questo che la signora Hayes chiedeva.