10 giugno 2018 h 18.00
Cinema La Perla Empoli (FI) – via dei Neri, 5
Film dei registi: // La terra dell’abbastanza // Favolacce // America Latina // Dostoevskij //
Violenti per caso o per scelta (gli horror e i thriller sono nel tema “suspense“)
// Killers of the Flower Moon (la violenza subita dai nativi americani) // Animali selvatici [R.M.N.] (la paura di essere invasi genera violenza) // Il potere del cane (violenza domestica nel Far West) // Il male non esiste (boia per caso) // Joker // La terra dell’abbastanza (ragazzi spinti da adulti) // Dogman (anche una pecora, se l’aggredisci, prima o poi si ribella) // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //
I giovani
// Sick of Myself // Io Capitano // Animal House // Next Sohee // Close // Chiara // Penguin Highway // 1917 // Jojo Rabbit // Un giorno di pioggia a New York // La paranza dei bambini // Roma // Mirai // La terra dell’abbastanza // Lady Bird // Alla ricerca di Van Gogh //
Commento scritto il 10 giugno 2018, aggiornato il 13 luglio 2024.
Gira nelle sale cinematografiche, fino al 17 luglio, l’ultimo film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo: Dostoevskij – Atto I e Atto II. Due parti; durata complessiva cinque ore. In autunno sarà mandato su Sky spezzettato in una serie televisiva (è la moda attuale) e non sarà più possibile vederlo al cinema, suppongo. Sicché la sala cinematografica non è più luogo di destinazione dei film ma laboratorio dove si eseguono test di gradimento con la partecipazione obbligatoria degli ignari spettatori. I produttori faranno i soldi veri in autunno con la pubblicità televisiva.
L’ultimo film dei fratelli D’Innocenzo è un evento destinato a suscitare il cosiddetto dibattito (Nanni Moretti: «No! Il dibattito no!») e produrre giudizi contrastanti. Cercherò di vederlo al cinema, nonostante il periodo estivo, con la lontananza dal proprio centro, crei una difficoltà aggiuntiva. Nel frattempo mi sembra opportuno ripassare la cinematografia dei fratelli D’Innocenzo, corposa nonostante la loro giovane età. Hanno diretto film e scritto sceneggiature affidate a registi quasi sconosciuti.
Con calma, vediamo ogni cosa.
Primo film: La terra dell’abbastanza (2018).
È evidente l’influenza di Matteo Garrone: un’influenza positiva in quanto limita il pericolo di uscire dallo stile in cui si muovono bene.
La scelta visiva è una rappresentazione esagerata, piena di dettagli ma non deformata della realtà. Per dirlo con una formula: si tratta di iperrealismo, non di surrealismo.
La terra dell’abbastanza, come ci si poteva aspettare da due giovani al primo lungometraggio, è un film rigoroso e coerente. En passant diciamo che, come per tutte le coppie e, in particolare, per i fratelli registi, ancora di più se gemelli omozigoti, c’è il dubbio o la curiosità riguardo all’apporto di ciascuno.
«Abbiamo svoltato» è l’espressione chiave del film.
«Amo svortato» dice il padre di Manolo, il ragazzo che in macchina, qualche giorno prima, insieme a Mirko, il suo amico fin dall’infanzia, che guidava, ha messo sotto, senza volere, e ucciso un uomo che una banda di criminali, la più potente della zona, considera “un infame” e cercava per ammazzarlo.
I due ragazzi hanno fatto, per caso, un favore alla malavita e questo incidente d’auto con omissione di soccorso, che, sul momento, sembrava un guaio, invece è un colpo di fortuna che può dare una svolta alla loro vita.
Qui devo mettere il solito avviso per quelli che non sopportano di sapere prima che cosa succede: se non l’avete visto, sappiate che nelle righe seguenti parlo della trama in modo dettagliato; andate a vederlo prima su Raiplay (merita).
Un personaggio molto importante è il padre di Manolo, interpretato da Max Tortora, che meriterebbe il primo premio come attore non protagonista in qualunque Oscar o Leone di Venezia o Donatello o Cannes o altro festival del cinema; spero sia stato premiato: aderisce perfettamente a un personaggio apparentemente di contorno, in realtà centrale nel determinare lo svolgersi degli avvenimenti.
È una mezza cartuccia, di quelli che a tutti è toccato conoscere prima o poi nella vita. Vede solo il suo meschino interesse («La macchina la guidava lui, che te frega?» sussurra al figlio quando sembra che l’incidente sia un guaio, «Non fargli sapere nulla», quando invece sembra che sia una fortuna). Non ha scrupoli, non gli importa di mettere in pericolo il figlio, se solo vede la possibilità di dare una svolta alla sua grama esistenza (bar, videogiochi, due stanze a pianterreno con ingresso a saracinesca).
Max Tortora lo tratteggia con grande naturalezza, che si evidenzia, come sempre nel cinema, soprattutto nei dettagli: il gesto di provare a pettinarsi, verso la fine, prima di scoppiare a piangere; l’orgoglio con cui, nella sala giochi, mostra il tatuaggio sul braccio col nome del figlio. A quel punto ha normalizzato la vicenda e ha dimenticato la sua colpa per la brutta fine del figlio e dell’amico del figlio.
È privo di scrupoli e di rimorsi. Deve avere accumulato fallimenti; di lui neanche la malavita si fida: gli danno solo l’incarico di andare a prendere i due ragazzi in macchina, dopo che hanno ammazzato qualcuno.
Il film racconta l’immersione nel male di Mirko e Manolo: si immergono quasi senza rendersene conto; accumulano sensi di colpa, si immergono un altro poco, altri sensi di colpa, altra immersione, sempre più in fondo.
Manolo è cinico (ha l’esempio del padre, di cui si fida), Mirko è addolorato ma incapace di opporsi alla maggiore determinazione e freddezza dell’altro: dopo l’incidente è Manolo a dirgli di mettere in moto e andare via (Mirko era nel panico), ed è lui – che in un primo tempo aveva deciso di tenersi la “fortuna” tutta per sé – a coinvolgerlo quando gli serve una mano per un omicidio su commissione.
Mirko è dolce, affettuoso, ama la madre, la sorellina per parte di madre. Ama la sua ragazza e ha in mente come dare seriamente una svolta alla propria vita imparando a fare il cuoco: sono entrambi iscritti all’alberghiero, ma lui desidera ricavarne un lavoro, mentre l’altro si annoia. Mirko viene trascinato da Manolo, a sua volta spinto dal padre, su una china che lo porta sempre più in basso, sempre più nel fondo dell’inferno.
Sempre più in basso ma nell’abbondanza: soldi, regali, prodotti del supermercato con cui riempire il tavolo della cucina.
I due sono utilizzati nel racket della prostituzione, oltre ad ammazzare qualche concorrente secondario della banda. Assistono alle violenze a cui sono sottoposte le ragazze rapite chissà dove, in vendita come oggetti sessuali.
Mirko ha perso la dolcezza, non riesce più a fare l’amore con la ragazza, a cui vuole bene, senza darle la sensazione di violentarla, litiga con la madre che ha scoperto la sua attività.
«Abbiamo svoltato» si dicono i due quando ricevono dal capo della banda un incarico importante e pericoloso, da cui non usciranno vivi.
Lo psicologo della situazione è il delinquente addetto a istruire i killer, che spiega al capo, dubbioso sul loro utilizzo: i due sono inconsapevoli, possono fare qualunque cosa senza rendersi conto di quello che fanno.
A loro si applica in pieno la frase evangelica: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Manolo e Mirko non sanno quello che fanno, hanno scelto il male senza quasi rendersene conto.
Erano destinati a finire in quel modo fin da quando si riempivano la bocca di pizza con la cicoria, masticando a bocca aperta, sguaiati, eccessivi nel mangiare, nel ridere, nel bere coca-cola (erano abbastanza disgustosi).
Non avevano consapevolezza, non erano stati educati al senso del limite, potevano farsi trascinare da chiunque, dal loro desiderio di abbondanza, e trovarsi su una discesa a precipizio. È bastato un evento casuale, un qualsiasi padre di Manolo a dare una spinta.
I due registi privilegiano il primo piano, inquadrature iperrealiste su parti del volto: la bocca, gli occhi. Giocano sulle luci, sui riflessi, sui colori lividi che ricordano, soprattutto quando il campo visivo si allarga, Dogman, di Matteo Garrone.
Il tema è lo stesso: la disperazione nelle periferie dell’esistenza.