8 luglio 2023 h 17.00
Cinema Fiorella Firenze – via Gabriele D’Annunzio, 15
Temi
Violenti per caso o per scelta (gli horror e i thriller sono nel tema “suspense“)
// Killers of the Flower Moon (la violenza subita dai nativi americani) // Animali selvatici [R.M.N.] (la paura di essere invasi genera violenza) // Il potere del cane (violenza domestica nel Far West) // Il male non esiste (boia per caso) // Joker // La terra dell’abbastanza (ragazzi spinti da adulti) // Dogman (anche una pecora, se l’aggredisci, prima o poi si ribella) // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //
Politica, temi sociali, visioni del mondo
// Un altro ferragosto // Palazzina Laf // Io Capitano // Animali selvatici [R.M.N.] // Silent Land // Il Sol dell’Avvenire // Next Sohee // Triangle of sadness // L’homme de la cave [Un’ombra sulla verità] // Parigi, tutto in una notte // La moda di abbattere le statue (articolo) // Alice e il sindaco // Tel Aviv on fire // Vice L’uomo nell’ombra // Benvenuti a casa mia [À bras ouverts] // The Post //
Un villaggio sperduto tra le montagne della Transilvania, in Romania, circondato da foreste, abitato da una componente di origine rumena, una componente di origine ungherese, una componente di origine tedesca. Le parti componenti la popolazione non si sono amalgamate; il senso di appartenenza non si è trasferito a una comunità più ampia. Conservano la seconda lingua (ungherese, tedesco), che utilizzano in famiglia, all’interno del gruppo, e non costituisce un arricchimento ma un elemento di separazione dagli altri gruppi.
Alla fine hanno trovato un modo per convivere, però le differenze sono pronte a sfociare in risse.
Molti abitanti del villaggio possiedono un fucile sempre carico; lo utilizzano per andare a caccia, per difendersi dagli orsi o da qualunque pericolo, vero o immaginario.
In passato si sono coalizzati contro i rom, chiamati spregiativamente zingari, e li hanno cacciati dal villaggio e dai boschi dove si accampavano.
La parola “zingaro” è gravemente offensiva per gli abitanti del villaggio, rimasti, in maggioranza, fermi a una concezione atavica, fondamento dell’intolleranza e del razzismo: non si giudica il singolo individuo, si giudica l’etnia a cui appartiene.
Il villaggio è povero, privo di risorse; dopo la chiusura delle miniere l’unica attività rimasta è l’allevamento di capre e maiali e la macellazione, attuata con metodi che non tengono in alcun conto le sofferenze inferte agli animali sacrificati.
Molti uomini sono emigrati all’estero, soprattutto in Germania, dove lavorano nelle grandi aziende che si occupano della macellazione a livello industriale.
Nel villaggio c’è un forno-panetteria: rifornisce gli abitanti e i negozi di alimentari su largo raggio e dà lavoro a un discreto numero di persone; la proprietaria del forno vorrebbe ampliare l’azienda, ma ha difficoltà ad accedere ai fondi europei perché non riesce ad aumentare il numero dei dipendenti.
La direttrice del personale mette avvisi in parrocchia e su internet: nessuno si presenta. La paga è bassa e comporta l’obbligo di lavorare nei giorni festivi, molte ore di straordinario; gli uomini preferiscono prendere il sussidio di disoccupazione o emigrare in Germania.
L’unica possibilità per trovare persone disposte ad accettare le condizioni di lavoro è costituita dagli immigrati.
Arriva un gruppo di immigrati dallo Sri Lanka; sono estranei allo stereotipo che generalmente accentua la difficoltà di accettazione da parte delle comunità: non sono musulmani ma cristiani, come gli abitanti del villaggio; sono grandi lavoratori e disposti a integrarsi.
La maggior parte degli abitanti del villaggio accampa motivi assurdi per rifiutarli.
Qualcuno dice: impastano la farina con le mani, toccano il pane che mangiamo ma non hanno le nostre abitudini igieniche.
Questo argomento è ripetuto da persone che vivono in un villaggio privo di fogne in cui l’acqua potabile scarseggia (le miniere, prima di essere chiuse, hanno immesso sostanze velenose nel fiume). Probabilmente il posto più pulito nel villaggio è proprio la panetteria che ambisce ad ampliarsi, nella quale sono presenti controlli sull’igiene del personale inesistenti nelle imprese artigianali.
Un ex lavoratore del forno, che preferisce il sussidio di disoccupazione alle battaglie sindacali dall’interno per aumentare i salari e migliorare le condizioni dei lavoratori, dice che gli immigrati rubano il lavoro. A chi lo rubano se nessuno lo vuole?
Si ignora l’indotto, lo stimolo a nuovi investimenti, la spinta ad avviare altre iniziative. Prevale il desiderio di restare immobili in una situazione di sottosviluppo.
Il medico del paese dice che gli immigrati potrebbero trasmettere virus sconosciuti attraverso il contatto con il pane, rivelando una notevole ignoranza delle basi scientifiche del suo lavoro. Tutto è possibile, ma bisogna distinguere tra eventi certi, probabili e improbabili. Il medico ignora – o finge di ignorare – che i dipendenti di un panificio sono sottoposti a controlli sanitari inesistenti per altri lavoratori, per esempio per Matthias, il personaggio che ammazza il maiale con un coltellaccio e in assenza delle più elementari misure igieniche.
I pecoroni del villaggio (non quelli che dormono nelle stalle, quelli che dormono nelle case) arrivano a boicottare il panificio; i più facinorosi mettono in atto vere e proprie intimidazioni, minacciano di bruciare l’abitazione nella quale gli immigrati hanno trovato un posto per dormire.
Questa è la situazione in cui sono inserite alcune vicende personali che il regista ci fa seguire passando da un personaggio all’altro senza perdere il filo.
Innanzitutto il bambino. In un bellissimo incipit lo vediamo prepararsi per andare a scuola, percorrere il sentiero tra i boschi coperto di foglie, arrestarsi davanti a qualcosa che l’ha terrorizzato. Dopo questo episodio il bambino non va più a scuola da solo, se dorme da solo bagna il letto, non parla. Non si riesce a sapere che cosa abbia visto.
C’è un momento in cui la sua visione, rivelata da un disegno, è premonitrice di una tragedia.
L’incipit è bello, non solo per come è realizzato: dà la chiave del film. Ci fa capire da subito che il villaggio si trova nella condizione del bambino: è sconvolto dalla paura di un pericolo che non riesce a decifrare. Le persone adulte, nonostante i computer e gli smartphone, in questo mondo globalizzato privo di certezze sentono di non avere il controllo su ciò che accade e hanno le stesse reazioni di un bambino di otto anni. Temono che l’arrivo di tre stranieri, o di cinque o di dieci, sia la premessa di un’invasione. Vivono sentimenti antichi: il terrore dei barbari. Popolazioni che per gli antichi romani erano i barbari hanno inventato o individuato altri barbari da cui difendersi.
Un personaggio dice: «Per duemila anni abbiamo fatto da scudo, abbiamo protetto l’occidente e la sua cultura». Ora si sentono privi di protezione, abbandonati dai “funzionari di Bruxelles”, intenti, secondo loro, a “stabilire la lunghezza dei cetrioli” e facilitare l’invasione. Alcuni paesi hanno scelto di entrare nella comunità europea, ma la considerano un taxi preso per proteggersi dalla tendenza a espandersi della Russia e per evitare il collasso economico.
In Europa è rinato il terrore, in misura maggiore nei paesi come l’Ungheria, la Polonia, la Romania che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, per decenni, sono stati chiusi nel recinto dei paesi comunisti. La Romania di Ceausescu era uno dei recinti più feroci: un intero paese prigioniero e liberato in modo drammatico con l’uccisione del tiranno, senza un vero processo, addossando a un solo uomo (e a una donna) tutte le responsabilità e assolvendo i complici.
Negli ex paesi comunisti – compresa la Russia dopo la fine dell’Unione Sovietica – non c’è stato un “processo di Norimberga”, che consentì alla Germania distrutta e alle potenze vincitrici di raccogliere testimonianze, raccontare, processare, condannare, assolvere in base a un concetto giuridico generale (delitto contro l’umanità) preesistente alle legislazioni nazionali. La Germania ebbe l’illusione di una purificazione, da cui partì per ricominciare, costruire una democrazia moderna che potesse attutire i sensi di colpa per poi progressivamente liberarsene. «I mostri sono stati individuati ed eliminati» poteva pensare un tedesco o una tedesca dopo il processo di Norimberga, «ora possiamo andare avanti».
Non era completamente vero, ma le nazioni, come gli individui, hanno bisogno delle illusioni. Con tutti i limiti politici, giuridici e, genericamente, umani, i processi agli eventi storici, incarnati dai processi agli individui che li hanno determinati o agevolati o rappresentati, sono necessari. Anche in Italia si avverte ancora oggi la mancanza di un processo al fascismo: uccidere Benito senza processo fu una scappatoia, oltre che atto inutile e, eseguito in quel modo, ingiusto; bisognava processarlo insieme ai complici (primo tra tutti Vittorio Emanuele), poi eseguire l’eventuale sentenza di condanna a morte o metterlo in prigione. Sarebbe bastato risalire alla “marcia su Roma”, al delitto Matteotti, all’abolizione della libertà di stampa, alla chiusura dei partiti, alla persecuzione degli avversari politici, al “manifesto della razza”, all’alleanza con Hitler, ai partigiani torturati e uccisi, ai milioni di morti causati dalla guerra, per trovare le prove della colpevolezza di Mussolini e dei complici. Capisco che in quel momento uccidere Mussolini fu la soluzione più semplice (come, decenni dopo, in Romania fu la soluzione più semplice uccidere Ceausescu e consorte) per chiudere un capitolo e ricominciare a vivere, chiudendo anche un occhio sui complici. Ma la soluzione più semplice non è sempre la soluzione migliore.
In Russia ha preso il potere un ex spione del KGB. Se, dopo la fine del comunismo, li avessero processati e condannati (i membri del partito comunista, i complici di Stalin, di Krusciov, di Breznev) per i delitti commessi contro l’umanità, questo non sarebbe potuto accadere.
In seguito al trauma il bambino non parla. Gli adulti parlano, ma le parole non servono.
Assistiamo a una lunga e affollata assemblea cittadina. Gli abitanti del villaggio si scambiano parole inutili in un’assemblea presieduta dal sindaco; le parole servono solo ad aggredirsi reciprocamente e a ribadire le proprie convinzioni immutabili e le decisioni irremovibili.
Il sindaco – che non vediamo (la camera fissa inquadra il popolo vociante in un unico piano sequenza) – fa parlare tutti ma non prende posizione, come se la democrazia consistesse nella dittatura della maggioranza e non ci fossero principi ai quali un paese democratico e civile deve attenersi, anche se contrari all’opinione della maggioranza.
Se si facesse un referendum in Russia e risultasse (come è probabile) che la maggioranza dei russi sono favorevoli alla guerra di aggressione scatenata da Putin, il comportamento della Russia sarebbe ugualmente indegno di un paese civile.
Nel film la maggioranza intimidatoria precostituita vuole dare apparenza di democrazia a una raccolta di firme e imporre una scelta contraria alla civiltà cristiana di cui i pecoroni si dichiarano paladini (sempre quelli che vivono nelle case e vanno a perdere tempo in chiesa).
Nel corso dell’assemblea si evidenzia come l’opinione dei singoli sia influenzata dal gruppo.
I suoceri di Matthias, seduti a tavola con gli ospiti per il pranzo di Natale, sembravano persone ragionevoli e accoglienti. Erano stati i primi a offrire un posto per dormire ai nuovi arrivati. Quando si esprimono nell’assemblea cambiano atteggiamento, si associano al gruppo dei più intolleranti.
È l’influenza nefasta del gruppo sul singolo, da cui è molto faticoso liberarsi.
L’assemblea si conclude con una rissa e diventa uno stimolo che spinge i più facinorosi a passare all’azione.
Di solito i titoli italiani dei film stranieri sono meno efficaci dei titoli originali. A volte sono fuorvianti.
Non è questo il caso.
R.M.N. è il titolo originale del film. Richiama le consonanti della parola Romania e il nome in rumeno dell’esame medico a cui è sottoposto il padre del protagonista, sofferente di narcolessia: la Risonanza Magnetica Nucleare.
Si tratta di un esame accurato, una specie di scannerizzazione del cervello.
Forse il regista con questo titolo intende dire che il film, esaminando un microcosmo, scannerizza l’intera società rumena attuale, l’intera società europea.
Vasto programma, si direbbe, dal momento che quel microcosmo è solo una piccola parte periferica di un continente, non è il centro da cui si diramano i terminali nervosi che raggiungono l’intero corpo.
Le reazioni degli abitanti del villaggio sono diverse da quelle che si verificano nelle capitali e nelle città, anche di periferia, che, bene o male, sono entrate nella modernità. Non dimentichiamo che attualmente il premier britannico, esponente del partito conservatore, è un indiano.
Le scene da film sul razzismo in America (Gregory Peck, Sidney Poitier, ma anche Spike Lee) non mi sembrano attuali in Europa.
Singoli episodi a carico della polizia, come quello accaduto di recente a Parigi, suscitano reazioni tanto esagerate da trasformare la ragione in torto e da far capire che il problema non è il razzismo delle forze dell’ordine. C’è un disagio diffuso, soprattutto tra i giovani, appartenenti a famiglie immigrate o europee da molte generazioni, che sembra sul punto di esplodere.
Il villaggio sperduto in Transilvania, tra scure montagne che hanno evocato, in passato, orribili incubi, sembra una comunità primitiva, legata a valori che altrove sono stati abbandonati da tempo.
Matthias si preoccupa perché al figlio viene insegnato a fare lavori all’uncinetto. «È un maschio!» protesta allibito. Evidentemente, pur essendo vissuto in Germania, ma rimanendo estraneo alla società tedesca più evoluta, non è stato minimamente raggiunto dalla “fluidità di genere” che, nonostante i contrasti e le resistenze dei partiti conservatori, si è affermata come una corrente inarrestabile in Europa.
No, caro regista, hai descritto un posto molto particolare, anche se gli abitanti ripetono argomenti assai diffusi tra coloro che si oppongono all’accoglienza dei lavoratori provenienti da altri paesi.
Questo modo di argomentare è sconfitto altrove dalle richieste degli imprenditori, che spingono per l’accoglienza programmata dei lavoratori stranieri, necessaria per contrastare la “decrescita infelice” che attraversa l’Europa.
Nel film l’imprenditrice è sconfitta; non credo che saranno sconfitte le grandi industrie nazionali e multinazionali che sorreggono l’economia europea e hanno bisogno di aumentare il numero dei lavoratori. L’alternativa sarebbe spostare le aziende fuori dell’Europa, soluzione scelta finora dagli imprenditori che non hanno una visione del futuro. Forse si è capito che spostare industrie in Cina o nei paesi emergenti consente ai disonesti di realizzare guadagni immediati a scapito del futuro dell’Europa.
”Aiutiamo gli europei a casa loro”, consentendo l’arrivo di lavoratori che hanno il desiderio di cambiare domicilio per un tempo più o meno lungo, anche per sempre se vogliono. È una loro scelta. Chi siamo noi per sindacarla? Il diritto all’emigrazione è uno dei diritti inalienabili dell’uomo.
C’è solo un problema di razionalità e di programmazione per gestire il fenomeno; quanto tempo impiegheranno le popolazioni europee per organizzarsi e affrontare gli arrivi da altri mondi utilizzando razionalità e programmazione?
Basterebbe che in un paese africano con cui si hanno rapporti diplomatici comparisse la scritta: l’Italia, la Francia eccetera hanno bisogno di panettieri, di imbianchini, di infermieri, di badanti eccetera; se vuoi trasferirti in Europa segui questo corso per diventare panettiere, imbianchino, infermiere, badante eccetera. Conseguito il titolo, potrai trasferirti regolarmente, in aereo, con tutta la famiglia, se vuoi e se ti impegni a rispettare le regole del paese che ti ospita. Se per te è tanto importante pregare in una moschea, non ti muovere dal tuo paese. Tieni presente che ti trasferisci in un paese cattolico, che rispetta tutte le religioni ma è estraneo a tutte, compresa la cattolica. Anche tu devi rispettare la cultura del paese che ti ospita.
L’imprenditrice del film, abbandonata da tutti, probabilmente andrà a investire i propri capitali in un posto nel quale le forze più retrive (famiglie benestanti, chiesa e aspiranti ai sussidi di disoccupazione) non si alleano per allontanare ogni ipotesi di sviluppo.
Il titolo italiano, Animali selvatici, è perfetto: corrisponde esattamente al contenuto.
Il villaggio è abitato da una comunità di animali pronti a trasformarsi in bestie feroci.
L’animale più feroce di tutti è il prete, nascosto dietro l’ipocrisia, le formule di rito, i paternostri, i paramenti che, addosso a lui, hanno poco di sacro. La bestia prete segue un solo principio: farsi i cazzi suoi.
Gli basta che i “fedeli” riempiano la chiesa e se cacciano due cristiani con la pelle scura non gli importa. Degli ultimi, gli immigrati dallo Sri Lanka, non gli importa nulla: non sa neanche che sono cristiani, come lui dice di essere.
La bestia prete desidera solo che la chiesa sia piena a Natale e nelle altre feste comandate (le “offerte”) e che Matthias, tornato nel villaggio, gli ammazzi il maiale come si deve.
Un’altra bestia è Matthias.
Non esprime mai il proprio pensiero, non per rispetto degli altri o per timidezza, ma perché non ha un pensiero. Nel corso dell’assemblea sembra un imbecille: chiede all’amante di stringergli la mano come fosse un bambino, mentre gli altri dibattono su questioni gravi.
Mentre lavora nel mattatoio, in Germania, viene offeso da un capo che gli rivolge l’epiteto per lui più offensivo: lo chiama “zingaro lavativo”.
Avrebbe potuto protestare, rimandargli delle parolacce, farsi licenziare. No. Da vera bestia, lo atterra con un pugno, mettendosi dalla parte del torto.
Scappa, ritorna nel villaggio. I rapporti con la moglie sono freddi perché lui ha un’amante: la direttrice della panetteria che lavora con l’imprenditrice per cercare di accedere ai fondi europei.
Matthias è il padre del bambino che ha subito il trauma. Cerca di spingerlo, a modo suo, a superare la paura. Gli insegna a preparare una trappola per le volpi, a ricavare acqua bevibile (disgustosa) dall’acqua inquinata del fiume, gli insegna ad accendere il fuoco nel bosco (molto pericoloso).
Ha in testa un modello tradizionale di educazione e un principio, che cerca di trasferire nella testa del bambino: «Per sopravvivere il segreto è non avere pietà». Una vera bestia.
Il regista descrive un mondo disperato, chiuso in se stesso, dominato dalla paura al punto da compiere azioni autodistruttive.
Persino la direttrice del personale, che si muove tra la razionalità e l’attrazione fisica nei confronti di Matthias, alla fine delude: pur avendo riconosciuto uno degli assalitori della casa degli immigrati, non lo denuncia, forse per paura, forse per amicizia, forse per omertà. Sarebbe bastata una denuncia per dare una svolta e incanalare la comunità sul rispetto della legge e della civiltà.