30 ottobre 2023 h 17.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

Temi
Neorealismo (vecchio e nuovo)
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Religioni e/o superstizioni
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C’è ancora domani è un bel film e la felice scoperta di una nuova regista – finora la conoscevamo solo come intelligente attrice comica di televisione e di cinema – in cerca di una strada che si colloca tra neorealismo e realismo magico felliniano (scusate se è poco).
Scelte interessanti che spiazzano lo spettatore: le botte diventano un ballo, nell’ultima scena il film si trasforma in musical.
Spiazzante è l’aggettivo giusto. Finalmente abbiamo trovato un/una regista che ci sorprende!
Il primo lungometraggio di Paola Cortellesi è anche la precisa ricostruzione filologica di una parte dello zoo umano che abitava l’Italia, in particolare Roma, nel 1946, appena finita la guerra.
In quello zoo c’era il masculus patriarchalis (il maschio in una famiglia patriarcale), l’animale selvaggio, speriamo estinto, diviso in diverse sottospecie.
Il marito manesco – Ivano, il più feroce.
Il nonno stronzo – sor Ottorino è un marito manesco invecchiato; dopo avere indotto al suicidio la moglie si fa servire dalla nuora e aggiunge consapevolezza alla sua ferocia; la vecchiaia l’ha reso più lucido e più cattivo; giustamente è accompagnato all’altro mondo da una serie di parolacce sotto forma di preghiere.
Il giovane innamorato – Giulio, figlio del proprietario del bar; disposto a sposare una ragazza povera, ma intenzionato a dominarla; si affretta ad allungare le mani sul possesso («Tu sei solo mia, devi farti bella solo per me, non devi truccarti, non devi lavorare») già prima di avere portato a compimento il ratto (il cosiddetto matrimonio).
Il benestante, padre di Giulio; si impone col denaro sugli altri maschi (nel “duello” con Ivano mette fuori il pacchetto di sigarette buono come fosse una pistola) ed esercita un dominio assoluto sulle donne: la moglie, superba con gli altri, con lui deve solo tacere, la figlia dovrà sposare uno deciso da lui.
i bambini (maschi) insopportabili – impegnati in lotte e litigi continui; nelle famiglie patriarcali i maschi erano educati fin da piccoli a competere, a farsi la guerra, a imporsi con la forza; un maschio che non lottasse per prevalere era disprezzato.
Questo quadro viene fuori dal film; ovviamente è una parte della realtà. Ognuno potrà dire fino a che punto corrisponde alla propria esperienza, per conoscenza diretta (pochi), dal racconto di chi ha vissuto quel periodo (sempre pochi), dal ricordo del racconto di genitori, nonni, bisnonni.
L’Italia è un paese in cui si vive a lungo, dunque ci sono, e ci sono state fino a poco tempo fa, persone in grado di dire: è vero, l’ho vissuto (o me l’ha raccontato mia madre); le donne erano trattate nel modo descritto nel film, molti uomini si comportavano da stronzi feroci, esattamente come nel film si comportano tutti gli uomini, tranne uno. Oppure possono testimoniare: mio nonno era tenerissimo con mia nonna; in casa comandava lei.
Nel film l’unico appartenente alla specie masculus patriarchalis (detto anche maschio stronzo) che non si comporta da bestia selvaggia è Nino, il meccanico triste, rimasto solo perché si è fatto sfuggire la preda e non sappiamo come si comporterebbe se Delia lo seguisse al nord affidandosi interamente a lui. A quel punto potrebbe ritrovare gli istinti di maschio dominatore.
Lo stesso Ivano, dalle immagini del fidanzamento e del matrimonio, sembra non fosse aggressivo all’inizio del rapporto con Delia, ma lo sia diventato. Si giustifica dicendo «Ho fatto due guerre»; dunque si rende conto e un po’ si vergogna della sua violenza, causata, sembra, principalmente dalla stupidità di seguire gli insegnamenti di sor Ottorino (ci associamo alle preghiere blasfeme che lo accompagnano nella tomba). Bisogna dire, tra parentesi, che solo un grande attore è capace di farsi odiare dagli spettatori come Giorgio Colangeli nell’interpretare il personaggio.
Poi c’è il guardiano dello zoo, il soldato americano che ha appena vinto la guerra e viene da un altro mondo pieno di denti bianchi, di cioccolata, di sigarette, di gentilezza, di famiglie riunite e, nella foto, serene.
In quel periodo molte donne se ne andarono in America lasciando mariti, figli, padri violenti, a volte rimanendo deluse. C’è da chiedersi come mai non se ne andarono tutte, non scapparono tutte sulle tre caravelle per scoprire “New York e il Dixieland, la gomma che si mastica al tempo di jazz band” (Fred Buscaglione).

Nello zoo c’era, accanto, anzi sotto al masculus patriarcalis, la femina serva, la donna schiava, la specie (per modo di dire) dominata con uno strumento che perpetuava il ratto delle sabine: il matrimonio indissolubile o matrimonio cattolico.

Una volta che un uomo aveva preso possesso di una donna tramite un matrimonio cattolico, per la donna non c’era più nulla da fare: schiavitù completa per il resto della vita. E l’amore? Qualche volta c’era (più nei film e nelle riviste Bolero e Grand Hotel che nella realtà); poi se lo facevano venire (l’abitudine si può confondere con l’amore quando non c’è alternativa). Se all’uomo non veniva poteva distrarsi; se alla donna non veniva l’amore o la donna non veniva si rassegnava e si concentrava sull’accudimento dei figli.
(Chi non ama lo spoiler si fermi qui nella lettura)
Mettiamo che Delia, nel film, si fosse veramente decisa a lasciare il marito per partire verso il nord insieme al meccanico, come in sala tutti abbiamo sperato. Che cosa sarebbe capitato alla povera donna? Avrebbe perso ogni diritto e il marito l’avrebbe denunciata per abbandono del tetto coniugale.
Dunque una donna sposata, in quegli anni, non aveva alcun modo di uscire dalla gabbia. L’unica possibilità (c’è ancora domani) era partecipare al voto democratico, con la speranza di riuscire, tutte insieme, a cambiare le cose.
Qui emerge l’ottimismo di Paola Cortellesi.

Purtroppo nella specie selvaggia dominatrice c’erano anche i preti (non a caso solo maschi) che allora vestivano in modo particolare e parlavano in latino. I preti, dall’alto dei loro altari o nei segreti dei confessionali, erano in grado di influire sulle scelte di molte donne.
Ecco perché il tema di questo film è la religione cattolica, perché l’educazione cattolica di quasi tutte le donne (che ci credevano, mentre la maggior parte degli uomini facevano finta) rallentò il superamento della schiavitù all’interno della “sacra famiglia” tradizionale. Non a caso la liberazione (cambiamento del diritto di famiglia, obbligo scolastico, legge sul divorzio, legge sull’aborto) avvenne solo quando i preti scesero dall’altare (Concilio Vaticano II) e le donne cominciarono a istruirsi.
In conseguenza di questa evoluzione i preti persero la capacità di influire sul voto delle donne e nel 1974 riuscimmo ad avere una bella soddisfazione e facemmo tutti un passo avanti (40,74% di sì all’abrogazione della legge sul divorzio, 59,26% di no).
Quindi il domani del titolo va spostato almeno fino al 1974.

Sono abbastanza vecchio da ricordare la generazione di cui parla il film, la generazione che era giovane nel 1946 e veniva da una guerra.
L’ho conosciuta quando i sopravvissuti di quella generazione erano adulti o vecchi: i miei genitori, i genitori dei miei amici, i vicini di casa, gli zii e le zie, sposate e nubili, mie e dei miei amici.
Non è vero che tutti gli uomini appartenevano alla specie masculus patriarchalis violento e stronzo. Però è vero che la violenza (esplicita o minacciata) era insita nel rapporto uomo donna, ed è vero che le donne erano in una condizione di schiavitù, di cui loro stesse non si rendevano conto.
Mi ha sempre fatto impressione pensare alle donne di quella generazione: mia madre, le mie zie, le vicine di casa, le madri dei miei amici, le zie dei miei amici. Molte, quasi tutte, erano prive di istruzione, prive di autonomia, tenute fin dalla nascita sotto tutela dei padri, poi dei mariti, dei maschi di casa.
Le chiamavano “regine della casa”; in realtà erano serve non pagate, il cui lavoro non era riconosciuto.
Se appartenevano alla media borghesia (bottegai, professionisti e impiegati di primo livello) si sfogavano con la superbia, con i vestiti e i gioielli; se appartenevano alla piccola borghesia non lavoravano, quindi erano prive di autonomia e di distrazioni: vivevano prigioniere in casa; se appartenevano al proletariato o al sottoproletariato erano doppiamente sfruttate, in famiglia e nel lavoro. Le donne dell’alta borghesia giocavano un altro campionato, con regole diverse. Tutte le altre accudivano i vecchi, accudivano i fratelli, i mariti, i figli; se non si sposavano accudivano i figli dei fratelli. Non si riconoscevano il diritto di pensare a se stesse, il diritto di amarsi. Povere donne rese schiave da generazioni e generazioni, per secoli, di masculi patriarchali; interiorizzavano la propria schiavitù e non trovavano mai il coraggio di ribellarsi.

Non trovavano il coraggio, come il personaggio del film, perché non avevano alternative e si caricavano di doveri verso i vecchi di casa, verso i mariti (da compatire perché avevano fatto la guerra, e nessuno diceva che anche le donne avevano fatto la guerra), verso i figli propri o i figli degli altri.

Povere donne! Noi uomini dovremmo chiedere perdono a queste donne, perché, pur essendo estranei alla specie masculus patriarchalis, qualche volta ci siamo distratti, abbiamo dimenticato di condannare nei fatti l’ingiustizia di cui sono state vittime.

Mi incazzo quando penso alla condizione attuale delle donne iraniane o afgane. Purtroppo nel nostro mondo evoluto la condizione della donna, fino a poco tempo fa, non era molto diversa.