
01 aprile 2025 h 17.20
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto
La malattia (“Tu sì ‘na malatia / Ca mə passa si tu stai cu me“)
// Nonostante // L’invenzione della neve (malattia mentale) // The father (Alzheimer) // Zona arancione (pandemia) // Zona rossa (pandemia) // Ci risiamo! (pandemia) // Se c’è un aldilà sono fottuto (tossicodipendenza) // Dopo la liberazione provvisoria (pandemia) // L’illogica allegria (pandemia) // La mascherina (pandemia) // Tutto il mio folle amore (autismo) // La linea verticale (cancro) // Arrivederci professore // Dolor y gloria // Domani è un altro giorno // Don’t worry // Quanto basta (autismo) // The party //
“Nonostante”, regia di Valerio Mastandrea.
In questo film, molto coraggioso, Valerio Mastandrea rappresenta una condizione particolare: il coma.
Una persona gravemente malata o in seguito a un incidente può andare in coma, o può essere portata in coma farmacologico per essere sottoposta a interventi chirurgici complicati.
In questa condizione il corpo è incosciente, generalmente disteso in un letto d’ospedale, a volte coperto di fasce e di tubicini, di aghi attraverso i quali sono introdotte le sostanze che servono ad alimentarlo, a curarlo, a eseguire indagini diagnostiche.
Che ne è della coscienza? Si domanda Mastandrea.
È la domanda che mi ponevo vegliando L. per un giorno e una notte; all’alba il medico di guardia disse: è morta. Le attaccarono gli elettrodi, li misero in funzione e mi dissero di non toccarla: la macchina avrebbe prodotto l’elettroencefalogramma. Era necessaria la certezza che fosse piatto.
La mattina del giorno precedente non si era svegliata, era intontita, assente; non rispondeva alle sollecitazioni. Il medico del pronto soccorso decise il ricovero in ospedale. Stato di incoscienza sempre più profondo. Coma.
Restò così per tutto il giorno e per la notte successiva, fino all’alba, quando il medico di turno ne constatò la morte.
Ogni tanto la guardavo, mi avvicinavo al suo viso, la chiamavo. Respirava ma non reagiva ai richiami, come fosse immersa in un sonno profondo. Non riesco a ricordare gli occhi; mi sembra che le palpebre fossero in parte sollevate. Sicuramente non c’era uno sguardo.
Mi domandavo: vedrà, sentirà qualcosa? Scrutavo il viso. Mi chiedevo: forse sogna? Forse i rumori della stanza, le mie parole le giungono da lontano?
Valerio Mastandrea immagina che in quelle condizioni una parte della persona – vogliamo chiamarla anima? – si stacchi dal corpo e vada in giro in piena leggerezza. Comunica solo con altre persone in coma, con altre anime che si sono staccate dal corpo rimasto nel letto.
Non soffrono, sono tranquille ma possono rabbuiarsi. Non sanno che cosa accadrà e questo è un motivo di cruccio.
Ci sono tre possibilità.
Possibilità numero 1. La persona in coma potrebbe risvegliarsi, avviarsi verso la guarigione e gradualmente tornare alla vita di prima. In questo caso dimenticherà ciò che ha vissuto quando era incosciente, i giri che ha fatto, le persone, anch’esse in coma, che ha incontrato.
Possibilità numero 2. L’anima (chiamiamola così), leggera come una piuma, potrebbe essere portata via dal vento della morte. Se il corpo muore, un forte vento cattura l’anima. Questa è una possibilità che fa paura, come fa paura quando si è coscienti. Si teme la morte perché è un’incognita, anche in quelle condizioni. Non si sa che cosa accadrà, dove ci porterà il vento. Quando il forte vento si sveglia (è come se dormisse e si svegliasse quando il corpo si approssima alla morte), l’anima cerca di aggrapparsi a qualunque cosa per non farsi portare via. Non vuole morire.
Possibilità numero 3. Il corpo rimane nello stato di incoscienza per un tempo più o meno lungo, a volte lunghissimo.
Questa è una condizione che le anime delle persone in coma desiderano mantenere. Temono il ritorno alla pesantezza del vivere, l’oblio di ciò che è accaduto mentre erano in coma, la perdita delle nuove conoscenze, dei nuovi legami, delle amicizie, degli amori nati con persone nella stessa condizione che solo loro vedono e non vedranno più se usciranno dal coma. Temono la morte (il grande vento), ma anche il ritorno alla vita normale.
Il personaggio interpretato da Valerio Mastandrea è stato a lungo in quella condizione e si è affezionato addirittura alla stanza d’ospedale, alla crepa del vetro di una finestra che gli consentiva di avvertire il cambiamento del tempo meteorologico all’esterno. Quando spostano il suo corpo in un’altra stanza per fare posto a una nuova arrivata e lo mettono in una camera da condividere con un’altra persona in coma che conosce bene, soffre il cambiamento. Questo personaggio tende a isolarsi.
Le anime sono leggere, viaggiano da un posto all’altro aggrappandosi a qualunque mezzo in moto; molto bella la parte iniziale: il personaggio va in giro senza meta dando la sensazione di divertirsi a esplorare il mondo mentre il suo corpo, invalido, è steso nel lettino d’ospedale, immobile, pesante.
Le anime vedono i parenti che vengono in visita (al corpo), fanno amicizia con i nuovi arrivati (in coma), vanno in gita in pullman se ne hanno voglia. Assistono a spettacoli in costume mescolandosi con gli attori (nessuno le vede), fanno passeggiate nei boschi. Si muovono liberamente anche sulla linea del tempo, all’indietro: possono visitare luoghi, episodi del passato, spiare il padre smemorato sulla spiaggia. Non hanno le esigenze che si accompagnano alla pesantezza del corpo. L’anima – se vogliamo chiamarla così – indossa sempre gli stessi abiti; solo un personaggio vediamo con abiti diversi in momenti diversi; questa mi è sembrata un’incoerenza. Alla fine del giorno all’anima basta sfilare le scarpe e, per passare la notte, accucciarsi su una poltrona, su un divano, per terra, accanto al letto dove giace il corpo. Non ha bisogno d’altro, non è impressionata dal suo corpo immobile, dalla testa fasciata, dai capelli rasati, dagli occhi chiusi o sbarrati, dai tubicini, dagli aghi.
L’anima del personaggio interpretato da Valerio Mastandrea si innamora di una ragazza (della sua anima) in coma in seguito a un incidente automobilistico. Anche in quella condizione può scoppiare l’amore.
Mi aspetto che un amico su facebook (che ha scelto un simbolo allegro) trovi obiezioni a questo racconto, e forse ha ragione, ma sto raccontando un film, non un trattato filosofico.
Se non va bene la parola anima, usiamo la parola mente. O accontentiamo il dottor Freud e chiamiamola psiche.
Possiamo chiamarla come ci pare, l’importante è che ci capiamo, sappiamo a che cosa ci riferiamo con quella parola. Era un mistero anche per il dottor Freud e per i grandi teologi.
Interviene un personaggio dotato della capacità di fare da tramite tra i due mondi: la vita normale e il coma. Qui c’è l’invenzione meno convincente, resa necessaria, credo, dall’esigenza di mettere su un po’ di storia, un po’ di trama in un film che per buona parte ne è privo.
Vorrei concludere dicendo che il personaggio interpretato da Valerio Mastandrea me ne ha ricordato un altro rimasto impresso nella mia psiche. È il personaggio principale della serie televisiva “La linea verticale”, autore e regista Mattia Torre.
Una delle poche serie che ho visto interamente; la Rai, che l’aveva prodotta, trasmise tutte le puntate, una di seguito all’altra, senza interruzioni pubblicitarie, il 20 luglio 2019, giorno successivo alla morte del regista e scrittore. Quella volta fui grato alla Rai e benedissi il canone.
Riporto di seguito il commento che scrissi quella sera, dopo avere visto la serie. Aggiungo solo che il personaggio interpretato da Valerio Mastandrea nel film “Nonostante” mi sembra sia Luigi, il personaggio che ci parla fuori campo nella serie e alla fine riesce a uscire dall’ospedale. Purtroppo dovette tornarci e il vento lo portò via.
Alla domanda consueta (ti è piaciuto il film?) ho risposto: mi è piaciuto andare a vederlo, mi fa piacere averlo visto; se avrò l’occasione cercherò di rivederlo.
Segue il commento alla serie televisiva “La linea verticale”, regia di Mattia Torre, trasmessa interamente su Rai3 il 20 luglio 2019, reperibile su Raiplay.
(20 luglio 2019)
Sono ignorante, purtroppo. Mi occupo di cinema ma seguo poco i nuovi scrittori, mi lascio sfuggire le novità delle serie televisive. Non conoscevo Mattia Torre.
Quando ho letto della sua morte, per un tumore, a 47 anni, ho scoperto che era sceneggiatore e coregista di Boris, serie televisiva e film.
Il film mi era molto piaciuto e, stranamente, avevo visto anche diverse puntate della serie televisiva.
Non guardo le serie, pur sapendo di perdere delle belle cose: per vedere The Young Pope e I Sopranos ho dovuto comprare il cofanetto.
Non seguo le serie perché non riesco a mantenere un appuntamento con la televisione: proprio non è nelle mie possibilità.
Mi capita di vedere una puntata, mi piace, decido di vedere il seguito, ma regolarmente, la volta dopo, mi dimentico o esco, faccio un’altra cosa.
Gli appuntamenti fissi, gli orari, sono stati un tormento della mia vita, da cui mi sono liberato da poco (a volte si ripresentano sotto forma di incubo notturno).
Lo so: ci sono abbonamenti che consentono di farsi il proprio palinsesto personale, ma c’è un motivo che mi spinge a non cercare queste soluzioni (oltre alla pigrizia).
Non mi piace guardare la televisione per troppo tempo. Di solito la guardo mentre mangio. Poi la spengo e passo a un libro o al computer, se devo restare in casa e non ho altro da fare.
Del Boris televisivo ero riuscito a vedere alcune puntate. Mi piaceva l’umorismo della sceneggiatura; se avessi trovato il cofanetto dei DVD, certamente l’avrei comprato.
Il giorno 20 luglio, dopo il telegiornale del pomeriggio, che ho seguito mentre pranzavo (non è una buona abitudine, ma se non lo vedo mentre pranzo non lo vedo più), su Rai3 è partita la prima puntata della serie “La linea verticale”.
Mi ha subito attratto, anche per la commovente scritta, in alto a destra sullo schermo: “In ricordo di Mattia Torre”. Era morto il giorno prima.
Non solo per questo mi ha attratto.
Si vede subito che l’autore è un grande scrittore, osservatore, umorista e, in più, questa serie è tutta sua.
La bella sorpresa è stata scoprire che dopo la prima puntata seguiva la seconda, poi la terza e così via, fino alla fine, senza interruzioni pubblicitarie.
Ho cambiato la programmazione del pomeriggio, mi sono allungato nella poltrona e ho guardato tutte le puntate.
Era impossibile staccarsi: ad ogni puntata c’era una nuova invenzione geniale (per dirne una: l’oncologo seguito dalla morte con la falce).
È un ritratto assolutamente realistico, anche se apparentemente paradossale, ma realistico in tutti i dettagli (compresa la morte con la falce) della cattura da parte del sistema sanitario di un uomo che si ammala di cancro.
Assolutamente realistico il rapporto con la medicina e con le varie tipologie di medici.
Sono grato ai responsabili del palinsesto di Rai3 per avere dato la possibilità di vedere interamente questa serie a uno distratto come me e per avere ricordato un artista nell’unico modo giusto: mostrando la sua opera, che gli sopravviverà, ha già cominciato a farlo il giorno dopo la sua morte.
Penso che i produttori della serie, la stessa Rai, abbiano dimostrato coraggio: la gente non vuole sentire parlare di questi argomenti, soprattutto nei termini realistici che, dietro l’apparenza del paradosso, sono utilizzati per rappresentare le diverse situazioni che caratterizzano la vita, o la parvenza di vita, in un ospedale.
La scienza ha fatto progressi enormi, però questi progressi non si traducono per tutti nella pratica medica; in questo campo vige un rigido sistema di segregazione sociale, con pochi, pochissimi, fortunati e molti, moltissimi, abbandonati nell’angoscia, col dubbio di non sapere se il sistema sta facendo tutto il possibile per salvarli o si sta solo parando le chiappe.
Purtroppo è un sistema che abbiamo costruito in questo modo nelle nostre società evolute (in altre va anche peggio); l’uomo comune non ha gli stessi diritti dei potenti ed è lasciato nell’angoscia (attutita solo dalla buona volontà di alcuni operatori sanitari) quando alla sua porta si affaccia la malattia grave o gravissima.
Solo quando è leggera non è catturato, ma è in preda alla paura che possa rivelarsi o trasformarsi in grave o gravissima.
Se ciò accade, si rimane impigliati in una rete da cui non si sa quando, come, e, soprattutto, se sarà mai possibile liberarsi.
La serie si svolge in un buon ospedale, pulito, moderno. La situazione peggiora, diventa una vera e propria sosta all’inferno quando l’ospedale è fatiscente e inserito in un ambiente degradato.
È un sistema che abbiamo costruito in questo modo e non lo cambiamo perché chi ne avrebbe il potere non ha l’interesse: per i potenti della terra sono a disposizione luminari della scienza medica che interrompono tutto per mettersi a disposizione, mentre nugoli di telecronisti attendono in ansia i bollettini medici.
Tutti gli altri, il 99,99 per cento della popolazione, ci limitiamo a sperare di non essere catturati e intanto seguiamo le trasmissioni in cui si mitizzano i grandi risultati della medicina e gli artefici di questi risultati, si parla dei medici come di eroi del nostro tempo, disponibili e sempre presenti per aiutare i malati e per sollevarli dalle sofferenze.
Si tratta di un’immagine lontana dalla realtà che ciascuno di noi scopre quando ha, personalmente o in famiglia, un problema serio di salute.
Alla fine quasi tutti ringraziano il chirurgo che li ha operati; il problema è che non sappiamo se ha fatto la cosa giusta, non sappiamo che cosa è successo in sala operatoria, se lui, non solo il malato, lui, quello col bisturi, era nelle condizioni migliori per operare, se ci ha tolto il necessario o qualcosa di più, se ha impiegato la stessa attenzione di quando ha operato il grande imprenditore, il papa, il capo di stato.
Dobbiamo fidarci.
Il mio problema è questo: non mi fido di nessuno.
In definitiva, con tutti i progressi scientifici e tecnologici attuali (domani si commemora lo sbarco sulla luna), il singolo individuo ammalato si trova nella stessa situazione dell’uomo primitivo o di chi viveva nelle società arcaiche: siamo terrorizzati e speriamo che Dio sia clemente, che lo stregone ci protegga.
Ma abbiamo buone ragioni per ritenere che Dio e lo stregone siano indifferenti alla nostra sorte, o, comunque, non siamo in grado di saperlo; non sappiamo se il sacrificio di un caprone, che lo stregone ci ha suggerito, potrà bastare a placare Dio o lo farà incazzare di più.
Se gli sembra che l’offerta votiva, per il momento, abbia funzionato e riesce a uscire dalla rete, il paziente (quanta pazienza ci vuole!) ringrazia.
Anche Luigi, il personaggio della serie, ringrazia alla fine e si dice grato al sistema che lo ha liberato da un nemico senza spendere un euro.
È così contento di essere sfuggito alla cattura da dimenticare che quel sistema è pagato da tutti con le tasse.
Forse non c’è altra possibilità, forse davvero la medicina non può essere altro da ciò che è: un sistema basato sul terrore dell’uomo che un attimo prima si sentiva padrone della propria vita e un attimo dopo diventa un bambino indifeso, in balia di altri uomini che possono sbatterlo avanti e indietro, se hanno una giornata storta.
La figura del medico inavvicinabile, nascosto dietro i suoi paroloni, che se ne fotte della situazione del paziente, è molto più diffusa di quanto si dica nelle trasmissioni consolatorie sulla medicina.
Mi ricordo un’esperienza del primo mese dopo la laurea in Biologia, quando ero in dubbio se buttarmi nella scuola o in un ospedale (sono fatto così: sempre in dubbio nelle mie scelte); seguii un corso intensivo, della durata di un mese, che mi portava a frequentare alcuni giovani medici che, per cominciare a lavorare, sostituivano di notte i titolari della guardia medica in un importante ospedale per la cura dei tumori.
Negli intervalli tra le lezioni e le attività pratiche passavamo il tempo insieme, tra il bar, due calci a un pallone e una partita a carte.
Raccontavano delle lunghe notti che passavano in ospedale, pronti a intervenire in caso di necessità, senza nessuna voglia di dormire.
Si facevano portare manicaretti dal ristorante e pasteggiavano allegramente.
Dicevano che il problema era ricomporsi quando improvvisamente erano chiamati in corsia perché qualcuno stava per morire, cambiare l’espressione del viso davanti a un dramma.
Forse sono stato sfortunato, ho incontrato gente particolarmente cinica e non motivata.
È possibile; questa è la mia esperienza, per non parlare di altre, che, come tutti, potrei raccontare, altrettanto deprimenti, come familiare di pazienti (fortunatamente, finora, sono sfuggito alla cattura personale).
Valerio Mastandrea ha dimostrato in questa serie una straordinaria capacità di interpretazione; assolutamente straordinaria. È grande! Ogni atteggiamento, ogni esitazione, ogni sguardo, ogni parola è quella giusta per quel personaggio in quella situazione.
Riguardo all’argomento della serie, è da tempo che ho preso una decisione, in considerazione del fatto che non sono un giovane padre, come Luigi, il personaggio interpretato da Mastandrea, o come Mattia, il regista e autore, ma un vecchio che è vissuto abbastanza.
Se capitasse a me di avere la notizia che sconvolge la vita di quel personaggio e lo precipita in una situazione kafkiana, in una dipendenza totale dai camici bianchi – ripeto: sto parlando di me stesso, non di un giovane, o di un adulto, o di chiunque decida, giustamente, di lottare fino in fondo – non mi farei catturare.
Io non mi farei catturare: semplicemente considerei finito lo spettacolo, finita la pellicola. E scriverei: The End.
Segue un epigramma di Giuseppe Giusti, un poeta ingiustamente dimenticato, che potrebbe insegnare un po’ di ironia, soprattutto agli adolescenti: a volte si prendono troppo sul serio.
« Per me tanto ho deciso
di non voler veder la morte in viso:
perciò, se piace a Dio,
quando arriverà lei me n’andrò io »
Giuseppe Giusti – Poesie: Epigramma XVI
(20 luglio 2019)