20 luglio 2018 h 18.00
Cinema Il Portico Firenze – via Capo di Mondo, 66

Umorismo (fa bene ridere)
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Possibile che qualcuno coltivi il sogno di vedere da vicino i mobili Ikea?

Per noi che viviamo in questa parte del mondo non c’è niente di più facile.
Ci sono tanti negozi Ikea, in ogni regione, generalmente fuori dei centri abitati.
Basta incolonnarsi nel traffico, si può trascorrere una mezza giornata letteralmente immersi in una giungla di oggetti di ogni tipo e per ogni esigenza.
Ci si va in qualunque giorno della settimana.
Dicono: che si fa? Si va all’Ikea (da queste parti lo dicono con la gorgia, il suono /k/ aspirato).
Ci si va, anche se non ci s’ha nulla da comprare. L’orario continuato va incontro alle esigenze di tutti, non a quelle di chi ci lavora; molti preferiscono andarci il sabato pomeriggio o la domenica mattina, come una volta si andava nella piazza del paese, o si andava a messa, a trovare i parenti.

Una cosina può sempre venir fuori nel giro, qualcosa che possa servire si trova, anche se poi sarà dimenticata in un cassetto: un cavaturaccioli (quello vecchio funziona benissimo, ma è vecchio), uno schiaccianoci, uno strizzapatate, un pelacarote, un macinapepe, uno snocciolaolive, una presina, un appendino, un gancio per appendere la presina all’appendino.

Qualcosa si troverà.

Ci facciamo trasportare nel percorso obbligato tra oggetti di ogni tipo, quasi ipnotizzati dall’abbondanza, dall’eccesso; ci sediamo sulle poltrone, sui divani a dondolo; entriamo nelle cucine arredate pensando: chissà, un giorno … e mentalmente prendiamo le misure, o le prendiamo realmente, utilizzando le apposite strisce di carta tarate, a disposizione dei clienti; non abbiamo l’intenzione di comprare la cucina, però ci scriviamo i numeri sul blocchetto, con la matita ben temperata che l’azienda ci regala.
Alla fine ci concediamo le polpettine svedesi, in realtà turche (ah, se non fossimo obbligati a stare attenti alla linea e al colesterolo!) o una buona manciata di dolcetti di marzapane – la parola ricorda le favole di Hans Christian Andersen (danese o svedese fa lo stesso).

Nessuno metterebbe in cima ai propri sogni un giro all’Ikea; ci sono tanti negozi Ikea!
Se si vive in un posto da dove è complicato raggiungerne uno, ci sarà certamente più vicino un megastore per fare un giro simile, per riempire gli occhi di vestiti, scarpe, suppellettili, polpettine, se non svedesi o turche, analoghe.

Ora immaginiamo la situazione di un grande paese, l’India, per alcuni aspetti avanzato, tanto che i suoi informatici sono richiestissimi nella Silicon Valley, con ampie zone di sottosviluppo e città caotiche dove i bambini sembrano comparse di Paisà; un paese enorme dove non c’è l’Ikea.
È facile che un giro fra i mobili componibili diventi il sogno di un bambino che ha una sola ricchezza («Mamma siamo poveri?» «No, siamo ricchi, perché ognuno di noi ha l’altro»).

Le collezioni hanno nomi di luoghi, di fiumi, di laghi scandinavi, nomi propri di donna, di uomo, nomi di fiori, di animali. Si trovano nei cataloghi, che vanno dappertutto, soprattutto negli studi medici.
Il bambino si è imbattuto in uno dei cataloghi dell’Ikea mentre aspettava che la mamma concludesse la visita; da allora è stata passione e, come succede ai bambini, che hanno il cervello molto ricettivo delle cose che li incuriosiscono, ha imparato tutto sui mobili Ikea.

Il protagonista del film, Aja, non ha mai conosciuto il padre – «È questo mio padre?», chiede continuamente alla madre; «No, non è lui», risponde ogni volta la madre.

Crescendo, il ragazzo sfrutta le sue capacità di illusionista, di prestigiatore, per compiere piccoli furti, per fare piccole magie: far sparire un portafogli, aprire una valigia.

La madre, che ha lavorato duramente per tirare avanti, muore.
Aja trova in un cassetto una lettera del padre e un ritaglio di giornale che lo ritrae mentre si esibisce in strada.
Era un prestigiatore francese; si trovava in India come tanti giovani occidentali appassionati di illusionismo, di prestidigitazione, di santoni, di yoga.
La lettera rivela il motivo per cui i suoi genitori, che si amavano, non si erano sposati: la contrarietà della famiglia della madre.

Il ragazzo decide di andare a Parigi per cercare suo padre, portando con sé, in una busta ripiegata, le ceneri della madre, per darle la possibilità di accettare, finalmente, l’invito che le era stato rivolto nella lettera, di realizzare il sogno di quando era giovane e innamorata.

Il desiderio che lo spinge a mettersi in viaggio è commovente, fa pensare a tutto ciò che non facciamo in tempo a donare alle persone che amiamo. Non c’è mai tempo! Se ne vanno troppo presto.
Aja ha la fortuna di credere di essere in tempo anche quando della persona che ama è rimasta la cenere.

Arrivato a Parigi che cosa fa? Va a visitare il Louvre, La Tour Eiffel, gli Champs Élysées?
No. Va a farsi un giro all’Ikea.

Qui incontra una ragazza: l’amore della sua vita.

Riesce ad avvicinarla inventandosi un gioco, tra poltrone e librerie Billy, riesce a conquistarla sfruttando la sua capacità di raccontare – su questo talento è basato il film, che ha un filo conduttore: un racconto con il quale il protagonista, diventato infine professore, “conquista” tre ragazzi turbolenti e li convince ad andare a scuola.

È ricambiato dalla ragazza, e questo, naturalmente, aumenta il suo amore – «Ti prego, non rimproverarmi: quella che amo ora mi rende grazia per grazia e amore per amore; l’altra non faceva così» disse Romeo per spiegare a frate Lorenzo il subitaneo spostamento del suo amore da Rosalina a Giulietta.

Riesce solo a rubarle un bacio fortuito, ma si capisce che i due si sono intesi, si sono presi a prima vista, si sono riconosciuti come parte di una cosa sola, perché Parigi è una città dove è più facile innamorarsi che altrove, come spiega il professore ai tre ragazzi che lo seguono attenti; le dà appuntamento per il giorno dopo alla Tour Eiffel (soddisfatta la curiosità dell’Ikea, vuole vedere anche altre cose).

Non ha soldi; per passare la notte decide di nascondersi in un armadio componibile.
L’operazione riesce, nessuno se ne accorge, però l’armadio è destinato a fare un lungo viaggio, viene caricato su un camion per essere trasportato nella notte a Londra, con lui dentro (i componibili Ikea viaggiano molto!).

Alla frontiera tra Francia e Gran Bretagna, Aja viene scoperto dalle guardie inglesi, insieme ai profughi che cercano di attraversare i confini degli stati europei per fuggire dalla guerra o per realizzare un sogno.
Così continua l’incredibile viaggio del nostro fachiro: il lungo giro lo porta anche a Roma, dove trova la fontana di Trevi, le monetine, i paparazzi della dolce vita, la diva del cinema, il produttore scemo, quella paccottiglia che in un altro film darebbe fastidio; qui no, non dà fastidio.

L’abbiamo vista, in parte, anche in Ricomincio da noi (commento 16 marzo 2018), ma, diciamo la verità, questo è il brand di Roma, a cui sono legati ricordi cinematografici indelebili.
Roma è famosa per questo, per fortuna, non per le buche nelle strade o per i topi nei giardinetti.

Il simpatico fachiro, un po’ illusionista, un po’ imbroglione, viaggia in aereo tra i bagagli, su una mongolfiera, e si esibisce in uno strepitoso ballo al suono di una musica indiana, in un locale romano.
Dhanush, l’attore che interpreta il personaggio principale, in questo ballo sembra un nuovo John Travolta.

Aja affronta tutto come viene, facendo intervenire le sue doti di illusionista quando è necessario e chiedendo la grazia alla mucca sacra della sua casa, come qualcuno che conosco la chiederebbe ai santini (anch’io, alle strette, chiederei la grazia ai santini, alla mucca sacra, a Manitù, al Dio degli ebrei, a quello incarnato nel seno della Vergine Maria, non al Dio dei fanatici).

Ora ha un obiettivo più importante di quelli che lo hanno spinto a iniziare il viaggio.
Perché è partito? Voleva ritrovare il padre, consentire alla madre di realizzare il suo sogno, farsi un giro in un negozio Ikea.
Ora vuole ritrovare l’amore della sua vita.

Un film veramente bello; accenna ai gravi problemi della gente costretta a girare il mondo alla ricerca di un posto dove vivere meglio (pare che questa ricerca sia diventata un delitto), ma non perde mai la sua leggerezza.
Il regista non vuole farci la lezione comoda – quanti predicatori, in televisione e al cinema, dobbiamo sopportare! – di chi è un uomo o una donna di spettacolo, ha una vita privilegiata e parla come fosse madre Teresa di Calcutta.
Il compito del regista è farci passare un’ora e mezza attaccati allo schermo: ci riesce, con una serie di trovate e di colpi di scena non scontati, divertenti.
I problemi seri, importanti, drammatici, non si risolvono con i film, li devono risolvere i governanti (avete voluto la bicicletta, pedalate!), che paghiamo perché si occupino di questo, perché risolvano i problemi senza farci vergognare di essere italiani, come, purtroppo, è capitato nella storia: basti pensare al ventennio fascista.

Per fortuna ora c’è la democrazia (fortuna e merito di alcuni valorosi): se i governanti provvisori sbagliano, alla prima occasione chiamiamo qualcun altro a rappresentarci. Nel frattempo non chiedano a noi di decidere che cosa fare, non fingano di interpretare la volontà popolare; sta a loro fare le scelte, se ne assumano la responsabilità, ma si ricordino che non vogliamo vergognarci, per colpa loro, di essere italiani (mancare di umanità nei confronti di gente disperata è vergognoso).

Meravigliosa, in questo film, la mongolfiera; è sempre stata, nella letteratura e nel cinema, segno di avventura, di fantasia, di divertimento; basti pensare al Giro del mondo in 80 giorni, al Mago di Oz, che, alla fine, se ne va su una mongolfiera, al tappeto volante di Aladdin (la versione disneyana delle Mille e una notte), una mongolfiera senza pallone, portata in giro dal vento, dall’aria, dalla magia, dalla fantasia.

Se vogliamo per forza estrarre un concetto (non dico messaggio perché mi viene una reazione allergica molto pericolosa) da questo film leggero come un tappeto volante, è il seguente: il protagonista accetta tutte le angherie individuali e collettive presenti in India – come farà la sua graziosa compagna manager francoamericana che, alla fine, lo raggiunge, a inserirsi? – perché crede che esista un solo mezzo per cambiare la società e gli individui: la scuola (oltre a una buona dose di karma positivo).

Il film è tratto da un libro di Romain Puértolas, che mi precipito a comprare; sarà un’ottima lettura sotto l’ombrellone a Marina di Pietrasanta ad agosto.