28 febbraio 2018 h 18.30
Cinema Cinecittà Firenze – via Pisana, 576

Altro film del regista: // Grazie ragazzi //

Umorismo (fa bene ridere)
// Romeo è Giulietta // La Primavera della mia vita // Il discorso perfetto // Una famiglia mostruosa // Mandibules // Odio l’estate // Jojo Rabbit // Tolo Tolo // Il colpo del cane // Stan & Ollie // Moschettieri del re // Il Grinch // Achille Tarallo // L’incredibile viaggio del fachiro // Favola // Una festa esagerata // Metti la nonna nel freezer // Come un gatto in tangenziale // The Disaster Artist // C’est la vie: prendila come viene //

Un piccolo cinema, Cinecittà, in via Pisana.
Una delle più antiche sale cinematografiche di Firenze, aperta dal 1947, presso la Casa del Popolo F.lli Taddei, Circolo ARCI.
Casa del Popolo, Circolo ARCI.

Già prima di entrare in sala, leggendo la targa, in testa parte un film neorealista in bianco e nero. Più avanti si arricchisce delle profonde riflessioni bergmaniane su Dio (vivo, morto o con problemi di salute), recupera la comicità di Totò, accoglie la risata amara delle migliori commedie all’italiana – tranne Sordi, che, allora, ci era antipatico – e il cinismo dei western di Sergio Leone (dopo un’iniziale diffidenza: il mito).
Poi la bella gioventù si innamorò del cinema giovane e spregiudicato (Moretti, Allen, Truffaut), ma aveva, nascosto in una parte del cervello, un Vittorio De Sica brizzolato, riconosciuto e acclamato attore e regista comico e drammatico.
Vittorio De Sica riusciva a piacere ai semplici e ai complicati, agli studenti, che in quegli anni erano assai selettivi.
Dopo poco sarebbero arrivati gli americani, con i ricordi, carichi di rimorsi, sulla guerra del Vietnam, condotta e finita ingloriosamente, e sull’adolescenza vissuta in ambiente mafioso, finita anch’essa con poca gloria e molti rimorsi.

Il film che si svolge nella testa di chi legge la targa Casa del Popolo – Circolo ARCI (se ha l’età giusta), oltre a contenere un riassunto del cinema amato da una generazione, racconta la storia del popolo di sinistra, soprattutto in Toscana e in Emilia, ma un po’ in tutt’Italia; si riuniva nelle case del popolo e partecipava alle attività ricreative e culturali organizzate dall’Arci.
Il popolo non era la massa indistinta attuale, sinonimo di gente, o, addirittura, di folla (per alcuni: di audience) in nome della quale tutti pretendono di parlare, facendo riferimento ai sondaggi: il 20% degli intervistati la pensa così, il 30% la pensa in quest’altro modo … .
Intervistati come? «Pronto, ci scusi se la disturbiamo». Intanto mi avete disturbato, e non è detto che voglia rivelarvi i miei dubbi (molti) e le mie certezze (poche).

Ogni tanto, non sempre, i risultati delle elezioni confermano i sondaggi. Qui sta il punto. Ogni tanto anche l’oroscopo indovina.

Ai tempi delle Case del popolo il riferimento era alla Costituzione – la sovranità appartiene al popolo che la esercita … – non ai risultati arbitrari dei sondaggi o ai like: una minoranza (quelli che fanno clic sulla manina con il pollice alzato), di una minoranza (i fruitori di quel social), di una minoranza (gli utenti telefonici che utilizzano i collegamenti con internet).
Ora i like si comprano, ci sono aziende che lavorano a moltiplicarli per i politici, e il cerchio si è chiuso.

Prima della deriva populista si pensava, come Giorgio Gaber, che «la libertà è partecipazione».

La cosa (1990) è uno degli ultimi ricordi cinematografici, credo l’ultimo, di uno scambio di opinioni molto forte, emotivamente molto sentito, fra i militanti del partito comunista.
Allora ero in Toscana e mi piacque molto immergermi in quel profluvio di ragionamenti, mescolati a forti scambi emotivi, ripresi nel film di Nanni Moretti con una cinepresa montata su un trespolo.
Interventi dei compagni sulla proposta del segretario Achille Occhetto (Carneade, chi era costui?) di cambiare nome al partito.
Inquadratura fissa.
Quando uscì il film mi venne spontaneo il confronto con il ricordo di ciò che avevo visto. Molto più interessante lo spettacolo dal vivo: il modo di parlare dei toscani è divertente quasi quanto il modo di parlare dei napoletani.

Nelle parrocchie si riuniva il popolo di Dio, che, dopo ogni tornata elettorale, risultava sempre più consistente del popolo dei compagni, tranne una volta alle elezioni regionali e nel referendum voluto dai cattolici conservatori per l’abrogazione della legge Fortuna Gaslini sul divorzio.
Quella volta i risultati della votazione dimostrarono che tra i due popoli, sul piano dei comportamenti, non c’era grande differenza. I diritti, la libertà, il frigorifero (il televisore, la cinquecento, le vacanze …) erano entrati nelle due chiese dominanti.

Nella Casa del Popolo entravano tutti, al cineforum organizzato dall’Arci partecipavano tutti; tranne i fasci, naturalmente, ma più per loro scelta. Diciamo che a loro non sarebbe mai venuto in mente di andare a trovare i compagni, se non per fare casino (e viceversa).
Ricordo che guardavo di sottecchi le misteriose stanzette della sede del MSI a piazza Dante (Napoli) mentre aspettavo alla fermata del pullman. Provavo la stessa inquietudine dell’ammazzavampiri davanti alla bara di Dracula. Sulla porta, in alto, la fiamma che usciva dalla bara; di sera tardi un gruppetto in camicia nera faceva un giretto, marciando attorno alla statua di Dante.

Le Case del Popolo erano diffuse soprattutto in Toscana. Si entrava per fare due chiacchiere, per prendere un caffè, discutere di politica, di calcio, del Giro d’Italia o del Tour de France, per passare la serata quando non ci s’aveva di meglio da fare (diciamolo con la lingua del posto).
Si organizzava il Festival o Festa dell’Unità (Grande scampagnata si chiamava la prima, nel 1945, in due comuni lombardi).

Un importante dibattito era avvenuto in una sede siciliana del PCI, o in una Casa del Popolo (non saprei), registrato in Divorzio all’italiana di Pietro Germi.
Il conduttore del dibattito chiede un giudizio sulla signora Cefalù che ha abbandonato il marito Fefè, il grande Marcello Mastroianni (vi sono nomi a cui si dovrebbe sempre far precedere l’aggettivo grande).
Un contadino, che ascolta, tra gli altri, imbronciato, con la coppola calcata sulla testa, sbotta inferocito: «Bottana!», suscitando l’adesione rumorosa degli altri compagni e lasciando di stucco il conduttore settentrionale del dibattito che, nel porre la questione, aveva fatto riferimento all’emancipazione della donna, raggiunta, a suo dire, dai compagni cinesi.
Evidentemente la separazione tra filosovietici e filocinesi non era ancora avvenuta e, se pensiamo ai campi di lavoro e rieducazione dell’epoca, alla “rivoluzione culturale”, all’evoluzione in un moderno capitalismo di stato senza regole e senza limiti, alla tassa sul secondo figlio con conseguenti molteplici aborti, allo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori nella Cina attuale, ci rendiamo conto delle assurdità che i dirigenti comunisti ci propinavano a quei tempi.
Dopo un po’ avrebbero cominciato a circolare i maoisti. Sembravano quasi monaci appartenenti a una setta esoterica: avevano un paradiso lontano come riferimento, un dio sconosciuto e, naturalmente, infallibile.
Che fine avranno fatto? Immagino con quanta nostalgia, ma anche un po’ di imbarazzo e, forse, vergogna, tengano nascosto il libretto rosso, per non essere presi in giro dai nipoti («Nonno, veramente credevi a quegli slogan, a quelle frasi fatte? Come eravate ingenui!»).

Sala piccola, all’antica, questo cinema Cinecittà in via Pisana.
Via Pisana: una lunga strada che, partendo da Scandicci e attraversando la periferia, arriva a Borgo San Frediano, con le sue trattorie, osterie e negozi di artigiani e restauratori: il centro antico di Firenze diladdarno (oltrarno, sponda sinistra), poco visitato dai turisti (tranne sulla direttiva via Guicciardini, palazzo Pitti, Giardino di Boboli).

Come un gatto in tangenziale, di Riccardo Milani. Non conoscevo il regista, tranne per avere evitato, qualche anno fa, un suo film sulla storia assurda e banale di uno che per caso viene eletto Presidente della Repubblica.
Un film con una trama così non lo vedrei neanche se mi pagassero (mi dispiace per Bisio, che, secondo me, dovrebbe scegliere meglio i film: non basta la sua simpatia).
È vero che bisogna prima vedere e poi giudicare, ma ci sono dei limiti e il tempo, soprattutto dello svago, è troppo prezioso per buttarlo in un’impresa disperata.
Però vale sempre il discorso di dare un’altra possibilità ai registi e agli attori; sono andato a vedere l’ultimo film di Riccardo Milani e non me ne sono pentito.
Antonio Albanese interpreta un personaggio gentile, raffinato, educato, tollerante, remissivo, nei confronti della figlia, nei confronti della moglie, nei confronti della madre del ragazzino di cui la figlia è innamorata; cede sempre, con tutti: il meccanico lo guarda con aria di compatimento.
Paola Cortellesi è una coatta coperta di tatuaggi; non si priva dei suoi tacchi altissimi neanche sulla spiaggia ed è pronta a impugnare la mazza da baseball per difendersi attaccando in anticipo, indifferente ai danni che può provocare.
Il personaggio negativo del film sono due: la mamma e la figlia.
La mamma è una fuori dal mondo. Prima dell’impatto con la realtà, quando scopre l’aspetto non folcloristico del quartiere Bastogi, ricorda Enrico Montesano truccato da turista inglese scimunita che ammirava tutto dell’Italia e, di fronte a qualsiasi bruttura, ripeteva: «Molto pittoresco».
È fuori dal mondo per una questione caratteriale, non perché si occupa di essenze estratte dai fiori di erbe aromatiche, come sembra volerci suggerire il film.

L’impatto con la realtà di questa libellula vaporosa, che sembra abituata a vivere su un altro pianeta, crea, nel film, i momenti di maggiore comicità.
La figlia è più realistica: tipico esempio di ragazzina viziata, capace di manipolare il padre remissivo per chiedere e ottenere continuamente denaro senza mai tenere conto della sua opinione, di manipolare la madre che non capisce niente, di mettersi a frignare, o accennare il suo dispiacere e la lacrimuccia se appena il padre si permette di fare un’obiezione a una sua richiesta assurda.
È prontissima a rinfacciare ai genitori i buoni sentimenti che le hanno insegnato, dei quali ha colto e acquisito solo l’ipocrisia, tanto è vero che, dopo essersi passata lo sfizio dell’amoretto con un coetaneo agghindato da guerriero indiano, ritorna al suo ambiente, alla spiaggia di Capalbio e ai rampolli della classe sociale a cui appartiene. Il rapporto con il ragazzino e con l’ambiente del quartiere Bastogi dura come un gatto in tangenziale.
Naturalmente il film è assurdo, ma va bene così, è un film comico e il regista non deve preoccuparsi di rendere realistiche le situazioni. Basta che non voglia ricavarne una morale o lanciare un messaggio, naturalmente populista, che l’altro film, quello del presidente per caso, faceva temere molto probabile, anzi inevitabile.
Nella realtà uno che si avvicina con atteggiamento ingenuo a un mondo difficile e pericoloso, come, nel film, il personaggio interpretato da Albanese, ne esce sicuramente con le ossa rotte.

Trattandosi di un film comico, mancano, giustamente, le ossa rotte, nonostante la presenza di un personaggio, interpretato da Claudio Amendola, specializzato nell’estrazione della milza con le forbici da barbiere.
Il film fa ridere, questo conta. Posso testimoniare che gli spettatori della piccola sala ridevano, perché le battute non sono scontate, gli attori sono bravi e i personaggi divertenti (esilaranti le due gemelle).
C’è un delizioso cameo di Franca Leosini, che si conferma persona garbata e spiritosa.

Se vogliamo approfittare del film, di passaggio, per dire qualcosa sui rapporti fra ragazzi di ceto sociale diverso, possiamo osservare che sono più le cose che li accomunano di quelle che li separano (sono i genitori a vivere in compartimenti non comunicanti tra loro).
Per esempio hanno in comune il controllo assoluto sugli adulti, che si rigirano come gli pare. Non c’è nessun adulto, né nelle famiglie cosiddette bene, né in quelle che si arrangiano per tirare avanti, che sia in grado di dire: «Questo non si fa». Perché? «Perché è pericoloso. Punto».
A tredici anni sono in procinto di trasformarsi negli “sdraiati” di Michele Serra, fingono di ascoltare, ma poi fanno quello che vogliono; dopo abbandonano anche questa finzione: mettono le cuffie nelle orecchie e interrompono la comunicazione.
Cominciano molto presto a vivere come in un mondo a parte, separato da quello degli adulti, un mondo da cui guardano con curiosità quegli strani fantocci pieni di sensi di colpa che si agitano intorno a loro, da cui sanno di non poter imparare nulla della vita, perché li vedono disorientati, persi.
Nel film i due ragazzi subiscono un furto quando vanno alla festa della figlia del commercialista (è più pericoloso il residence del quartiere malfamato); questo è divertente e non lontano dalla realtà.
Probabilmente non si troverebbe una grande differenza se si confrontasse la quantità di droga presente negli ambienti dei due tipi; cambierebbe solo il tipo di droga.

Che il personaggio interpretato da Paola Cortellesi preferisca la spiaggia Coccia di Morto alla spiaggia di Capalbio è, evidentemente, una trovata comica.
Non credo ci voglia molto per capire la differenza tra una discarica a cielo aperto sulla spiaggia e un’oasi di pace; puoi essere coatto quanto vuoi, ma capisci a volo che fare la fila per comprare un gelato in mezzo a una folla urlante e sudata è peggio che partecipare a un party dove ti servono aperitivi su vassoi argentati (ci manca tanto Catalano).