4 aprile 2018 h 18.40
Cineplex Pontedera (PI) – via Tosco Romagnola, 235B

Napoli e dintorni
// Caracas // Mixed by Erry // Il buco in testa // Come prima // Nostalgia // È stata la mano di Dio // Il bambino nascosto // Ariaferma // Qui rido io // Il mare non bagna Napoli (libro) // Il sindaco del rione Sanità // Martin Eden // 5 è il numero perfetto // La paranza dei bambini // Il vizio della speranza // Achille Tarallo // Cinema Moderno (articolo) // Una festa esagerata // Napoli velata //

Umorismo (fa bene ridere)
// Romeo è Giulietta // La Primavera della mia vita // Il discorso perfetto // Una famiglia mostruosa // Mandibules // Odio l’estate // Jojo Rabbit // Tolo Tolo // Il colpo del cane // Stan & Ollie // Moschettieri del re // Il Grinch // Achille Tarallo // L’incredibile viaggio del fachiro // Favola // Una festa esagerata // Metti la nonna nel freezer // Come un gatto in tangenziale // The Disaster Artist // C’est la vie: prendila come viene //

«Quant’è bellə stu cielə, quant’è bellə stu marə.
Tutt’attuornə mə parə ch’è turnat’a giuventù.
E chest’ari‘e ciardinə, comm’è fresch’e gentilə.
A guardà chistu solə tə sientə int’e vvénə o piacər’e campà …»

Il simbolo ə designa la vocale centrale media caratteristica del napoletano, come in mammətə = tua madre (vedi nota in fondo al commento al film Achille Tarallo, regia di Antonio Capuano).
Notare che nella lingua napoletana la i di ciélə si pronuncia, la e che la segue è chiusa: /e/; in italiano, invece, la i di cielo non si pronuncia in quanto serve solo a indicare che la e successiva è aperta: /ɛ/

In napoletano /tƒielə/; in italiano /tƒɛlo/

«Com’è bello questo cielo, com’è bello questo mare.
Tutt’intorno mi pare: è tornata la gioventù.
E quest’aria di giardino, com’è fresca e gentile.
Guardando il sole senti scorrere nelle vene il piacere di vivere …»

Sono versi di una canzone di Peppino De Filippo (Paese mio, 1966); rappresentano bene il sentimento di fondo del modo di essere che viene chiamato napoletanità: la grande gioia di vivere.
Lo spirito napoletano è questo: una voglia enorme, senza limiti, di godere della vita – nonostante i problemi, i guai, le avversità, nonostante la cattiveria, degli altri e anche – ma sì! – quella che abbiamo dentro e cerchiamo di tenere sotto controllo, non sempre riuscendovi.
Perché è facile essere buoni, se si è angeli o santi. Difficile è far venire fuori sempre la parte migliore di se stessi.
Il napoletano sa che non c’è limite al peggio e l’esperienza gli ha insegnato che la storia non è maestra di vita: si rifanno continuamente gli stessi errori.
Dunque: guardiamo al presente e godiamoci questa bella giornata di sole.

Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem quam minimum credula postero».
(Orazio; Odi 1.11)
«Mentre parliamo, fuggirà il tempo invidioso: carpe diem, cogli l’attimo (come si coglie un fiore), con la minore fiducia possibile nel domani».

I De Filippo hanno rappresentato, con la loro arte, la napoletanità in tutti i suoi aspetti; ora che se n’è andato anche Luigi, figlio di Peppino, il 31 marzo 2018 (Luca, figlio di Eduardo, è morto il 27 novembre 2015), ci rendiamo conto ancora una volta di avere smarrito, negli ultimi tempi, la spensierata gioia di vivere trasmessa da artisti capaci di farci ridere anche raccontando i bombardamenti. Qui il riferimento specifico, uno dei tanti possibili, è a Napoli milionaria di Eduardo De Filippo.

Riuscivano a far ridere quelli che avevano i bombardamenti stampati nella memoria, riescono a far ridere noi che i bombardamenti, per nostra fortuna, li abbiamo visti solo al cinema, nei film, e in televisione, nelle cronache di guerre lontane. Però anche noi, a parte la solidarietà nei confronti di povera gente costretta a scappare dalla guerra, abbiamo vissuto e viviamo i disastri causati dalla stupidità umana: fanatismo religioso (talebani e affini), fanatismo ideologico (brigate rosse e nere), fanatismo economico (finanza di rapina).

Eduardo De Filippo era stato influenzato in gioventù dall’apprezzamento di Luigi Pirandello; a volte, come autore, usciva dai confini, larghi, ma limitati, della tradizione teatrale partenopea, con risultati discutibili (mi riferisco ad alcune commedie a tesi).
Quando rientrava nella sua zona d’elezione era imbattibile, un vero campione; basti pensare alla riproposizione delle commedie di Eduardo Scarpetta, a Napoli milionaria, a Questi fantasmi e a tante altre opere del Teatro di Eduardo.
Peppino era più semplice, gli bastava essere un grande attore e autore della tradizione napoletana.
Faceva di tutto: la spalla – e che spalla! – di Totò, la televisione, ma anche, in teatro, Molière, Il guardiano di Harold Pinter, le vecchie farse, molto vicine alla commedia dell’arte.
Di Titina si sa di meno, perché, purtroppo, si ammalò, dovette uscire di scena, morì presto.
Vedendo un vecchio filmato in cui interpreta Filumena Marturano, si ha un’idea della magia che, come molti hanno raccontato, questa attrice era capace di evocare sul palcoscenico.
I due figli, Luca di Eduardo e Luigi di Peppino, avevano avuto il merito di prendere il testimone dai grandi genitori.

Che cosa è rimasto?

A Napoli ci sono più attori che hanno recitato con Eduardo che attori.
Molti dichiarano di avere lavorato con il maestro, anche se in realtà dicevano una o due battute (tipo: «Va buó, o ccafè ce lo andiamo a prendere al bar»).
In ogni lavoro ci sono gli esordi e non tutti i musicisti hanno cominciato come Mozart; si potrebbe dire: ho fatto qualcosa agli inizi con la compagnia di Eduardo, ma il lavoro vero è cominciato in televisione. Invece preferiscono dire: vengo dal teatro di Eduardo.

Vincenzo Salemme la sua gavetta sotto la guida di Eduardo l’ha fatta veramente, ha interpretato ruoli importanti e ha proseguito con Luca de Filippo e poi con una compagnia propria.
È autore di teatro, non sempre felicissimo, ma la sua … e fuori nevica è un bell’esempio di teatro napoletano contemporaneo.
Lo vediamo al cinema come regista e attore, con risultati alterni; ogni tanto lo vediamo in televisione, ma non ha mai lasciato il teatro, nel quale esprime pienamente le sue capacità: la recitazione naturale (la scuola di Eduardo), l’improvvisazione – una qualità tutta sua, perché Eduardo era molto rigoroso su questo punto, non accettava invenzioni estemporanee (solo lui poteva improvvisare o allungare le sue famose pause), esigeva che gli attori interpretassero la parte con esattezza.

In questo film ripropone la commedia classica (è tratto da un suo lavoro teatrale), non tanto commedia degli equivoci quanto dei contrasti (l’essere e l’apparire, la realtà e i desideri), in cui tutto è basato sulla precisione dei caratteri (quasi maschere) e dei tempi comici, sull’impressione, che gli attori riescono a trasmettere, di stare improvvisando in quel momento le battute davanti a noi, anche se siamo in un film.
Questo risultato si ottiene per la bravura degli attori e di chi li dirige. Il film è godibilissimo: un divertimento esagerato, usando l’aggettivo allo stesso modo del titolo, nel modo tipico del linguaggio partenopeo, che amplifica oltre ogni dire il significato del sostantivo. Divertimento esagerato non vuol dire eccessivo, vuol dire enorme (ma esagerato ci piace di più). Festa esagerata gioca su più significati: eccessiva, fuori dalle regole, ma anche, con tono ironico, grande festa, come la vorrebbero la madre e la figlia, che poi si risolve in una situazione tutt’altro che festosa.

Il commento potrebbe finire qui: commedia napoletana, battute in continuazione, bravi attori, personaggi ben disegnati, ma poi si arriva alla conclusione, con l’invenzione assurda dell’ingegnere, “no, prego, geometra”, che, con la complicità della cameriera, addormenta con forti dosi di sonnifero nel caffè la moglie, la figlia e gli altri e se ne va a vivere felice su una barca in mezzo al mare.
Fino a questa svolta, con tutta l’esagerazione delle situazioni, si manteneva una coerenza di fondo nei caratteri dei personaggi, essenziale in questo tipo di commedia.
Nell’ultima parte i caratteri si sconvolgono, diventano irriconoscibili: la pazza del piano di sotto non è più pazza (si stenta a credere che sia la stessa persona); il “secondino”, diventato portiere “uanime” (chi ha visto il film capisce il gioco di parole) è seduto sulla poltrona insieme ai coinquilini e mangia il babà; il vecchio avverte l’esigenza di confessare l’imbroglio a quella specie di prete e fa ascoltare la confessione alla cameriera grassa, la quale diventa complice dell’ingegnere, “prego, geometra”, per uno scherzo molto pericoloso.
Il geometra rivela un carattere completamente diverso, non più da vittima predestinata ma risoluto e determinato, dopo essere uscito dal coma – o il coma era finto? Non si è capito. Possibile fosse finto? Si può fingere il coma? I medici che dicono? Anche in una commedia ci vuole una verosimiglianza di fondo delle situazioni, ma, soprattutto, i personaggi devono essere coerenti fino alla fine. In questo tipo di commedia devono essere quasi maschere.
È strano che solo dopo essere uscito dal coma (forse finto, ma non sappiamo) il geometra capisca che l’unica soluzione è abbandonare moglie e figlia e andarsene a vivere su una barca in mezzo al mare.

Non conosco il lavoro teatrale, ma nel cinema le conclusioni forzate non funzionano e lasciano l’amaro in bocca alla fine di un film, come dicevo, per buona parte assai divertente.