23 settembre 2024 h 16.15
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r
Neorealismo (vecchio e nuovo)
// Vermiglio // Palazzina Laf // C’è ancora domani // Kafka a Teheran // Profeti // Gli orsi non esistono // Il male non esiste // Un eroe // Ladri di biciclette // Il vizio della speranza // Cosa dirà la gente
“Vermiglio”, regia di Maura Delpero.
Piove che Dio la manda in tutto il tragitto in treno fino a Firenze Rifredi. Poi nel tratto di strada dalla stazione al cinema.
Film di qualità: brava la regista, bravi gli attori, bella la scenografia, curati e credibili i dialoghi, teneri i bambini, numerosi, come erano numerosi nel luogo e nel tempo (la Val di Sole e l’ultimo anno della seconda guerra mondiale) in cui si svolge la vicenda narrata. La trama è semplice, come nei classici del neorealismo.
Alcuni attori “presi dalla strada” (come si diceva una volta) insieme a grandi professionisti, i bravi Tommaso Ragno, Carlotta Gamba, Sara Serraiocco e altri a reggere i primi piani. Due ore di dialetto trentino stretto (a me particolarmente caro) con i sottotitoli. Ottima scelta; il doppiaggio in italiano avrebbe rovinato tutto.
Storia triste in una giornata piovosa.
Malinconici lettoni in cui dormivano in tre organizzandosi tra testa e piedi e, probabilmente, di notte sentendosi soffocare.
La miseria è allegra solo nelle favole; nella realtà è triste. C’è poco da stare allegri se l’acqua è poca «e la papera non galleggia» (come si dice a Napoli), se i servizi igienici sono approssimativi, mancano le comodità che ora ci sembrano indispensabili. Fanno venire i brividi le mani della ragazza che, in quell’ambiente rigido, lava i panni nella vasca comune, all’aperto.
Solo chi non conosce le sofferenze da cui ci ha liberati la scoperta di Louis Pasteur può avere nostalgia del latte appena munto. Nel 1944 – ’45 si utilizzava da tempo la pastorizzazione del latte, ma nelle realtà rurali la scienza e la tecnica arrivavano con grande ritardo.
All’arretratezza, alle conseguenze di una guerra disastrosa, si sommavano le tradizioni, tra le quali soprattutto il patriarcato: ”Dio, patria e famiglia”.
La patria si era alleata con le bestie naziste, facendoci vergognare; la religione e la famiglia erano complici nel mantenimento di una monarchia assoluta in quasi ogni nucleo familiare.
Fioretti, mortificazione del corpo, capofamiglia severo, ancorato ai suoi dogmi, al “diritto” di avere e mostrare preferenze tra i figli. «Questa mi assomiglia, è intelligente come me e potrà continuare gli studi; questa ha buona volontà ma non ha capacità: dovrà fermarsi; il maschio più grande è neghittoso e ribelle: bisogna umiliarlo». Il re partiva sempre dall’idea che il più intelligente era lui.
Era irresponsabile: comprava i dischi di musica classica, allora molto costosi, mentre la povera consorte tirava la cinghia per dare il necessario alla numerosa prole; versava il seme nella moglie dopo essersi eccitato con le immagini delle ballerine, disinteressandosi delle conseguenze, anche fisiche sul corpo della povera donna, dopo dieci figli ridotta uno straccio. Nella piccola borghesia e nel proletariato la schiavitù diventava una condizione naturale: le donne l’accettavano, gli uomini la pretendevano dalle mogli e dalle madri, sempre sul filo del ricatto affettivo.
Un film ben realizzato, ma triste, com’era triste la vita in quei luoghi, in quei tempi, non solo per colpa della guerra.
All’uscita dal cinema, attraversando piazza Dalmazia sotto una pioggia fitta fitta, mi domando: perché mai nessuno fa film divertenti? Per quale motivo i registi vogliono investirci con i loro messaggi? L’ultimo film divertente visto al cinema è C’est la vie di Nakache e Toledano, con il compianto Jean-Pierre Bacri, ma risale a molto prima della pandemia.