11 settembre 2024 h 16.15
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r
Altro film del regista: // Un affare di famiglia //
Giappone: non solo manga o anime
// L’innocenza (Kore’eda Hirokazu) // Il ragazzo e l’airone // Penguin Highway // True mothers // Drive my car // 5 è il numero perfetto (nel commento: Quaderni giapponesi di Igort) // Mirai // Un affare di famiglia (Kore’eda Hirokazu) // Mr Long (attore cinese, ambientazione giapponese) // L’isola dei cani (regista americano, ambientazione giapponese) //
Scuola
// L’innocenza // La sala professori // Next Sohee // Educazione fisica // Close // Arrivederci Professore //
“L’innocenza”, regia di Kore’eda Hirokazu.
Guardare un film può essere un’esperienza emotiva. Anche leggere un romanzo può essere un’esperienza emotiva, ma i film hanno dalla loro parte una maggiore facilità di fruizione: si fanno strada anche nel popolo incolto a cui appartengo. Per leggere in modo proficuo è necessario possedere alcuni strumenti evoluti e disporre di costanza e di tempo. Per godere di un capolavoro cinematografico basta entrare in un cinema e prestare attenzione allo schermo per un paio d’ore. Non è la stessa cosa guardarlo in televisione. Secondo me questa esperienza – straniante rispetto alla solita vita – si fa male stando distesi in poltrona o a letto, con il telecomando e il cellulare a portata di mano, il frigorifero nel proprio raggio di azione e il citofono pronto a squillare.
È necessario il grande schermo per un’esperienza che deve riempirti la vista (un po’ anche la vita) in un tempo limitato da spendere fuori della normale routine.
È necessario il rito. A me piace il viaggio in treno, la passeggiata che precede e segue il film; prima di entrare in sala mi piace prendere un caffè e, se possibile, tirare alcune boccate di fumo da un mezzo sigaro toscano.
È necessaria la scomodità delle poltroncine, che non sono quelle di casa, non fanno tutt’uno con il fondoschiena. Sono le tipiche poltroncine da sala cinematografica: ci consentono di allungare le gambe se siamo seduti a metà della sala, nell’ultima fila del primo gruppo, ma non ci consentono di distenderci completamente.
È necessario il fastidio causato dalla vicinanza dei nostri simili: fratelli e sorelle sconosciute, figli, madri e padri estranei. Gli appartenenti alla specie homo sapiens sono fastidiosi. I gatti possono restare immobili per ore senza fare nulla, senza dormire, facendosi scorrere la vita addosso. Noi no. Noi paghiamo il prezzo della civiltà, che ci impone di porci obiettivi ogni momento, di rivestirci, truccarci, lavarci, nascondere gli effluvi naturali e essere perennemente in movimento, anche quando siamo fermi. I cani, che molti costringono a vivere come noi, quando si incontrano ritrovano la loro natura genuina: si annusano, scodinzolano o si minacciano. Noi siamo ben educati e mascheriamo le nostre reazioni alla presenza degli altri. Nascondiamo il fastidio se gli spettatori decidono di interrompere la dieta e masticano con soddisfazione biscottini e popcorn mentre guardano il film. Comunque è vita: meglio dell’isolamento davanti allo schermo di un televisore, di un computer, di uno smartphone e in compagnia di poche persone selezionate. Una volta non si stava mai soli: quando si usciva dalla famiglia ristretta, che comprendeva molte persone, ci si trovava nella famiglia larga, costituita da zii, cugini, amici, abitanti del quartiere, della via, del paese. Ora le famiglie, quando ci sono, sono l’estensione a due, tre persone della condizione di solitudine.
Onestamente non saprei dire se la vita nelle tribù di una volta fosse migliore della vita solitaria di oggi. Era un modo di vivere diverso, si era sottoposti all’attenzione, all’affetto, ma anche al controllo degli altri.
Nel cinema Flora in piazza Dalmazia, dove ho visto L’innocenza di Kore’eda Hirokazu, io e una coppia sconosciuta di anziani eravamo vicini nella sala semivuota, nelle posizioni centrali della fila che consente di allungare le gambe. Gli altri spettatori (in tutto sette) si sono raggruppati là intorno. La signora, munita di ventaglio, era seduta accanto a me; il ventaglio era dovuto al caldo soffocante che ci ha oppresso in questa coda di estate, prima dell’improvviso precipitare delle temperature negli ultimi giorni. Il probabile marito della signora, nella poltrona successiva, si è addormentato quasi subito. Succede a tutti i vecchi, raramente al cinema.
La signora non lo ha svegliato (forse sapeva che era inutile) e per buona parte del film ho sentito come sottofondo il respiro profondo che mi ha riportato alle tante serate vissute nell’adolescenza con le voci dei personaggi televisivi e le canzoni mescolate al respiro rumoroso di mio padre. Succedeva ogni sera: dopo una giornata di lavoro che comprendeva andata e ritorno da Caserta (una trentina di kilometri), mio padre, pur non essendo allora tanto vecchio, era troppo stanco per andare oltre i primi minuti di qualunque spettacolo televisivo. Avrei quasi voluto ringraziare per questo ricordo e rassicurare la signora che sventagliava un po’ imbarazzata: il respiro, un leggero russare, del marito non mi dava alcun fastidio. Forse l’imbarazzo era nella mia immaginazione.
Dopo un po’ il vecchietto (lo chiamo così per simpatia) si è svegliato, è andato in bagno, è tornato al suo posto e ha seguito con attenzione la parte rimanente del film.
Alla fine, durante la breve conversazione tra i sette spettatori desiderosi di scambiarsi le impressioni e le opinioni (succede spesso: oramai siamo una specie in via di estinzione e ci guardiamo con affetto), il vecchietto ha detto cose interessanti, ha rivelato una competenza da cinefilo.
Ero stato il primo ad avviare la conversazione; gli spettatori tendono a raggrupparsi e quando si accendono le luci di solito chiedo ad alta voce, guardando un po’ tutti: vi è piaciuto? Sempre qualcuno comincia a dire la sua, a esprimere dubbi, a cercare di spiegare. Avevo bisogno di un aiuto alla riflessione. Arrivato a casa ho acceso il computer e raggiunto “Volevo Essere Jo March” su facebook. Seguo questo profilo perché mi piace il modo di scrivere di Federica Velonà e perché mi aggiorna su ciò che è uscito di interessante in libreria (quando giro alla Feltrinelli o nella libreria Il Libraccio mi perdo tra le novità). Ho trovato il post di Federica Velonà sul film e l’ho condiviso nel gruppo Cinema. Qui in fondo ho riportato il commento che ho inviato d’impulso e la risposta di Federica Velonà (commento e risposta si trovano anche sul suo profilo).
Qualcuno dirà: solo sette spettatori?
Eppure stiamo parlando dell’opera di un maestro del cinema contemporaneo riconosciuto a livello mondiale (non cito i premi; sono tanti).
Chi ha perso “Un affare di famiglia” (2018) di Kore’eda Hirokazu lo vada a cercare su qualunque piattaforma. È un film fondamentale.
Riguarda il rapporto tra una famiglia non tradizionale e lo stato.
Anche in L’innocenza (titolo originale giapponese: “Mostro”) c’è il rapporto tra una famiglia e un’istituzione. La famiglia è costituita da due persone: Saori, giovane madre lavoratrice che cresce il figlio da sola perché il padre del bambino è defunto, e Minato, il bambino che ha circa dieci anni e frequenta la quinta elementare.
Saori sembra una buona madre: sollecita, affettuosa ma non ossessiva. Simpatica.
Nonostante ci sia dialogo tra madre e figlio, il bambino non si apre quando avverte un forte turbamento che gli fa paura. Lo manifesta con il comportamento, ma è difficile tirargli fuori una spiegazione, anche solo il racconto di ciò che gli si agita dentro.
La madre si convince che il maestro Hori abbia preso di mira il ragazzo, non si sa per quale motivo. Va a scuola a parlare con la preside e i suoi collaboratori.
C’è il confronto tra una famiglia (costituita da due persone) e una istituzione, la scuola.
La preside Makiko Fushimi ama la scuola (lo vediamo da alcuni dettagli), ma non crede al dovere di dire la verità, sia nelle vicende personali che nelle vicende scolastiche, di cui si occupa d’ufficio, con un atteggiamento burocratico. È scostante e impassibile, poi cambia. Tutti i personaggi sono fatti in un modo per una parte del film, poi cambiano; o, meglio: cambia il punto di vista da cui il regista ce li fa vedere.
Il maestro Hori è un giovane appassionato del suo lavoro, ma agisce d’impulso. Le sue reazioni aggraveranno una situazione spiacevole in cui si troverà senza colpe.
Un altro personaggio importante è Yori, un bambino che sembra più piccolo degli altri (mi sono chiesto per tutto il film come mai sia stato inserito in quella classe; ma forse in Giappone funzionano le classi aperte, che non ho mai sopportato perché riducono la possibilità di agire sul rapporto tra gli alunni).
Yori è un bambino delicato, sensibile, privo di madre e perseguitato dal padre che teme i segni delle sue tendenze sessuali. Arriva a dirgli «Hai il cervello di un maiale». Il povero Yori, dipendente da quell’uomo ottuso, ci crede.
Per inciso: Kore’eda Hirokazu ha una straordinaria capacità di dirigere i bambini. In ogni film ci sono bambini che recitano in un modo che a me sembra miracoloso. Nel film francese del regista – “Le verità”, con Catherine Deneuve e Juliette Binoche – la conclusione è affidata a una bambina che chiede: «Ma è la verità oppure no?».
Per inciso: in questo film il regista dimostra di saper dirigere anche un’attrice anziana e importante come Catherine Deneuve, che interpreta quasi se stessa o una se stessa un po’ smarrita e incattivita. Grande interpretazione! Altro film che bisogna vedere, accontentandosi del computer o dello schermo televisivo.
Torniamo a “L’innocenza”. Nella classe di Minato c’è Il gruppetto dei bulli, contro i quali nessuno fa qualcosa, nessuno li accusa, li frena, li punisce.
I colleghi del maestro Hori sono pronti a stendersi come tappetini davanti alla preside e ai genitori.
All’inizio ci sembra (giudichiamo con gli occhi della madre) che il maestro perseguiti Minato. La madre riesce a ottenere dalla scuola solo le scuse umilianti del maestro. Nella prima parte le cose sembrano chiare; nella seconda si capovolgono, ripercorrendo la storia a partire da un incendio e mostrando un altro punto di vista. Nella terza parte si ricomincia dall’incendio con un terzo punto di vista.
La realtà, che avevamo interpretato in un certo modo, si può interpretare in modi completamente diversi, tutti legittimi.
Kore’eda Hirokazu ci fa uno scherzo: ci mostra quanto siamo stupidi, come siamo pronti a giudicare, fino ad accusare con convinzione e a farci strumenti delle accuse degli altri.
Tutti gli inchini giapponesi – ma anche noi ci inchiniamo in continuazione, anche se non fisicamente – della preside, del vicepreside e degli altri insegnanti servono solo a nascondere la verità.
In un momento chiave la preside aiuta il ragazzino a superare il turbamento con l’accoglienza serena (come una nonna) e una semplice frase: la sofferenza dev’essere soffiata via come si soffia l’aria in un trombone. Che significa?
Alla fine siamo usciti dalla sala con molti dubbi, soprattutto riguardo alla conclusione. Un giovane maestro, tra gli spettatori, ha dato la spiegazione più convincente: il regista lascia a noi, a ciascuno di noi, la soluzione. Kore’eda Hirokazu dice: vedetevela voi.
Commento inviato al profilo di Federica Velonà su facebook (Volevo essere Jo March).
“D’accordo su tutto, ma non sulla preside. Se ho capito bene (questo film richiede molta attenzione e non dà risposte scontate) la preside non crede nella verità, dunque può consentire che il marito si accusi al posto suo, che il maestro Hori si scusi in modo plateale per colpe che non ha commesso. È vero che prende a cuore Minato in un momento in cui il bambino è in crisi, però gli insegna a lanciare fuori la sofferenza (la verità) come si soffia l’aria nella tromba. Se avesse consentito al maestro di spiegare la sua verità, forse sarebbero arrivati a trovare la soluzione. Invece la preside e i suoi collaboratori offrono alla madre solo le scuse del maestro, non un aiuto a comprendere i problemi del figlio. È anche vero che in quel momento il maestro Hori avrebbe accusato ingiustamente il bambino. Forse è questo che Kore’eda vuole dirci: la verità non esiste. In questo senso la preside è un personaggio positivo, perché riflette il tema del film. Ma noi condividiamo quest’idea?
Forse le accuse alla preside sono il punto di vista di alcuni pettegoli, come l’accusa al maestro di essersi trovato in quei bagni compromettenti dell’edificio in fiamme. Per inciso: pare che fare il maestro in Giappone sia molto difficile (più che da noi). Anche fare il bambino. (Scusa della lunghezza, ma sono uscito dal cinema e tu sai che questo film scava dentro di noi, come tutti i film di Kore’eda Hirokazu).”
Risposta di Federica Velonà (Volevo essere Jo March) sul suo profilo
“La preside mi è piaciuta perché è un personaggio sorprendente (all’inizio odiosa, poi ancora di più, poi quasi umana) comunque difficile da decifrare e molto giapponese. Concordo con te sulla durezza di insegnare in Giappone!”