
18 ottobre 2022 h 18.45
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r
Temi
Neorealismo (vecchio e nuovo)
// Vermiglio // Palazzina Laf // C’è ancora domani // Kafka a Teheran // Profeti // Gli orsi non esistono // Il male non esiste // Un eroe // Ladri di biciclette // Il vizio della speranza // Cosa dirà la gente
Religioni e/o superstizioni
// Il seme del fico sacro (Islam) // Il mio giardino persiano (Islam) // The Miracle Club // C’è ancora domani (il matrimonio cattolico) // Kafka a Teheran (Islam) // Rapito (Il Papa Re) // Benedetta (Cattolicesimo) // Holy Spider (Islam) // Profeti (Islam) // Chiara (Cattolicesimo) // Gli orsi non esistono (Islam) // Alla vita (Ebraismo ortodosso) // Il male non esiste (Islam) // Un eroe (Islam) // The Youngest (Ebraismo ortodosso) // Covered up (Ebraismo ortodosso) // Corpus Christi (Cattolicesimo) // Un divano a Tunisi (Islam e psicanalisi) // The dead don’t die (nel commento: fede e dubbio) // Mug Un’altra vita (Cattolicesimo polacco) // Il settimo sigillo (il silenzio di Dio) // L’apparizione (Cattolicesimo) // Cosa dirà la gente (Islam) // Io c’è (religione e denaro) // The Young Pope (Cattolicesimo) //
“Gli orsi non esistono”, regia di Jafar Panahi.
Mahsa Amini, 22 anni, fu arrestata dalla polizia religiosa a Teheran perché il velo lasciava scoperti i capelli.
Picchiata violentemente dai custodi della morale, rimase in coma per tre giorni. Morì il 16 settembre 2022.
Dopo questo tremendo episodio si sono seguite numerose manifestazioni, soprattutto delle giovani, contro l’ottuso regime dei mullah.
Molte ragazze spontaneamente si riunivano in strada, bruciavano il simbolo dell’oppressione, il cencio con il quale sono obbligate ad andare in giro, si tagliavano una ciocca di capelli in segno di protesta. Tutto il contrario di quelle giovani che – vivendo in un paese libero (l’Italia, la Francia, la Germania) – partecipano alle manifestazioni pro Palestina coprendosi la testa con il cencio medioevale (espressione usata da Oriana Fallaci nella famosa intervista a Khomeini). È come se i neri americani, ai tempi di Martin Luther King o di Malcolm X, partecipassero ai cortei vestiti da schiavi e con le catene ben in vista, rivendicate come tratto culturale tradizionale (“We shall overcome with chains”, Noi trionferemo con le catene) o come scelta religiosa.
Sia chiaro: se è una scelta religiosa o una scelta estetica libera, nulla da obiettare.
Però non credo sia giusto dimenticare che tante (o poche, non importa) giovani iraniane e di altri paesi sono obbligate a indossare quel cencio medioevale; ripeto l’espressione perché mi fa molto ridere, mi ricorda l’intervista di Oriana Fallaci a Khomeini:
”… … … … …
Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo. «La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador?».
E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante.
«Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»
Prego? Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo.
«Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene».
Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno.
«Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo».
E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero.
Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.” (Oriana Fallaci – Corriere della Sera, 26 settembre 1979).
L’obbligo di nascondere i capelli dev’essere stato inventato da gente in precarie condizioni psichiche, affetta da gravi squilibri mentali.
I capi religiosi, i “bruti con la barba”, sono feticisti dei capelli? Può darsi.
Temono di essere abbandonati dalla figura materna, se la mamma è libera, istruita e padrona del proprio corpo? È certo.
Questi vecchi mullah e i loro giovani picchiatori sono bambini impauriti: picchiano con durezza perché hanno paura.
Se non fossero violenti farebbero pena.
Vittime degli ottusi sacerdoti, oltre alle donne, sono gli artisti.
L’opera di Jafar Panahi, attore, sceneggiatore e regista, allievo di Abbas Kiarostami, ha meritato riconoscimenti nei più importanti festival internazionali.
Nel 2010 fu condannato, in un sistema che ignora la separazione dei poteri, a non produrre, scrivere o girare film per venti anni; inoltre gli fu vietato rilasciare interviste o recarsi all’estero.
Contravvenne all’imposizione di non lavorare ma non fuggì dall’Iran, come hanno fatto altri artisti ugualmente perseguitati.
È passato più volte dal carcere alla libertà provvisoria, agli arresti domiciliari, poi ancora al carcere, poi ancora alla libertà vigilata dagli ottusi sacerdoti e dai loro sgherri.
È legittimo chiedersi come riescano, i registi controllati dal regime, ad aggirare i blocchi, a realizzare i film e a farli uscire dall’Iran.
C’è una vasta rete di dissidenti che lavorano nell’ombra, in attesa di poter uscire allo scoperto. Solo i più coraggiosi e i più famosi si espongono. La fama acquisita all’estero, soprattutto in Europa, in qualche modo li protegge, impedisce che la loro condizione degeneri.
I film viaggiano su chiavette elettroniche USB che passano di mano in mano, su hard disk mimetizzati, nascosti tra i bagagli di collaboratori che sono riusciti a non farsi individuare. Viaggiano via internet, nonostante il regime blocchi i collegamenti, attraversano il confine con la Turchia, da cui è più facile far proseguire il viaggio.
All’inizio del film Jafar Panahi mostra come si può aggirare la censura, come si possono scavalcare i divieti.
Riprendendo un’idea che gira da molto tempo nel cinema, espressa in vari modi, presente in “Otto e mezzo” di Federico Fellini, ci fa vedere alcune scene del film che sta girando e le difficoltà che incontra per dirigere le riprese. Per Fellini il problema era la crisi di ispirazione di un regista che vive in una società protesa verso la modernità. Per Panahi l’ispirazione c’è ed è forte, dettata dalla durezza e dall’arretratezza della realtà che lo circonda. Purtroppo la società iraniana è immersa dentro a una cattiva mescolanza, dentro a una discrasia, tra l’immobilismo forzato e l’evoluzione del mondo, in cui l’idea di libertà si diffonde, portata avanti dalla facilità delle comunicazioni e dalla conseguente globalizzazione.
Non solo le merci viaggiano da un paese all’altro, da un continente all’altro, con una velocità inimmaginabile in un passato recente; anche le idee viaggiano.
Per molti di noi, tra i quali sono certamente la maggioranza degli ucraini, la libertà è più importante della sopravvivenza, la vita da schiavi non merita di essere vissuta.
“Primum vivere, deinde philosofari” può servire a tracciare una scala degli impegni, soprattutto politici, ma solo a patto che le condizioni minime di libertà siano garantite. Il damerino che disse «Mio nonno, durante il fascismo, ebbe un’infanzia felice» avrebbe dovuto aggiungere: «Felice come la vita del cane legato alla catena».
Nelle prime inquadrature, e più volte nel corso del film, il regista ci mostra come si riesce a girare le scene in condizioni quasi impossibili.
La troupe si trova in Turchia, poco oltre il confine con l’Iran; Panahi si porta in un villaggio, in Iran, vicino al confine. Dal villaggio segue le riprese su un computer portatile, collegato via internet, e dà le indicazioni all’aiuto regista, che è sul posto, ai tecnici, agli attori.
Il problema è la connessione: va e viene.
Non è l’unico problema.
Nel villaggio comandano gli uomini. Si vedono solo uomini entrare e uscire dalle case di pietra: uomini e una vecchia addetta alla cucina.
Le donne giovani e le adulte, coperte dai veli, sono trasparenti.
Gli uomini si scambiano visite, si occupano di affari, si incontrano, sempre mantenendo un atteggiamento cerimonioso e ipocrita.
«Ti offro un tè, spero che ti trovi bene, mio signore, scusa se ti disturbo», ma dietro alle frasi di rito aleggia la minaccia: «O fai come diciamo noi capi del villaggio, o sono guai».
Non è solo la religione a determinare questa situazione di oppressione tenuta in sordina ma ben evidente, non è solo il regime degli ottusi sacerdoti. È principalmente la tradizione arcaica che regola la vita nel villaggio.
Gli ottusi sacerdoti fondano il loro potere su una interpretazione dei cosiddetti “testi sacri” – su cui detengono l’esclusiva – e sulla tradizione.
Agendo su questo doppio binario si assicurano l’appoggio degli uomini, soprattutto dei più ottusi, e di quelli che, come loro, sono affetti da gravi turbe psichiche irrisolte.
I sacerdoti sfruttano e rinforzano la tradizione.
Nei villaggi sperduti nulla è cambiato, da secoli. La tradizione, rinforzata dal regime, non si è potuta evolvere; la società non è riuscita a superarla. In mancanza della libertà le regole di convivenza sono rimaste le stesse di tempi remoti.
Il destino della donna è deciso alla nascita, tramite l’affidamento del cordone ombelicale della neonata alla famiglia (al padre) del maschio che la prenderà in moglie.
Tutto è deciso dal padre; se capita che la ragazza, una volta divenuta adolescente, si innamori di un altro uomo, di uno studente che è dovuto fuggire da Teheran perché implicato nei movimenti che si oppongono al regime, questa è una tragedia, un affronto per il promesso sposo. La ragazza è proprietà sua, gli è stata promessa alla nascita e non può sottrarsi al destino deciso dalla tradizione. Se ci prova sono guai, per lei e per il suo innamorato.
Panahi scatta fotografie del villaggio e dei suoi abitanti. È il suo lavoro di regista, la sua vocazione di osservatore attento dei luoghi e dei costumi.
Tra le fotografie, casualmente, ce n’è una che dimostra il legame nascosto della sfortunata ragazza, promessa sposa alla nascita e innamorata di un altro.
I capi del villaggio e gli altri vecchi che certamente tengono segregate in casa le “mogli schiave” consentite dalla legge e dalla religione, pretendono che il regista consegni la prova del comportamento dei due ragazzi, per punirli. Jafar Panahi non se la può cavare cancellando la fotografia e affermando che non esiste.
I contrasti montano fino a una conclusione sanguinosa.
Nello stesso tempo si svolge il dramma raccontato dal regista nel film che sta girando, con l’aiuto dei suoi collaboratori, nella città turca poco oltre il confine.
Un uomo e una donna, rifugiati in Turchia dopo essere stati imprigionati e torturati in Iran, sono alla ricerca di un passaporto falso che consenta loro di scappare in Europa, di raggiungere la libertà. Purtroppo riescono a trovare solo il passaporto necessario alla donna; di conseguenza i due dovrebbero separarsi. La donna non vuole partire da sola, non vuole abbandonare il suo uomo che ha bisogno di lei. Gli attori sono (apparentemente) presi dalla strada per interpretare se stessi, come nel neorealismo italiano, molto apprezzato dal regista.
Vediamo per scene successive: il dramma rappresentato nel film girato in Turchia, il dramma degli attori che interpretano i personaggi del film, la vita del vero Jafar Panahi nel villaggio al confine con la Turchia da cui dirige il film via internet e per telefono, con l’aiuto dei collaboratori.
In questa situazione asfissiante di oppressione esercitata dalla religione, dalla tradizione, dai capi villaggio, dai sacerdoti e dai loro picchiatori, gli unici liberi sono i contrabbandieri che sfrecciano nelle macchine potenti, armati di tutto punto, e controllano i traffici sul confine: merci, armi, passaporti rubati e contraffatti.
Le eroiche ragazze che manifestano non hanno armi per difendersi dalle violenze, per organizzarsi e avviare un movimento che porti alla caduta del regime.
Solo una cosa non capisco: nel film Jafar Panahi ha l’occasione di trovarsi sul confine tra Iran e Turchia. Attraversando quel confine potrebbe dirigere personalmente il film e fare un passo verso il mondo libero: andare via dalla Turchia è più facile che fuggire dall’Iran.
Non capisco l’esitazione di Panahi, il sentimento che lo spinge a fermarsi prima del confine, prima della fuga verso la libertà, a tornare indietro, a restare in quella terra martoriata e oppressiva. Il film lascia l’amaro in bocca, un senso di disagio e di pena.
Non ci sono orsi in agguato lungo la strada; le sagome sono state messe dai vecchi marpioni del villaggio per impaurire la gente e renderla incapace di ribellarsi. Gli orsi non esistono, sono un’invenzione utilizzata per opprimere e uccidere impunemente due ragazzi che hanno avuto la ventura di innamorarsi fuori delle regole stabilite da una stupida tradizione.