3 febbraio 2024 h 17.00
Cinema Teatro La Compagnia Firenze – via Cavour, 50r

Neorealismo (vecchio e nuovo)
// Palazzina Laf // C’è ancora domani // Kafka a Teheran // Profeti // Gli orsi non esistono // Il male non esiste // Un eroe // Ladri di biciclette // Il vizio della speranza // Cosa dirà la gente

Politica, temi sociali, visioni del mondo
// Un altro ferragosto // Palazzina Laf // Io Capitano // Animali selvatici [R.M.N.] // Silent Land // Il sol dell’Avvenire // Next Sohee // Triangle of sadness // L’homme de la cave [Un’ombra sulla verità] // Parigi, tutto in una notte // La moda di abbattere le statue (articolo) // Alice e il sindaco // Tel Aviv on fire // Vice L’uomo nell’ombra // Benvenuti a casa mia [À bras ouverts] // The Post //

Conoscevo Michele Riondino come Montalbano giovane. L’ho anche apprezzato in Un’avventura (2019, regia di Marco Danieli). Era il tentativo di ridare vita, fuori tempo, a un genere morto e sepolto: il cosiddetto “musicarello”. Sceneggiatura costruita sulle canzoni di Mogol Battisti, in particolare sulla più famosa, richiamata nel titolo. Nel film Michele balla e canta, insieme a Laura Chiatti. I due attori protagonisti sono riusciti nell’ardua impresa di interpretare in modo personale canzoni straconosciute, legate alla voce di Lucio Battisti, a quel timbro molto particolare. Il film è divertente e leggero.
Il cinema è anche questo: una pausa nel turbinio dei problemi seri e pesanti che hanno la cortesia di visitarci a ogni ora del giorno e, per i nottambuli come me, della notte.

Di tutt’altro genere è il primo film di Michele Riondino regista e attore.
Conoscendo l’argomento di Palazzina Laf temevo la solita conversione di un dramma atroce in commedia all’italiana, fuori tempo come i musicarelli.
Non è accaduto; il tema è stato svolto con rigore e alla fine dalla sala del cinema La Compagnia è partito un applauso spontaneo al quale mi sono associato volentieri.

Michele Riondino ha raccontato il dramma dell’Ilva di Taranto attraverso le storie di alcuni personaggi.
Caterino Lamanna, giovane operaio ignorante, non sa quello che dice e non sa quello che fa. Subito viene individuato da chi vuole approfittare della sua stupidità. È spinto a svolgere il ruolo più brutto dentro a una comunità: la spia, il traditore dei compagni che cercano di ribellarsi a chi vuole trattarli come se la vita degli operai non contasse nulla. Caterino si vende per una fiat panda vecchio tipo (siamo nel 1997, a un certo punto è evocato il Maurizio Costanzo Show). Facendo il conto: si è venduto per meno dei trenta denari di Giuda. Poi crede di poter alzare la posta e si fa trasferire nella Palazzina Laf, dove i reietti sono isolati perché non accettano il demansionamento. Non potendo licenziarli, li privano della dignità del lavoro (una forma di mobbing). Alla fine Caterino ha un attimo di lucidità, si rende conto dello squallore della propria vita ma non riesce a fare altro che rifugiarsi nella confusione per cercare di sfuggire alle responsabilità e alla vergogna.
Il giovane geometra Basile, cinico e aggressivo, ha trovato il modo di accaparrarsi un po’ del potere di chi si trova molto più in alto di lui; è utilizzato per fare il lavoro sporco.
Ha ottenuto più di una vecchia panda, ma in fondo svolge con impegno le stesse mansioni di Caterino: tradisce la comunità a cui appartiene e perseguita chi non cede ai ricatti. È meno ignorante e quindi più colpevole.

In scena solo giovani adulti. Molti di quelli che potrebbero essere vecchi, di quelli che avrebbero potuto essere vecchi, o sono morti in incidenti sul lavoro, o sono morti in casa poco prima o poco dopo essere andati in pensione, circondati dall’affetto dei familiari e, nei manifesti funebri, dal ricordo dell’azienda con la scritta “dipendente” o “ex dipendente” dell’Ilva.
Poi ci sono, sottintesi ma evidenti per chi sa come sono gestite le aziende, i maghi della finanza. Per loro licenziare o mettere in cassa integrazione cento operai prima di Natale vuol dire inserire un numero in una casella di un foglio di calcolo alla voce “risparmio” e controllare il risultato. Per loro spendere soldi per ridurre il numero di incidenti sul lavoro vuol dire mettere un numero nella casella delle spese.
Gli alti dirigenti parlano poco ma agiscono, i proprietari dormono sonni tranquilli, respirano aria buona, fanno le vacanze nelle grandi ville e se ne fottono di tutto e di tutti.

Le storie ai bassi livelli s’intrecciano.
La signora che preparava i documenti facendo attenzione solo alla formattazione, nascondendosi dietro ai modi gentili, credendo di poter ignorare il senso dei testi riportati nei fogli, è anche lei vittima delle scelte dei padroni, trasmesse agli alti dirigenti e da questi, attraverso i gironi infernali, fino al geometra Basile.

L’esperto informatico è sottoposto al ricatto: devi accettare le nostre scelte. Non si piega e finisce nella Palazzina Laf a non far nulla. Il giovane informatico cede e si ritrova a fare la spia, come Caterino. Alla fine il giovane informatico è disgustato di se stesso.

Intanto le pecore – nelle masserie diroccate sopravvissute intorno alla fabbrica – muoiono all’improvviso: piegano le zampe anteriori, crollano tra i cespugli avvelenati.
Anche le persone crollano.
Crollano i dipendenti che non hanno ceduto al ricatto dell’azienda; crollano gli operai negli incidenti sul lavoro, crollano le famiglie degli operai nelle case avvelenate dai fumi tossici.
Le spie come Caterino cominciano a tossire.
Solo i padroni non crollano nelle loro ville, negli yacht ancorati al largo di Capri o delle isole del mare Egeo. Pagano avvocati di grido per difendersi dalle accuse dei magistrati, per invocare la prescrizione dei reati.
La spia è punita dalle sostanze tossiche inalate girando con la panda, ammazzando il tempo nella Palazzina Laf, vivendo a poca distanza dall’acciaieria. I veleni prodotti dalla fabbrica non vanno in prescrizione, colpiscono tutti: chi si ribella e lotta, chi non si ribella, chi collabora con il nemico.

L’Ilva di Taranto non è un’acciaieria.
L’Ilva di Taranto è una tragedia moderna, più potente delle tragedie antiche che ancora ci fanno piangere calde lacrime e fremere di rabbia dopo secoli.
Il libro Fumo sulla città, del giornalista scrittore Alessandro Leogrande – purtroppo morto a quarant’anni mentre collaborava alla sceneggiatura del film – è un tassello della riflessione che dovremo fare, prima o poi, su questa tragedia.
Anche il film rientra nella riflessione, necessaria per avviare la catarsi, per liberarsi dal senso di morte e dal senso di colpa, variamente distribuiti tra i protagonisti, secondo le diverse responsabilità.
Per quanto mi riguarda, sono uscito dalla sala e mi sono avviato verso Santa Maria Novella con un senso di morte agghiacciante; pensavo all’Ilva di Taranto, all’Ilva di Bagnoli, per fortuna chiusa, e – anche se c’entra di stramacchio, come si dice a Napoli – alla “terra dei fuochi”.
Che cosa unisce le tre tragedie? La distruzione di un paradiso che la natura aveva donato al sud.