28 novembre 2018 h 18.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

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Uscendo dalla sala, mi è venuta in mente la poesia che introduce
Se questo è un uomo (Primo Levi)
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa, andando per via,
Coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

I luoghi descritti nel film: la foce del fiume Volturno e dintorni, il litorale con la periferia di Castel Volturno – luoghi di antica civiltà (Campania Felix, feconda, fortunata, felice, poi Terra di Lavoro) – sono gli attuali lager nazisti, aperti e funzionanti nel pieno della civile Europa.
Lager nazisti che tutti cercano di ignorare, di fare finta che non ci siano.
Tutti: politici locali e nazionali, uomini di chiesa e delle istituzioni, e noi che viviamo una vita normale in altri posti e conserviamo solo un ricordo sbiadito di vacanze estive lontane nel tempo.
Dopo Castel Volturno, proseguendo lungo la costa, a non molta distanza si trovano le spiagge di Mondragone, Minturno, Scauri. Tornando verso Sud, superata la pineta di Mondragone e, dopo la foce del Volturno, la pineta di Castel Volturno, si vedono i canali di bonifica idraulica, lungo il tratto terminale del fiume Clanio, risalenti al vicereame spagnolo (1600); si chiamano Regi Lagni.

Mio padre, impiegato del Consorzio di Bonifica con sede a Caserta, ogni tanto li nominava, diceva di essere passato dai Regi Lagni per motivi di lavoro, per portare le buste paga agli operai. Ho nella memoria la sua voce mentre ripeteva quel nome.
Mi piaceva il suono antico: Regi Lagni.

Credo che anche a mio padre piacesse quel nome, lo vedevo dalla espressione del suo volto, e sicuramente gli piaceva portare le buste paga agli operai.
La giornata trascorsa in quelle zone – girando intorno in macchina (la macchina del Consorzio con autista, diceva con orgoglio) per incontrare i lavoratori a cui consegnare la “busta”, scambiando qualche parola con ciascuno (mio padre era molto socievole), immerso negli odori della campagna, l’aria fresca, il mare poco distante – gli dava la sensazione della vacanza.
D’estate su quelle spiagge trascorrevamo un mese, fra il mare e i piccoli agricoltori che rifornivano di pomodori la più importante industria conserviera del tempo: la Cirio («Come natura crea, Cirio conserva» era lo slogan ripetuto nel Carosello).

Non si vedevano, no, proprio non si vedevano, perché non c’erano, gli schiavi neri piegati, sfruttati fino all’osso; alla raccolta partecipavano gli stessi piccoli agricoltori, le loro famiglie, braccianti agricoli locali. L’industria conserviera e il mercato ortofrutticolo pagavano abbastanza da poter garantire ai braccianti una paga decente.

Se si va su Google e si scrive Regi Lagni, il collegamento più immediato è con discariche abusive, rifiuti tossici, inquinamento delle acque.
In un video della guardia di finanza (16 aprile 2010), che inizia con lo stemma della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e s’intitola “Il disastro ambientale dei Regi Lagni” – un video reperibile su Internet – si vedono cadaveri di capre, di cani, di mucche, carcasse di auto abbandonate, calcinacci e cumuli di immondizia di dubbia origine che ostruiscono il corso dei lagni. Il video è ripreso da un elicottero. S’indovina un’aria mefitica, nonostante il mare vicino e la campagna.

Tutto ciò ha un nome: camorra.

Anche in passato c’era ed era violenta, forse più violenta, in apparenza, della camorra attuale, che dispone di altri mezzi per “persuadere”. A quei tempi si occupava di mercato ortofrutticolo, costruzioni abusive, “pizzo” imposto ai negozianti, prostituzione, droga. Se ti ribellavi al pizzo o al prezzo imposto nel “libero” mercato delle mele annurche, delle pesche o delle percoche, rischiavi un colpo di pistola; ora ti distruggono senza torcerti un capello. Ti fanno fallire, ti tolgono l’azienda, la casa, la famiglia; ti fanno convivere con la paura. Il politico eletto nel partito sostenuto dalla camorra ti manda a casa i poliziotti, le guardie di finanza o i vigili urbani a contestarti qualche infrazione. A quel punto che cosa ti resta da fare? Poche cose.
Quando la camorra ha scoperto la possibilità di fare soldi con la monnezza e con l’inquinamento ambientale, si è occupata del nuovo settore con l’efficienza dimostrata nella gestione delle attività prima elencate e con la nota indifferenza nei confronti del territorio. La sporcizia (in tutti i sensi) rimane qua e loro, in giacca e cravatta, investono in posti “puliti”.

«Maledetti! Maledetti per l’eternità!» è la battuta finale del capitano Taylor (Charlton Eston) ne Il pianeta delle scimmie originale, regia di Franklin J. Schaffner, tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Boule.
La maledizione è lanciata da Taylor alla fine, quando, scorgendo la Statua della Libertà, in parte seppellita nella sabbia, si rende conto di trovarsi sulla Terra – fino a quel momento aveva creduto che la navicella spaziale l’avesse portato su un pianeta sconosciuto – e capisce che i disastri causati dagli uomini hanno portato le scimmie a prendere il sopravvento.
«Sono a casa!», dice con accento disperato, e poi:
«Maledetti! Maledetti per l’eternità!».
Per quello che può servire (non si sa mai) mi associo a questa maledizione; la lancio sui delinquenti che hanno distrutto un posto che la natura aveva benedetto.

Proseguendo sul litorale, in direzione Sud, s’incontra l’osceno Villaggio Coppola, uno schiaffo alla natura, poi lago Patria (l’adolescenza), Varcaturo, Licola (la preadolescenza), Cuma con l’antro della Sibilla e, poco distante, verso l’interno, l’oscuro lago d’Averno, dove Virgilio poneva l’ingresso all’Oltretomba.

Dal lago d’Averno, tagliando verso il golfo di Pozzuoli, si arriva alla spiaggia di Lucrino, a cui sono legati ricordi della prima infanzia.
Spostandomi lungo il litorale potrei percorrere a ritroso anni fondamentali della mia vita, potrei fare una rassegna di ricordi, semplicemente leggendo i cartelli stradali.
Superato il golfo di Pozzuoli, il proseguimento verso il golfo di Napoli mi riporta alla piena giovinezza, ai timidi amori ormonali, riservati, per motivi generazionali, ma, soprattutto, per motivi caratteriali.
Ero un adolescente molto timido; per sbloccarmi mi sono dovuto allontanare dall’ambiente familiare e ho dovuto imparare a contare solo su me stesso.
Soprattutto, avevo bisogno di diventare un “viaggiatore senza bagaglio” (Jean Anouilh).

Il bagaglio era l’atteggiamento dei miei amici e conoscenti, che da me si aspettavano un comportamento, la conferma di ciò che ero stato fino ad allora.
È incredibile come gli altri rimangano delusi se reagisci in modo inaspettato.
Già allora, parlo dell’adolescenza, mi rendevo conto di essere diverso da come cercavo di farmi vedere dagli altri.
Per esempio, avevo un forte senso critico, che tenevo chiuso dentro, per paura di essere giudicato male, di sembrare presuntuoso.
Negli scambi di opinioni ero riposante per gli altri: non mi opponevo, anche quando non ero d’accordo.
I rapporti con i componenti della famiglia, con gli amici, con i conoscenti, erano resi faticosi dal timore di essere giudicato male, di deludere le aspettative (chissà chi o che cosa mi aveva infilato questo tarlo in testa!).
Poi, vivendo, ho capito che gli altri si aspettano sempre e comunque che tu non dia fastidio, che non metta in discussione le loro certezze; vogliono vederti fornito di bagaglio, imbagagliato (che è quasi imbavagliato), altrimenti restano delusi.

Invecchiando, osservare questa delusione è diventato un divertimento.

È bastato mettersi in strada, rivedere alcuni posti, per ricordare anni difficili – chi ha detto che la giovinezza è facile? Non è vero: è difficilissima.
E non sono andato nel paese natio, non ho l’intenzione di andarci, ora che niente mi costringe. Se ci andassi, partirebbe un’altra serie di ricordi, questi legati all’infanzia, dovrei scrollarmi di dosso il peso di altri bagagli.

Riprendiamo la strada in direzione Nord, torniamo a Castel Volturno, a quei tempi (anni ‘60, ‘70) un paesone che aveva tutto il necessario per vivere bene: il mare, il fiume, la campagna.
Ora la spiaggia, la riva del fiume, la campagna sono diventate un lager a cielo aperto.
Ci difenderemo, quando saremo chiamati come testimoni o imputati nel processo di Norimberga, se ci sarà un processo di Norimberga, dicendo: «Non sapevo fino a che punto le cose fossero arrivate, non so che cosa avrei potuto fare»; qualcuno dirà, arrossendo «Ho solo obbedito agli ordini, ignoravo che il fumo di quei camini contenesse le cellule di povere vittime, non completamente distrutte dal fuoco nel forno crematorio», qualche altro dirà: «Il mio problema era raccogliere voti, aumentare il consenso, conservare il potere» – «Per farne cosa?» – «Per conservarlo».

Conservare il potere per conservarlo, come se il potere potesse durare in eterno.

In questi lager la carne umana è merce, si mettono al mondo bambini per venderli a brave signore che non riescono a farli nascere con i metodi naturali; li desiderano e non si fanno scrupolo di comprarli.
È molto più comodo che ricorrere alla fecondazione artificiale o adottarne qualcuno un po’ cresciuto: le signore sono molto esigenti in fatto di bambini e di cani (solo con pedigree, i cani, per i bambini si può chiudere un occhio).

Forse pensano addirittura di fare un’opera buona, perché la gente è prontissima a ingannare soprattutto sé stessa.
Una varia umanità è rinchiusa in quei posti (mi riferisco alla periferia di Castel Volturno, dove si svolge il film, non agli altri luoghi citati, che, spero, siano in condizioni migliori), vere e proprie carceri da cui non si può evadere, nonostante l’aria aperta, la spiaggia, il fiume, dove non si possono più pescare i pesci perché «fètono» (puzzano a causa dell’inquinamento).

Posti pieni di monnezza, di calcinacci, di stracci, che possono tornare utili per proteggere disperatamente il cadavere di una cagna che ti faceva compagnia, tenera come solo i cani sanno essere, morta per il morso di una serpe.
I prigionieri sono neri sfruttati e sfruttatori, bianchi sfruttati e sfruttatori, kapò.

Sfruttatori sono anche quei tranquilli padri di famiglia, quegli onesti, benpensanti padri di famiglia, magari mariti delle brave signore di cui si diceva, che vanno a prendersi lo sfizio di farsi una schiava nera, spendendo pochi soldi, con nessuna responsabilità, pochi pericoli, e, naturalmente, nessuno scrupolo.
Non gli viene in mente di verificare l’età delle ragazzine che si apprestano a violentare o la condizione di schiavitù delle donne ridotte come oggetti sessuali.

In questo film i personaggi – sfruttati, sfruttatori e kapò – hanno il ruolo intercambiabile e sono, prevalentemente, donne.

Gli uomini fanno da sfondo.
Tranne uno, fumatore accanito, chiamato sempre con nome e cognome: un personaggio romantico, diciamo pure poco realistico.

Questo non vuole essere necessariamente un rilievo negativo: la mente ha bisogno di rifugiarsi nella fantasia, quando la realtà è peggiore di un incubo.
E allora si immagina uno che riesce a vivere sulle sponde del fiume, come viveva Tarzan nella foresta, e riesce a mettere in funzione una giostra ferma da anni: spinge un tasto, accende le luci e fa girare la giostra, ci monta anche lui sopra.

È una giostra di quelle complicate, pericolose, basate sulla forza centrifuga, che richiedono manutenzione continua e hanno bisogno di potenza elettrica notevole. Chi la controlla dall’esterno? Chi la ferma? Non si sa. Gira all’infinito? L’ENEL non ha staccato la corrente?

Se vogliamo trasformare in critiche queste domande irrisolte, si potrebbe dire che questa è l’unica caduta di stile in un film molto controllato, rigoroso: avere inserito un elemento felliniano in un film che non è felliniano.

Anche le donne africane, che sono riuscite a creare un riparo al quale non possono accedere i bianchi senza una parola d’ordine, un posto dove sembra prevalere la gentilezza e il calore umano, dopo qualche giorno pretendono che la giovane incinta – l’hanno aiutata per debito di riconoscenza – cominci a “lavorare” come loro, cioè a vendere il corpo.

La ragazzina zoppa – occhi ridenti sotto i capelli ricci – nonostante viva con la madre in questo rifugio, ha bisogno di essere protetta, è in pericolo.
La carne umana è merce: non si sfugge. Non c’è riparo dal degrado.

In un posto che è una specie di inferno ci sono, naturalmente, i diavoli.
Un diavolone calvo, munito di una pistola elettrica, un abbattitore di quelli che si usano nei macelli per stordire le mucche e i maiali prima di ammazzarli, ha il volto di donna.
Un altro diavolo ha l’apparenza di un’anziana signora ingioiellata, interpretata dalla brava Marina Confalone; si vede che è un capo, emana autorità, parla con calma, è servita da un medico obbediente e malinconico (il servo del diavolo), fa dei ragionamenti sottili, usa la logica per giustificare la propria efferatezza e il proprio cinismo.
Il diavolo è un fine logico, è logico come un matematico, come un giocatore di scacchi.

… Oh me dolente! Come mi riscossi / quando mi prese dicendomi: «Forse / tu non pensavi ch’io loico fossi!», Inferno, Canto XXVII

Alla fine il regista ha voluto inserire il vizio del titolo, che ha reso necessarie alcune forzature e incongruenze sparse qua e là.
Per esempio: mi sembra che troppo facilmente Maria, la giovane incinta, riesca a scappare sulla barca e, insieme al suo amico, il generoso Tarzan, a salvare la ragazzina nera ricciuta.
A Tarzan basta tirare un paio di pugni a un omone che cerca di impedire la liberazione della ragazzina; la fuga riesce.
Secondo me la camorra (quella originale, napoletana, o la nuova camorra africana organizzata) non si lascia scappare così facilmente le sue prede e non bastano due pugni tirati da un uomo anziano, anche se vive come Tarzan e fuma come un turco, per fermarla.
Munire il vecchio Tarzan di un kalashnikov avrebbe reso la scena più realistica, sanguinolenta ma realistica.

Il regista ha voluto inserire la speranza, e ha fatto bene, perché evidentemente questa è la sua fede e perché l’inserimento del kalashnikov avrebbe trasformato il film in uno dei soliti figli, nipoti e pronipoti di Gomorra (una vasta famiglia).
Però la fuga dei tre rimane poco realistica.

Anche la nascita del bambino ha un che di miracoloso; ma questa forzatura, questa spinta finale sul soprannaturale, è molto bella, efficace. Si legge sul volto di tutti i personaggi, passati in rassegna uno a uno.
Il vecchio Tarzan lancia un’invocazione disperata a Dio, il diavolo pelato perde la sua arma elettrica, il tempo si ferma e, miracolosamente, nasce il bambino.

È un po’ come se fosse nato Gesù Cristo.

Bella la musica composta da Enzo Avitabile; straordinaria l’interpretazione di Pina Turco. Di Marina Confalone si è detto: gli amanti del Teatro di Eduardo la ricordano con affetto e la rivedono volentieri in azione.

Alla fine, sui titoli di coda, c’è il presepe, un presepe moderno, come tutti (antichi e moderni), aperto alla speranza.

Maria è una ex prostituta che accompagnava le partorienti a far nascere i bambini per venderli; è una donna che non si spoglia mai perché non ama vedere il proprio corpo nudo (potrebbe essere questo il senso di “vergine madre”?). L’annunciazione è avvenuta toccandosi il ventre e scoprendo di essere incinta. Questa scoperta l’ha cambiata: non può più fare la kapò. È rinata. (È questo il senso di “figlia del tuo figlio”?).
La strage degli innocenti è la vendita di quei poveri bambini alle brave signore che sicuramente vanno a messa tutte le domeniche.
Erode siamo noi, con diversi gradi di responsabilità: ci penserà Norimberga a stabilirli, a condannare qualcuno all’impiccagione, meritata, qualche altro al carcere a vita, meritato, e ad assolvere chi veramente non poteva fare niente.
Giuseppe è un vecchio giostraio che vive come Tarzan sul grande fiume (la fuga in Egitto avviene non a dorso di un asinello ma su una barca a motore).

Il padre non si sa chi sia. È regolare: il bambino Gesù dev’essere figlio di padre ignoto, ignoto per definizione.

L’angioletto è una ragazzina zoppa (non è un problema, non fa niente: ha le ali) dal volto nero, luminoso, gli occhi ridenti, nonostante il male che hanno visto, una cascata di riccioli. Purtroppo quegli occhi sono ridenti e luminosi perché appartengono a un’attrice. Le ragazzine che crescono in quell’inferno credo perdano molto presto lo sguardo limpido e fiducioso.

A parte il presepe, ora anche questo film ci ha aggiornati su quell’angolo di mondo: un nuovo Auschwitz nel cuore dell’Europa.

Io non ho la speranza del regista e non credo che ci sarà un miracolo a salvare chi vi è tenuto prigioniero.