6 ottobre 2021 h 18.30
Cinema Arsenale Pisa – vicolo Scaramucci, 2
Film di Marco Bellocchio su questo sito
// Buongiorno, notte // Marx può aspettare // Esterno notte: prima parte // Esterno notte: seconda parte // Rapito //
Famiglia (fratelli e sorelle)
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“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi“
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“Marx può aspettare”, regia di Marco Bellocchio; un film sul senso di colpa.
Noi laici e miscredenti, nutriti di psicoanalisi freudiana, lo chiamiamo senso di colpa; i cattolici lo chiamano rimorso.
Non comportarsi come il buon samaritano ma girarsi dall’altra parte è un peccato. Il rimorso è tanto più duro da sopportare quanto più vicina è la persona che ha chiesto aiuto, quanto più la vittima della nostra indifferenza si è dimostrata debole e indifesa.
Se questa persona è un fratello ed era così debole da suicidarsi, la sofferenza per il peccato commesso, il rimorso, il senso di colpa sono quasi insopportabili.
Ho provato una pena sincera nei confronti di Marco Bellocchio, pensando al peso enorme che ha dovuto portare sulle spalle dal dicembre 1968, quando Camillo, il fratello gemello, all’età di ventinove anni si suicidò.
Puoi cercare di superare il senso di colpa e trovare una giustificazione al tuo comportamento. Impossibile se c’è una lettera in cui Camillo, umilmente, ti chiedeva aiuto.
A quella lettera Marco Bellocchio non ricorda che cosa abbia risposto; non ricorda neanche se ha risposto. Non ricordava la lettera di Camillo quando Alberto, il fratello sindacalista, con una punta di cattiveria, gliel’ha rammentata. C’è sempre un sottile scambio di accuse tra i fratelli (se posso rinfacciarti un errore, se la colpa è un po’ più tua che mia, mi sento meglio).
Bisogna aggiungere che i protagonisti di questo film/documentario non sono interpretati da attori. Marco Bellocchio ha messo in scena la sua famiglia: i fratelli e le sorelle superstiti, il povero Camillo, che vediamo nelle fotografie in bianco e nero, i due figli del regista, con i quali “si confessa”. Entra in scena, con grande efficacia, lo stesso regista.
A proposito della lettera dimenticata, il dottor Freud parlerebbe di rimozione. La spinta inconscia determina i lapsus, gli scambi di parole, le distrazioni: «Ho messo la lettera nel cassetto con l’intenzione di riprenderla, ero sicuro che l’avrei ripresa, poi mi sono distratto, l’ho dimenticata». Razionalizziamo le emozioni e le rimozioni, dopo averle scoperte. Oggetti importanti rimangono nei cassetti per anni, spariscono dalla coscienza fino a quando un evento casuale li riporta alla luce.
Nelle famiglie alto borghesi di una volta si mescolavano buoni e cattivi sentimenti; si rimpallavano i sensi di colpa.
Agli occhi del mondo: solidarietà reciproca totale, da clan iperprotettivo.
All’interno: aggressività, competizione.
I genitori, senza rendersene conto o di proposito, distribuivano il loro affetto tra i figli in modo da spingere più avanti il prescelto. Nelle famiglie di media e alta borghesia (la piccola borghesia faceva storia a sé) vigeva una specie di darwinismo pratico: i genitori operavano in modo da selezionare il più forte. Non c’era l’abbandono del debole, differentemente da ciò che accade, secondo Darwin, in natura. Il debole era aiutato, ma lasciato nella sua condizione di inferiorità rispetto a chi aveva il compito di tramandare il nome, l’attività, il lustro della famiglia.
Tutte le energie famigliari erano volte all’affermazione del più forte, al quale, tra l’altro, si lasciava la maggior parte del patrimonio ereditario.
Questa non è esattamente la situazione presente nella famiglia originaria di Marco Bellocchio; il regista l’ha descritta per altri aspetti in molti film, a cominciare dal primo, I pugni in tasca (1965). L’ha descritta mascherando o estremizzando personaggi e situazioni, ma lui stesso ammette, e altri componenti della sua famiglia confermano, che alcuni film, quando uscirono, causarono imbarazzo nei fratelli e, a suo tempo, nella madre.
La crisi della società rappresentata da Marco Bellocchio era, in buona sostanza, la crisi dell’ambiente medio borghese in cui era vissuto.
Come mai Camillo, quando si sentì irrealizzato e infelice, non chiese aiuto ai due fratelli più grandi, Piergiorgio e Alberto? I due si erano affermati nella vita professionale: il primo era giornalista e scrittore, il secondo sindacalista.
Forse la spiegazione si trova nel distacco che a quei tempi esisteva tra i fratelli piccoli e i fratelli grandi, accentuato dalla mancanza del padre, morto troppo presto.
Suppongo che a Camillo dovette sembrare meno umiliante rivolgersi a Marco, il fratello gemello, con il quale era certamente più facile confidarsi, ridurre le difese e rivelare la propria debolezza, i propri sogni.
Possibile che Marco abbia dimenticato la lettera anche dopo il suicidio di Camillo?
A me viene il sospetto che abbia voluto creare una sospensione necessaria alla narrazione cinematografica. Suppongo che in questo modo di raccontare, ferma restando la sincerità estrema, abbia prevalso il regista.
Com’è come non è, Marco trova la lettera che aveva detto di non ricordare; non ci spiega da dove è saltata fuori (dal cassetto, probabilmente).
La trova e la legge.
Camillo sostanzialmente diceva: tu sei riuscito a scappare dalla provincia, hai intrapreso la tua strada con successo; aiutami a trovare una soluzione ai miei problemi. Forse anch’io potrei riuscire nel cinema, se tu mi aiutassi.
Questo è il momento più drammatico, quasi insostenibile anche per noi spettatori. Nel buio della sala gli occhiali si appannano.
È il momento in cui ci rendiamo conto di quale peso, di quale rimorso, di quale senso di colpa Marco Bellocchio si sia caricato sulle spalle, con la sua indifferenza, ammessa, al grido sommesso lanciato dal fratello.
Un momento dopo continua a rimestare nella ferita: ricorda un colloquio con Camillo, la sua richiesta di aiuto rinnovata a voce, alla quale egli aveva risposto suggerendogli l’impegno politico.
Camillo rispose: Marx può aspettare.
Credo che volesse dire: voi intellettuali potete servire il popolo (o illudervi di servire il popolo) attraverso le vostre attività privilegiate, io devo prima trovare la mia strada. Per me, Marx può aspettare.
L’espressione “impegno politico”, per una parte molto rumorosa degli intellettuali di sinistra di allora, fortunatamente minoritaria, si traduceva con “servire il popolo”, “unione dei comunisti marxisti leninisti”, “libretto rosso di Mao”.
In quel periodo Marco Bellocchio aderiva alla concezione della politica evocata da queste espressioni, delle quali solo un senso archeologico è sopravvissuto (gli antichi egizi, gli etruschi, i filocinesi degli anni settanta).
Nel 1967 era uscito il suo secondo film, La Cina è vicina, che aveva fatto molto discutere. Il senso del film, in poche parole, era: la società borghese è marcia e irrecuperabile, merita solo una muta di cani e gatti sguinzagliati dal personaggio maoista.
Questi grandi intellettuali, grandi studiosi di politica e di filosofia, in quel periodo presero una grande cantonata. Non tutti, naturalmente.
Dunque, per Marco Bellocchio di quegli anni il fratello che gli chiedeva aiuto avrebbe dovuto trovare una soluzione ai propri problemi impegnandosi nella politica. Sottinteso: di questo impegno Marco si considerava un esempio, dall’alto del suo successo come regista cinematografico non borghese (come amava pensare). Forse addirittura si considerava parte dell’avanguardia proletaria impegnata a preparare la rivoluzione.
Immagino il suo sogno (per molti di noi un incubo) della rivoluzione maoista trionfante in Italia, nella quale si vedeva come regista di film esaltanti la triade degli slogan urlati in coda al corteo del Primo Maggio (Marx, Stalin, Maotsetung), controllati a vista dal servizio d’ordine della CGIL, dagli operai del PCI che tenevano d’occhio i “marxisti-leninisti”come si tengono d’occhio gli esaltati.
Se la rivoluzione culturale si fosse realizzata in Italia come in Cina, certamente il regista di successo Marco Bellocchio avrebbe trovato il posto d’onore assegnato agli intellettuali dagli studenti fanatici e dai funzionari ubbidienti: sarebbe stato mandato a spalare la merda in una comune proletaria.
Camillo aveva da subito perso la gara che sempre parte tra i fratelli: andava male a scuola e fu indirizzato dal padre verso gli studi tecnici (geometra), ai quali non era portato.
Tra fratelli c’è sempre una competizione nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza; poi, con l’età adulta e con la vecchiaia, la competizione si attutisce fino a essere sostituita dall’affetto. Fin da piccoli, tra i due gemelli, il vincitore era stato Marco. La lotta per affermarsi, che in una certa misura è fisiologica, si era conclusa molto presto.
A quattordici anni Marco fu mandato al liceo classico in una scuola cattolica, sulla scia del fratello maggiore, Piergiorgio Bellocchio (il terzo di otto figli; i due gemelli erano gli ultimi), fondatore, con Grazia Cherchi, di una rivista che fu pubblicata dal 1962 al 1984: Quaderni Piacentini. Questa rivista raccolse prestigiose collaborazioni tra gli intellettuali di sinistra e divenne così famosa da meritare una citazione ironica di Nanni Moretti nel suo primo film: Io sono un autarchico (1976).
Un altro fratello, Alberto Bellocchio, lavorava come sindacalista nella Fiom CGIL della città dove la famiglia risiedeva: Piacenza.
Dopo il liceo Marco completò gli studi di regia al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e nel 1965, a ventisei anni, realizzò il primo lungometraggio, I pugni in tasca, un film che lo portò alla ribalta nazionale e internazionale (rifiutato dal Festival di Venezia, fu premiato al Festival del cinema di Locarno).
Risultato: alle soglie della maturità i due fratelli si trovarono in situazioni completamente diverse.
Mentre Marco dava l’avvio a una carriera ricca di soddisfazioni, la vita di Camillo, vincolata alla provincia, sfociava in una sensazione di fallimento.
Non riusciva ad affermare le proprie potenzialità.
In quel momento Marco avrebbe potuto lanciare una zattera per aiutare il fratello a non affogare (certamente non si rese conto che rischiava di affogare).
Camillo aveva un bel viso, un’espressione malinconica di moda nel cinema di allora; nelle fotografie ricorda Alain Delon.
Marco si chiuse nelle sue certezze politiche: non voleva essere un regista borghese, sognava la rivoluzione.
Sicuramente agì il bisogno, spesso prevalente quando si è giovani, di occuparsi unicamente di se stessi, di pensare solo a consolidare il proprio posto nel mondo.
Agì il naturale egoismo del giovane concentrato interamente sulla propria vocazione e sul proprio avvenire (a parte le chiacchiere su “servire il popolo”). Nella mente di Marco non ci fu lo spazio libero necessario per occuparsi dei problemi di Camillo. Da qui il tormento successivo al suicidio.
Non si può tornare indietro, purtroppo.
Ancora più terribile è l’ammissione di Piergiorgio, il fratello grande, il giornalista, lo scrittore che si andava affermando sempre di più: nel 1966 premio Pozzale – Empoli per una raccolta di racconti, editore, insieme ad altri, della rivista Quaderni Piacentini, che si comprava nelle librerie Feltrinelli.
Piergiorgio ebbe tra le mani l’ultima lettera lasciata dal suicida e la distrusse. Per quale motivo la distrusse? Farfuglia qualcosa, accenna a un processo in cui era coinvolto e al timore che quel documento potesse danneggiarlo. Non capiamo. Sembra una pezza peggiore del buco. Avrebbe potuto affidare a qualcuno l’ultimo segno del passaggio sulla Terra del fratello, il suo ultimo pensiero, forse le sue ultime volontà.
Distrusse il biglietto lasciato dal suicida!
Incredibile! Questi grandi uomini dichiaravano di avere a cuore il destino dell’umanità, leggevano, scrivevano, si occupavano delle classi sociali svantaggiate, di popoli lontani oppressi, e mostravano indifferenza nei confronti di una persona vicinissima. Dopo la sua morte tragica fu distrutto l’ultimo segno dell’esistenza di Camillo Bellocchio, un segno che avrebbe potuto togliere qualche dubbio riguardo ai motivi del tragico gesto. Sembra avesse scritto: sono fallito anche nell’amore (come si fa a fidarsi della testimonianza di Piergiorgio, dopo che ha distrutto quella lettera?).
Eppure Piergiorgio Bellocchio era un uomo coltissimo, un polemista affilato, acuto osservatore del mondo che lo circondava (è morto nel 2022). Basta leggere il suo Diario del novecento, pubblicato postumo, per comprendere la profondità di questo intellettuale. Eppure …!!!
La psicoanalisi è una tecnica che serve a liberarsi dei pesi, guardandosi dentro e accettando anche la propria miseria.
Alla fine degli anni ottanta, primi anni novanta, era molto discusso il sodalizio di Marco Bellocchio con uno psicanalista particolare, Massimo Fagioli.
Era stato espulso dalla Società Psicoanalitica Italiana, quindi tecnicamente non era uno psicanalista.
Era medico psichiatra, aveva interessi culturali e artistici multiformi e utilizzava una tecnica che si chiama analisi collettiva. Non ne conosco i dettagli, il nome stesso mi suscita perplessità, ma non sono in grado di esprimere un’opinione fondata a riguardo. A dire il vero, già allora non m’interessava. Non ho mai sopportato queste figure che tendono a trasformarsi in guru seguiti a occhi chiusi da chi avrebbe il dovere di tenerli bene aperti.
Il rapporto tra il regista e lo psichiatra suscitava polemiche; alcuni dicevano che Fagioli interveniva sulle scelte artistiche di Bellocchio, sulla direzione degli attori, in particolare nel corso della lavorazione del film Il diavolo in corpo (1986). Fagioli fu autore della sceneggiatura di altri due film di Bellocchio: La condanna (1991), con Vittorio Mezzogiorno, e Il sogno della farfalla (1994).
Massimo Fagioli è morto nel 2017.
In una recente intervista Marco Bellocchio parla del suo rapporto con l’analisi collettiva di Fagioli come di un’esperienza transitoria.
Alla prima occasione mi piacerebbe chiedergli: «Sono noti i suoi rapporti, anche artistici, con l’analisi collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli. Ha tratto giovamento da queste tecniche, e, eventualmente, dalla psicoanalisi freudiana per alleggerire il peso del senso di colpa che manifesta nel film Marx può aspettare?».
Questa è la semplice domanda che mi piacerebbe porre, non solo per una mia curiosità personale, ma anche per avere la conferma della utilità delle tecniche psicanalitiche o psichiatriche quando si è oppressi dai sensi di colpa. Credo che questa condizione sia molto diffusa. Pensiamo ai vecchi ex brigatisti rossi e ex terroristi neri più o meno pentiti, pensiamo agli intellettuali che firmarono il delirante manifesto contro il commissario Calabresi, eccetera, eccetera.
Si potrebbe suggerire: se non siete cattolici, puntate sulle tecniche psicanalitiche o psichiatriche.
Eviteremmo molti dei “ragionamenti”, dei “riferimenti al contesto”, delle immersioni nella “complessità” che questa gente riesce a percorrere per non dire chiaramente: ho fatto, detto, scritto cavolate: scusate. Ero immaturo.
La religione cattolica possiede un modo antico per liberarsi del peccato e, di conseguenza, del rimorso: la confessione.
Ed ecco che l’ateo Marco Bellocchio è ricorso alla confessione attraverso un film. Non si è confessato a Dio tramite un prete, ma a se stesso, a noi, alla sua famiglia, che ha coinvolto nelle figure superstiti – soprattutto i due anziani fratelli (il film è del 2021) – in questa operazione di riconoscimento delle proprie colpe.
Si è confessato ai figli, che, forse, sono troppo giovani per capire che siamo tutti peccatori e gli rivolgono uno sguardo da giudici severi.
Soprattutto la figlia lo guarda, a me sembra, con un’aria di rimprovero, che lui accetta, mentre rende una confessione totale, sincera, senza alcuna difesa o ricerca di attenuanti o scuse. Si capisce quanto deve essergli pesato il rimorso.
Non si può tornare indietro, purtroppo.
Se gli assassini ex brigatisti, terroristi rossi o neri, se gli intellettuali che firmarono un manifesto di condanna del commissario Calabresi senza una sentenza dei giudici (di fatto, una istigazione all’omicidio che puntualmente avvenne) fossero capaci di coprirsi la testa di cenere, come fa Marco Bellocchio in questo film, credo che potrebbero sperare nell’assoluzione, potrebbero riuscire a perdonarsi.
In “Marx può aspettare” interviene anche un prete amico (credo gesuita) a rassicurarlo: con i tuoi film ti sei confessato, potrei darti l’assoluzione e recitare per te le Ave Maria che servono a completare il rito con la penitenza.
Spero con tutto il cuore che ora Marco Bellocchio si senta meglio.