7 maggio 2021 h 17.25
Cinema Adriano Firenze – via Giandomenico Romagnosi, 46

La Storia siamo noi
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Un dubbio frulla per la testa mentre si guarda questo film: tre giovani che nell’ottobre del 1989 progettano una vacanza a Budapest con l’intenzione di vendere reggiseni e mutandine nei mercati ungheresi sono cinici, ignoranti o coglioni?
Basta vedere come si muovono e il dubbio si risolve rapidamente.

Il fiorino, in quegli anni, nel mercato reale, si svalutava continuamente, non aveva il valore fittizio imposto dal governo ungherese.
L’economia parallela dei regimi comunisti, sotto la “tutela” dell’Unione Sovietica, si era risolta in un completo fallimento e stava per dissolversi come si dissolve un incubo dopo il risveglio.

A Budapest il mercato nero delle monete era presente ovunque: in ogni bar, ristorante, albergo, in ogni casa dove trovavi alloggio, persone normali, educate, cólte, riservate, ti chiedevano timidamente se volevi cambiare dollari, marchi tedeschi, lire italiane; la gente sapeva che la bolla stava per scoppiare e cercava di proteggere i risparmi dalle conseguenze; convertiva i fiorini in monete forti (dollaro e marco) o in monete che avevano un valore reale, come la lira, e le conservava dentro il materasso, in attesa del crollo del regime.
Nonostante le minacce, la presenza di spie, i richiami alla solidarietà verso un sistema estraneo alla loro cultura profonda (nel 1956 c’era stata una rivolta repressa nel sangue) gli ungheresi cercavano di liberarsi dei fiorini, che avevano un valore reale equivalente alla carta straccia.
Si poteva fare una vacanza da gran signori spendendo poche lire: gli italiani non avevano bisogno di vendere mutandine e reggiseni per strada o nei mercatini, dove, peraltro, in un paese sottoposto a rigidi controlli polizieschi, era prevedibile che sarebbero stati immediatamente bloccati.

All’Università di Debrecen, dove, alla fine degli anni ottanta, poco prima del crollo dei regimi comunisti, seguivo un corso estivo di cultura magiara, una ragazza suonava e cantava i canti popolari ungheresi.
Per agevolarci nella comprensione, dava a ciascuno dei partecipanti alla lezione – un centinaio di giovani provenienti da ogni parte del mondo, soprattutto dai paesi comunisti – un foglio dove erano le note e il testo in lingua originale e tradotto in inglese. Rimasi sconvolto quando scoprii che tutti i fogli erano stati pazientemente compilati a mano. La fotocopiatrice era chiusa nell’ufficio del rettore dell’università.
Parlo di anni in cui, da noi, si diffondevano computer e stampanti e si andava in giro con macchine molto più evolute delle Trabant.

Arrivati a Budapest, i tre coglioni, cinici e ignoranti (questa è la risoluzione del dubbio iniziale) scoprono che nel 1989 l’Ungheria ha aperto le frontiere con l’Austria: migliaia di chilometri di filo spinato sono stati smantellati con una cerimonia ufficiale, finalizzata a parare il culo ai governanti comunisti che avevano capito prima degli altri la direzione del vento e cercavano di evitare (ci riuscirono) che si trasformasse in tempesta.
La cosa buffa è che i magiari eliminarono il filo spinato e stettero ad aspettare eventuali reazioni dell’Unione Sovietica.
Quando scoprirono che Gorbaciov non reagiva, rimisero alcuni chilometri di filo spinato per poterlo eliminare con una cerimonia ufficiale.
In conseguenza dell’apertura delle frontiere, alla fine degli anni ottanta gli ungheresi non avevano interesse a comprare per strada i prodotti di consumo occidentali: potevano procurarseli nei negozi autorizzati a importarli, spendendo un po’ dei soldi conservati in monete vere per comprare i jeans; in quegli anni a Budapest fu aperto uno dei primi MacDonald in un paese comunista (forse il primo), in Régiposta utca.
Nei mercati si trovavano prodotti provenienti dalla campagna, fra i quali soprattutto i peperoni, i peperoncini (paprika), freschi o essiccati, le cipolle, le patate che, con la carne, sono gli ingredienti del piatto nazionale: il gulash (gulyás).
L’Ungheria aveva a quei tempi un livello economico più alto degli altri paesi del patto di Varsavia e un’antica tradizione di dignità, di cultura e di fierezza che il regime non era riuscito a scalfire e rendeva i suoi abitanti particolarmente riservati.
I tre coglioni si rammaricano dell’apertura delle frontiere tra Ungheria e Austria che precede la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; pensano unicamente ai loro piccoli, meschini interessi e non approfittano della vacanza per cercare di ridurre, almeno di poco, il vuoto mentale che li affligge. Nel film sembra che una visita al Castello di Buda, al Bastione dei pescatori, alla Chiesa di Mattia, alla Basilica di Santo Stefano Re, non rientri nei loro programmi.
Non hanno interessi culturali e dunque decidono di lasciare l’Ungheria e trasferirsi nella Romania di Ceausescu con l’intenzione di provare a vendere mutandine e reggiseni in un paese che alla fine degli anni ottanta è dominato con pugno di ferro da una dittatura feroce.
Sostanzialmente i tre coglioni volevano cercare di prendere soldi a gente che faceva file lunghissime per non morire di fame ed era obbligata a utilizzare come moneta il leu: pezzi di carta disegnata di valore inferiore alla carta igienica, che da quelle parti era un bene raro.
Durante il trasferimento in macchina dall’Ungheria alla Romania i tre fanno una cazzata dopo l’altra, mettendo per giunta in pericolo una povera famiglia romena perseguitata dal regime.

Il film è tratto da un libro, pare autobiografico (ognuno ha l’autobiografia che merita).

Che si può dire? I tre attori non sembrano giovani del 1989: è una mia impressione (ho conosciuto bene i giovani di quegli anni), soprattutto non hanno la faccia da coglioni dei personaggi che interpretano.
Il comportamento dei protagonisti è così assurdo, superficiale e isterico (la lite davanti alla guardia di frontiera, il lancio della valigia dalla macchina in moto) da far perdere qualcosa di buono che pure c’è in questo film: alcune scene negli ambienti originali o ricostruiti, dove la recitazione degli attori romeni e delle comparse è efficace e riesce a restituire un clima di paura diffuso, in quegli anni, nei paesi del cosiddetto socialismo reale.

Di buono da vedere c’è il grugno tra sorpreso, incerto e disperato di Ceausescu quando, nel dicembre del 1989, la folla in piazza lo contesta, prima di legarlo con uno spago insieme alla degna consorte e di ammazzarlo, salvando, in questo modo, i complici e le bestie affini che avevano contribuito a tenere in piedi il regime.