2 marzo 2022 h 18.00
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

La Storia siamo noi
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L’invasione di una nazione – attuata con feroce determinazione dal dittatore russo in dispregio di tutte le regole del diritto internazionale – non è la prima guerra che abbiamo vissuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ne abbiamo viste altre, alcune interne agli stati: le cosiddette guerre civili.
Saranno state civili, ne dubito, ma si è trattato di guerre (esplosioni, morti, feriti, case distrutte). Le proporzioni sono diverse, ma non è il caso di paragonare tra loro le guerre in base alla conta dei morti. Anche se, in conseguenza di una cosiddetta guerra civile, ci fossero state poche centinaia, o decine, di morti, quella guerra ha avuto la stessa assurdità, la stessa ferocia, di un conflitto mondiale.

Uno dei conflitti interni paragonabili a una guerra civile ebbe come teatro l’Irlanda del Nord, quella fetta di Irlanda rimasta, dopo molte vicissitudini, in possesso alla Gran Bretagna; una guerra durata trent’anni e finita con l’Accordo del Venerdì Santo (1998), siglato negli stessi anni dell’entrata della Gran Bretagna nell’Unione Europea (1993).

È superfluo dire che la Brexit mette in pericolo la pace raggiunta nell’Irlanda del Nord, perché i motivi di conflitto di sovranità, che affondano nei secoli, si superano costruendo organismi sovranazionali.

Se ci mettiamo a discutere: i tuoi antenati si sono impossessati di un territorio che apparteneva ai miei antenati, il mio bisnonno è stato ucciso dal tuo prozio di terzo grado, … non ne usciamo più.
Naturalmente questo discorso non riguarda le dittature, che hanno sempre torto, per definizione: hanno torto anche quando, apparentemente, hanno ragione.

Avevano torto i militari argentini nei confronti della Gran Bretagna nella guerra delle Falkland (guerra de las Malvinas, 1982), perché in Argentina, a quei tempi, c’era un regime dittatoriale feroce (del quale quella guerra fu l’ultimo atto, inglorioso) e il Regno Unito è una democrazia liberale.
Nel confronto con una dittatura, una democrazia ha sempre ragione, indipendentemente dal merito.

Il regime putiniano, succeduto al regime sovietico, non contempla la separazione dei poteri, non consente la libertà di stampa, dunque, tecnicamente, è una dittatura.
Un fantoccio gonfio di psicofarmaci – o affetto da una malattia che il “capo” non può ammettere (sarebbe un segno di debolezza) – decide tutto: la pace, la guerra, le riforme economiche, la soppressione dei nemici. Il presunto mandante di assassini si permette addirittura di riscrivere la storia. “L’Ucraina non esiste”: chi l’ha detto? L’ha deciso lui.
Putin è cresciuto in un mondo arcaico (l’Unione Sovietica di infausta memoria), è stato educato dal KGB e non è abbastanza intelligente da superare questi limiti. Ha preso il potere dalle mani di un ubriacone (Eltsin) nel momento del crollo del sistema sovietico.
Io sono di parte, ma mettendo insieme i due elementi (ubriacone e spia) penso immediatamente al ricatto.

Quando c’è un confronto tra una dittatura e una democrazia non si discute nel merito: la dittatura ha torto. In determinati momenti della storia è stato necessario venire a patti con una dittatura, anche ora può essere necessario, ma senza dimenticare l’obiettivo: agevolarne la fine.
Fino a che punto l’Ucraina è una democrazia? Possiamo discuterne. I paesi che hanno dovuto aspettare il crollo dell’Unione Sovietica per riuscire a intravedere un po’ di luce manifestano problemi di vario tipo nel passaggio verso un’organizzazione pienamente democratica e rispettosa dei diritti. Sono problemi presenti in Polonia, in Ungheria … in Ucraina. La situazione è resa più difficile dall’ideologia revanscista e dalle mire espansioniste della Russia putiniana, che ha operato in modo da destabilizzare i paesi confinanti.

Federico Rampini ha ragione.
[La7, InOnda]
«Putin si sta costruendo l’alibi. Il suo unico obiettivo è attaccare noi, fare guerra con la NATO. A Firenze [12 marzo, piazza Santa Croce colma di affetto per un popolo martoriato (nota mia)] il presidente ucraino ha detto che i leader europei e della Nato sono come i signori riuniti al bar che guardano le immagini di una guerra lontana e non sanno che sta per arrivare anche da loro. Putin l’ha detto che l’Ucraina non gli basta, poi vuole la Polonia e i Paesi baltici. Tra l’altro sta dichiarando che le sanzioni sono un atto di guerra, che chi fornisce armi fa un atto di guerra: è come se Putin stesse già precostituendo le giustificazioni dello scontro diretto, come se lo stesse cercando».

[Il Tempo.it, Giada Oricchio, 10/03/22]
“Come molti altri esperti e analisti, anche Federico Rampini si dice certo che Putin pensava di dividere l’Occidente e invece ha ottenuto il risultato opposto risvegliando l’unità, il nostro amor proprio e la volontà di difendere la democrazia: «La coesione fra Europa e Stati Uniti ha sorpreso tutti. L’arsenale di sanzioni economiche messe in campo è senza precedenti. I tedeschi cominciano a prendere sul serio la difesa; il progetto di esercito comune europeo potrebbe uscire da un letargo trentennale. Si sentono annunciare svolte energetiche drastiche per ridurre la dipendenza insostenibile dalla Russia. L’aggressione all’Ucraina è stata l’inizio di una presa di coscienza, perfino di una rinascita».
Tuttavia, osserva Rampini, Putin e Xi non credono a questa unità in nome della realpolitik: «Sembrano convinti che dietro la nostra apparente unità, ben presto l’opportunismo del business da una parte e le nostre fazioni anti-occidentali dall’altra, torneranno a dividerci»

Anch’io credo che se continuiamo a giocare la partita con il braccio legato dietro la schiena abbiamo già perso in partenza, non solo questa guerra, la successiva che il fantoccio provocherà; l’obiettivo di Putin è realizzare il sogno della “Grande Madre Russia” assoggettata al suo potere (un incubo); a lui non basta la neutralità dell’Ucraina, che Zelensky ha offerto sul tavolo delle trattative, vuole conquistare l’intero paese, sostituire la sua classe dirigente, farlo diventare una dépendance della Federazione Russa (come ha fatto con la Bielorussia), poi allargarsi, fino a raggiungere le dimensioni dell’Unione Sovietica. Bisogna fermarlo.
Allora che cosa si deve fare? Dichiarare la terza guerra mondiale?
No. Bisogna adoperare in modo ancora più deciso l’arma delle sanzioni, accettando le ripercussioni che si verificheranno nelle economie dei paesi democratici.
Nei momenti più duri della pandemia abbiamo fatto sacrifici enormi per evitare l’infezione, ci siamo chiusi in casa per mesi e anche ora giriamo con una stupida e scomoda mascherina attaccata alle orecchie.
Noi che abbiamo la fortuna di vivere in una democrazia (mentre tanti poveri disgraziati vivono in posti oppressi da una dittatura o da un regime religioso fondamentalista), dobbiamo accettare i sacrifici necessari per vincere la guerra, che è già iniziata, contro questo fantoccio probabilmente imbottito di psicofarmaci (guardare bene la sua faccia!). Secondo me è l’unico modo per fermarlo.
È vero che le sanzioni, purtroppo, non hanno cambiato il destino dell’Iran o della Corea del Nord, ma sono l’unica arma di cui disponiamo e vanno usate con la necessaria coerenza e fermezza, trovando accordi interni all’Unione Europea e con gli Stati Uniti, esattamente come si fa in guerra tra paesi alleati.
Perché la realtà è questa: siamo già in guerra, una guerra voluta dal dittatore russo; gli ucraini stanno difendendo sé stessi, ma stanno difendendo anche noi.
La buona notizia è che conquistare un paese libero non è stata, non sarà una passeggiata; tenerlo sotto il tallone sarà un incubo per il fantoccio dalla faccia gonfia (a me sembra). Noi, però, dobbiamo fare la nostra parte.

Torniamo alle cosiddette guerre civili (che di civile hanno solo il nome).

Se in un posto che ha conquistato la democrazia (non solo le elezioni: la separazione dei poteri e la libertà di stampa) due fazioni sono in guerra tra loro perché ognuna vorrebbe avere la sovranità sull’intera regione a danno dell’altra, basta che la sovranità, o parte di essa, sia trasferita a una organizzazione democratica più ampia perché si dissolvano i motivi della guerra civile.

Che senso avevano le farneticazioni separatiste dei bossiani della prima ora? Sto parlando dei fanatici del matrimonio celtico, del celodurismo e delle ridicole benedizioni con l’acqua del Po.
In Italia queste cazzate avevano un senso: un senso comico, da barzelletta grossolana dei cinepanettoni di una volta, ma l’avevano. In Europa non hanno alcun senso; infatti le farneticazioni si sono dissolte quando il progetto europeo (inutilmente avversato dai leghisti) si è concretizzato e, con il PNRR, si è notevolmente rafforzato.

Consolidata l’Europa, lo stato libero di padania, sognato come lo stato libero di bananas dai bossiani (avevano addirittura scelto un inno e si alzavano in piedi compunti quando partiva il nostro Va pensiero) se n’è andato a farsi fottere e, giustamente, l’abbiamo dimenticato.

Hanno contribuito a farlo dimenticare i soldi spariti, gli imbrogli vari, l’allevamento di trote a danno dei contribuenti e le condanne definitive, ma, soprattutto, ha contribuito l’Europa.

Fatta questa premessa (si sa che mi allargo con le premesse), parliamo del film.

Il grande attore shakespeariano e regista Kenneth Branagh, nato a Belfast nel 1960, aveva nove anni quando scoppiarono i moti violenti che coinvolsero protestanti, cattolici ed esercito britannico chiamato a reprimerli e a mettere ordine. I disordini che ho chiamato guerra civile, allargando di molto il concetto, furono chiamati “The Troubles”: i guai, i problemi, le difficoltà.

Giunto alle soglie della vecchiaia, come ha fatto Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, il regista si è guardato indietro e ha ricordato l’infanzia vissuta a Belfast, capitale dell’Irlanda del Nord, alla fine degli anni sessanta, proprio quando scoppiavano i troubles, che durarono trent’anni.

Il regista racconta i genitori giovani, i nonni, i vicini di casa, la scuola elementare, i metodi d’insegnamento della maestra – che spingeva molto sulla competizione – i compagni di scuola e di strada, l’amichetta che lo coinvolse in una banda di ragazzini, l’innamoramento infantile per la prima della classe, una bambina di famiglia cattolica.

Racconta con tenerezza infinita le chiacchiere con il nonno, le battute della nonna, le esplorazioni tra i vicoli e i cortili di un quartiere di Belfast, dove tutti si conoscevano e la strada non era un ambiente estraneo, ma un’estensione della casa.

Come sono bravi Ciarán Hinds e Judi Dench, i due attori che interpretano i nonni di Buddy! Quanta naturalezza nel loro modo di recitare!
Com’è bravo Jude Hill, che interpreta Buddy (il regista da bambino)!

Classe operaia, difficoltà economiche, casa piccola, water in uno stretto sgabuzzino nel cortile. Un water grande come il trono della regina, su cui il nonno si sedeva come un re, quando chiacchierava con Buddy, tenendo il coperchio di legno abbassato, naturalmente, e la porta dello sgabuzzino aperta. Il bambino gli raccontava le sue pene d’amore infantili, mentre la nonna, seduta su una sedia a sdraio, ricamava o cuciva e ogni tanto interveniva con una battuta pungente.

Che quadretto dickensiano ha saputo disegnare Kenneth Branagh! Viene in mente Peggotty che chiacchiera con David e imprime nell’animo del bambino, e del lettore, l’amore per la vecchia governante. Ma quanti bambini oggi leggono David Copperfield?

Il padre di Buddy, carpentiere, è costretto a lavorare a Londra, a stare lontano dalla famiglia anche quando la follia prende il sopravvento.
La famiglia è protestante; formalmente protestante, come altre famiglie sono formalmente cattoliche.
Alla fine degli anni sessanta la religione, da noi, era diventata un fatto formale, una tradizione di cui ci si ricordava in occasione delle feste: Natale, Pasqua, o delle cerimonie: prima comunione, matrimonio, funerale.
Questo era accaduto un po’ dappertutto nel mondo occidentale, in ambiente cattolico, luterano, anglicano, eccetera.
Solo la nonna dà importanza alla religione, rappresentata da un prete sudato che terrorizza i bambini con le sue immagini di un bivio che porterebbe a un noioso paradiso o a uno spaventoso inferno. Si vede un disegno infantile del bivio che, scommetterei (anche se non posso esserne certo), il regista ha conservato tra i ricordi d’infanzia.

C’erano contrasti di vecchia data tra le due comunità (cattolici e protestanti), ma le persone ragionevoli, come i genitori di Buddy, riuscivano a convivere tranquillamente con i vicini, distinguendoli in base all’educazione e all’onestà, non per l’appartenenza a un gruppo.
Poi, improvvisa, l’esplosione della follia, a cui i suoi genitori non partecipano, ma devono sperimentare come sia difficile tenersi lontani dai facinorosi quando questi hanno trovato un motivo per tentare di emergere dalla propria nullità.

Per tutto il film il regista, con la sua capacità di far parlare le immagini e con la bravura dell’attore, assume, e ci fa assumere, il punto di vista di Buddy; a cominciare da quella sequenza iniziale, meravigliosa, in cui la cinepresa ruota intorno alla testa del bambino che guarda il mondo intorno a sé. Viviamo la sua curiosità, la sua ansia di scoprire il mondo; viviamo l’allegria, la paura, la disperazione di Buddy («Non voglio andare via da qui»).

Per non farsi coinvolgere dai violenti, che sfiorano la sua famiglia, e per trovare un lavoro fisso e una casa grande con un giardino e il bagno in casa («Che c’è di male se il water si trova nel cortile?», dice il nonno), il padre decide di emigrare a Londra.

Voglio rivedere questo film quando lo faranno all’Odeon o allo Spazio Uno in lingua originale.
So, per esperienza, che sarà difficile capire il modo di parlare inglese degli irlandesi (mi aiuterò con le didascalie), a cui fa cenno la madre di Buddy quando dice al marito: «Vuoi che ci trasferiamo in un posto (Londra) dove la gente capirà subito dal nostro modo di parlare da dove veniamo?», «Qui tutti ci conoscono, ci capiscono quando parliamo».
Cantava l’Equipe 84 – Casa mia (Luigi Albertelli, Roberto Soffici)
«Torno a casa
Siamo in tanti sul treno
Occhi stanchi
Ma nel cuore il sereno
Dopo tanti mesi di lavoro mi riposerò
Dietro quella porta le mie cose io ritroverò
La mia lingua sentirò
Quel che dico capirò
…»

«Quel che dico capirò». Mi ha sempre colpito questo verso.
È dura emigrare. Non è mai una passeggiata, neanche per persone che si troveranno in un posto dove si parla la stessa lingua con accento diverso.
È dura lasciare la tana in cui si è nati e si sono fatti i primi passi.
Ma per crescere non c’è altro modo. Avrebbe mai immaginato, la mamma di Kenneth, che il figlio sarebbe diventato uno dei più grandi interpreti dei drammi di Shakespeare, nonostante da bambino sicuramente avesse un forte accento irlandese?
L’ultima scena del film, con la nonna che rimane sola a Belfast, dopo la morte del nonno, mentre Buddy è in viaggio con la famiglia per raggiungere un nuovo mondo (la “lontana” Londra) segnala la chiusura di un capitolo, a cui seguirà il primo capitolo di una nuova vita.

Mi ha fatto piacere vedere questo film al cinema Principe di Firenze perché ho avuto l’occasione di percorrere via San Gallo. Mi piace molto questa via, per i motivi che ho elencato nel commento del 13 gennaio 2019 al film Vice L’uomo nell’ombra (regia di Adam McKay); uno dei motivi è la presenza dell’antico basolato sconnesso che mi ricorda le vie intorno all’Università Federico II di Napoli. Spero che il Comune non lo sostituisca, perché le imperfezioni fanno parte della storia e della bellezza di questa via.
Come l’antica trattoria della foto in testa al commento.
Trascrivo gli avvisi che si intravedono nella vetrina.

A sinistra in alto: Sparpagliatevi, maremma maiala! (è la traduzione dell’anticovidiano “Divieto di assembramento”).
A sinistra in basso: In questo locale si pratica e preserva l’antica arte della Goliardia. Coloro che si prendono troppo sul serio sono pregati di accomodarsi ALTROVE.
A destra, sotto una foto di Luciano Pavarotti seduto a un tavolo con amici, è scritto: In questo locale NON serviamo carne ben cotta – No well done meat here.

Un’affermazione della propria identità: noi non cambiamo per adeguarci alle vostre richieste; se non vi va come siamo: il mondo è grande, accomodatevi da un’altra parte.