
6 ottobre 2023 h 17.15
Cinema Adriano Firenze – via Giandomenico Romagnosi, 46
Altri film del regista: // The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun // Isle of Dogs [L’isola dei cani] //
Tra realtà e finzione, l’arte dell’illusione
// Povere creature! [Poor things] // Asteroid City // Gli ultimi giorni dell’umanità // Babylon // Everything Everywhere All At Once // Finale a sorpresa // La fiera delle illusioni // Otto e mezzo // The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun // C’era una volta a Hollywood // Notti magiche //
(Aggiornamento maggio 2025)
“Asteroid City”, regia di Wes Anderson.
Piccola parentesi: ho letto solo commenti elogiativi del primo film dello sceneggiatore di Sorrentino, premio Oscar eccetera. L’ho visto, annoiandomi, da solo in una sala vuota – quasi vuota perché almeno io c’ero – all’Eden di Prato; poi ho trovato una messe di elogi per il film e per il suo autore: gente che ne parlava come di un capolavoro. Ne ho dedotto: o io non capisco nulla di cinema o siamo di fronte al solito circolo degli amici che si finanziano e si elogiano tra di loro. Se mi è consentito, preferisco la seconda ipotesi.
Chiusa la parentesi.
Su “Asteroid City”, come su tutti i film di Wes Anderson, ci sono opinioni diverse. A me è molto piaciuto; è raggiungibile sulle piattaforme, anche se “la morte sua”, nel senso di migliore performance, è sul grande schermo.
Apparentemente nei film di questo regista tutto è improvvisato; in realtà nulla è lasciato al caso. La macchina da presa va in giro senza vincoli, nessuna limitazione imposta dalla logica del racconto.
Questo normalmente è un difetto. Se manca un racconto lineare, il film ci disorienta, non ci piace. Non accade con i film di Wes Anderson. Ci piacciono così, un po’ sconclusionati.
La trama è caotica perché la vita è caotica e il regista si diverte nel raccontarla.
Ci cattura con i suoi colori pastello e con i suoi giochini ai quali partecipano volentieri grandi attori disposti a interpretare particine improbabili per divertirsi a fare cinema.
Come in tutti i film di Wes Anderson, il cast è stellare.
Nessuno dice no a questo regista, pur sapendo che non cede al divismo: un attore famoso può trovarsi a fare la comparsa o a dire in tutto una o due battute. Questo accade senza l’alone di culto che accompagna i cosiddetti cameo (famosi quelli di Hitchcock).
Nel film il drammaturgo Conrad Earp, mentre, chiuso nello studio, batte e ribatte sui tasti della macchina per scrivere, riceve quasi in sogno un attore che mette la barba finta, una pipa in bocca, e si trasforma nel personaggio al quale sta cercando di dare vita. Conrad esclama: sei perfetto! Lo abbraccia. Come in “Sei personaggi in cerca d’autore”, il personaggio si è materializzato. Naturalmente è tutta una finzione, una illusione, un “imbroglio sul lenzuolo” (mbruogliə int’ó lənzuolə). Esistono solo Wes Anderson e i suoi fili.
La trama di Asteroid City è la storia raccontata dallo scrittore immaginario Conrad Earp: un gruppo di studenti inventori superintelligenti convergono con i loro genitori in una cittadina per il premio Junior Stargazer. Vediamo alternativamente lo scrittore impegnato a scrivere la sceneggiatura e la sceneggiatura (il convegno) realizzata.
Conviene lasciarsi andare al flusso delle immagini accompagnate da una splendida colonna sonora, alle trovate e alle svolte continue del racconto.
Incipit. Studio televisivo americano anni cinquanta del novecento. Bianco e nero. Siamo su un palcoscenico; le telecamere riprendono e trasmettono su un televisore a valvole. Un presentatore imbrillantinato spiega: vedremo il dietro le quinte della creazione e della messa in scena di uno spettacolo teatrale; si rappresenta un’opera inesistente, dal nome fittizio, con personaggi fittizi, scritta da un drammaturgo, Conrad Earp, famoso per gli affreschi romantico/poetici della vita a ovest delle Montagne Rocciose.
Il presentatore racconta che si partirà dai primi momenti della creazione dell’opera, dalla macchina per scrivere su cui il drammaturgo, in veste da camera, batte e ribatte il testo interrompendosi solo per bere qualcosa di forte.
Aggiunge, a mo’ di conclusione: «C’è poco da divertirsi a vedere un uomo che continua per mesi a rivedere, lucidare, montare, smontare, riscrivere, tagliare, scarabocchiare e bere da solo».
The French Dispatch, il film precedente di Wes Anderson, si svolgeva in una città immaginaria (Ennui-sur-Blasé, in Francia); Asteroid City si svolge nella cittadina che dà il nome al film, immaginaria anch’essa, situata nel deserto del New Mexico, non lontano da Los Alamos, il posto in cui durante la seconda guerra mondiale scienziati provenienti da tutto il mondo, guidati da Robert Oppenheimer, costruirono la prima bomba nucleare.
Dopo la resa del Giappone e la fine della guerra, gli esperimenti continuarono col progetto bomba H. Le persone convenute ad Asteroid City per partecipare al premio sentono, ogni tanto, un botto e vedono all’orizzonte alzarsi un grazioso fungo atomico. Oramai a Los Alamos fa parte del panorama.
Siamo nel 1955. In quegli anni Oppenheimer, dopo il “successo” ottenuto negli anni precedenti, fu sottoposto a controlli e interrogatori asfissianti dai servizi segreti a causa della moglie, dell’amante, del fratello e degli amici comunisti, ma soprattutto a causa della sua opposizione alla proliferazione nucleare; la persecuzione si risolse in un nulla di fatto: gli esperimenti furono rallentati, lo scienziato fu riabilitato.
Questo nella realtà. Nel film di Wes Anderson la bomba è un fungo di fumo, aria e scorie radioattive che gli abitanti della cittadina non guardano, tanto sono abituati alla sua presenza.
Un passo indietro (ho scritto che la trama è un po’ confusa, anche il commento deve esserlo).
Eravamo al bianco e nero, al palcoscenico e al presentatore.
Vediamo il drammaturgo, che ha battuto e ribattuto sui tasti della macchina per scrivere, alla prima rappresentazione del testo; si alza e, rivolgendosi direttamente a noi che lo guardiamo sullo schermo, legge dal manoscritto. Cambio di scena: la sceneggiatura si realizza, comincia il film nel film, il lunghissimo incipit è finito. Titoli di testa.
È questo ciò che intendo quando scrivo: “è cinema”. Voglio dire che si tratta di un modo di raccontare che solo il cinema può consentire a un autore, utilizzato in letteratura per esperimenti di difficile interpretazione (vedi Ulysses di Joice).
Negli anni cinquanta si afferma il neorealismo: severo, malinconico e molto apprezzato, in particolare in America. Nel 1956 esce “Il settimo sigillo”, di Ingmar Bergman. Tra i personaggi c’è la morte, armata di una lunga falce e di una sega che utilizza per tagliare il ramo su cui il personaggio si è sistemato per passare la notte. Neorealismo, Bergman, primi vagiti della Nouvelle Vague.
Wes Anderson salta la zona riflessiva del cinema e si riferisce visivamente ai film spettacolari, ai western, a Brodway, al campo visivo largo del cinemascope, di cui un esempio clamoroso (grande successo) fu Il ponte sul fiume Kwai, di David Lean (1957).
Lo schermo si riempie di colori pastello.
Gli oggetti in miniatura con i quali al regista piace giocare prendono vita: il treno merci, l’uccellino ballerino, il cratere causato dall’impatto con un asteroide, la gabbietta contenente il meteorite, la stazione di servizio, le stanze del motel, vecchi modelli Chrysler e Ford che sembrano le macchine dei cartoni animati di Walt Disney; un missile balistico con in evidenza l’etichetta “testata nucleare da dieci megatoni; attenzione, non detonare senza l’approvazione presidenziale”; le rovine di una superstrada interrotta; il bancone di un caffè; tra i distributori automatici ce n’è uno che distribuisce piccoli appezzamenti di terreno compresi tra i bungalow: basta mettere dieci dollari e esce fuori il contratto firmato dal notaio; sullo sfondo i cactus e i monti disegnati. Tra i personaggi sopra le righe probabilmente si aggira il padre del bullo oppure, ignorando l’unità di tempo, luogo e azione, lo stesso Donald dal ciuffo giallastro.
In una gabbietta è conservato un meteorite. Arriva un extraterrestre; scende da una navicella spaziale a struttura esagonale. Non ha voglia di invaderci, è solo incuriosito da noi. Ci osserva con attenzione, guarda noi che lo guardiamo, solleva la gabbietta, risale nella navicella spaziale e si porta via il meteorite; alla fine del film ritornerà e ce lo restituirà.
Probabilmente gli altri abitanti dell’universo hanno raggiunto un livello di civiltà talmente superiore al nostro da non sapere che farsene di un sasso spaziale. Ci fanno paura perché l’homo sapiens ha sempre distrutto chi possedeva meno armi: si potrebbe fare l’elenco delle civiltà cancellate dall’arrivo di popolazioni più evolute, a cominciare dai nostri cugini sfortunati (l’uomo di Neanderthal) estinti dopo averci incontrati quando i nostri antenati si spostarono dall’Africa all’Europa approfittando della glaciazione che aveva di molto ridotto la profondità del Mediterraneo.
Noi abbiamo paura degli extraterrestri perché sappiamo come ci comporteremmo se scoprissimo una civiltà meno evoluta della nostra.
Le miniature utilizzate da Wes Anderson per realizzare le illusioni ottiche presenti nel film sono state esposte a Milano (fondazione Prada) e in parte sono visibili on line.
È molto divertente guardare questi giocattoli, in particolare il trenino; anche dopo averli visti, la mente si fa illudere volentieri dallo schermo e dall’abilità del regista nel manipolarlo.
È un gioco; dentro al gioco ci sono cose pesantissime e profonde, non meno di quelle presenti nei film di Bergman o di Antonioni. Esempio: Augie Steenbeck non riesce a comunicare ai suoi quattro figli (tre bambine e un adolescente), che la mamma è morta e la sua cenere si trova nell’urna (un contenitore di plastica) che hanno portato con sé nel viaggio in macchina verso Asteroid City. Poi si decide e parla ai figli, aggiunge un ricordo personale (vado a memoria): «Quando morì mio padre, mia madre mi disse: è andato nelle stelle. Io le risposi che la stella più vicina dista quattro anni luce e mezzo e ha una temperatura superficiale di milioni di gradi. No. Mio padre è nel terreno. Un’altra cosa sbagliata mi disse mia madre: il tempo cancella il dolore. Non è vero: il tempo è un cerotto, attutisce il dolore; in realtà non sappiamo che cosa sia il tempo».
Bisogna convenire: non sappiamo che cosa sia il tempo, è proprio così.
Le bambine non hanno capito bene; intanto decidono di seppellire le ceneri della madre in un buco scavato da loro. Credono che possa tornare viva, come per magia. Alla fine il babbo e il nonno dovranno accontentarle: non possono togliere la speranza alle tre bambine. Accettano una piccola cerimonia inventata da loro.
Continuamente si passa dal film (a colori) al palcoscenico (in bianco e nero) dove l’opera teatrale viene rappresentata, riuscendo, qualche volta, a confonderci.
Anche il presentatore si confonde; una scena divertentissima: entra col suo abito blu, finora era nero, guarda gli altri attori e, in piena confusione e imbarazzo, dice: «Non dovevo essere qui, vero?». Esce di scena.
Wes Anderson gioca, col suo film e con noi.
La macchina da presa si guarda intorno; il fotografo di guerra Augie Steenbeck ferma le immagini con la sua bellissima macchina fotografica, sviluppa le fotografie e le appende ad asciugare. Gesti antichi. Non tanto antichi nella storia dell’umanità, antichi nella storia individuale di molti, vissuti nell’epoca della fotografia analogica. Io ho avvertito un rimpianto in queste scene, ma è vero che ognuno vede il suo film.
Jarvis Cocker, nella canzone che accompagna i titoli di coda, ci ricorda: «You can’t wake up if you don’t fall asleep, non puoi svegliarti se non ti addormenti; you can’t fall in love and land on your feet, non puoi innamorarti e restare in equilibrio; you won’t smell the roses if you never plant a seed, non avrai il profumo delle rose se non pianterai i semi; you never find a treasure unless you dig deep, non trovi un tesoro se non scavi profondo».
Wes Anderson ha provato a scavare profondo, senza dimenticare di divertirsi.