
6 ottobre 2023 h 17.15
Cinema Adriano Firenze – via Giandomenico Romagnosi, 46
Altri film del regista: // The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun // Isle of Dogs [L’isola dei cani] //
Tra realtà e finzione, l’arte dell’illusione
// Asteroid City // Gli ultimi giorni dell’umanità // Babylon // Everything Everywhere All At Once // Finale a sorpresa // La fiera delle illusioni // Otto e mezzo // The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun // C’era una volta a Hollywood // Notti magiche //
Wes Anderson fa un cinema bizzarro, allegro e triste, superficiale e profondo, molto intelligente; una festa per gli occhi e per la fantasia.
Nei suoi film sembra tutto improvvisato, in realtà nulla è lasciato al caso.
Il regista italiano più vicino allo stile di Wes Anderson è Antonio Capuano. Prima che qualcuno mi lanci uno sberleffo occorre precisare: il regista napoletano non dispone dei mezzi tecnici del regista americano, appartiene a una generazione diversa e ha una cultura diversa, come può essere diverso il golfo di Napoli dalla foce del fiume Hudson su cui sorge New York. Però Capuano fa il cinema come Anderson. Non a caso è il maestro riconosciuto di Paolo Sorrentino.
In Achille Tarallo c’è la libertà della macchina da presa, che va in giro senza nessun vincolo, nessuna limitazione imposta dalla logica del racconto.
Questo normalmente è un difetto. In generale: se manca una trama, il film non ci piace.
Non succede con Achille Tarallo, che seguiamo dall’inizio alla fine con interesse, anche se a volte ci si perde o non si capisce esattamente ciò che accade sullo schermo.
Non succede con Asteroid City. Cattura con i suoi colori pastello e i suoi giochini ai quali partecipano volentieri grandi attori disposti a interpretare particine improbabili, pur di divertirsi a fare cinema.
Come sempre accade nei film di Wes Anderson, il cast è stellare.
Nessuno dice no a questo regista, pur sapendo che non cede al divismo: un attore famoso può trovarsi a fare la comparsa o a dire in tutto una o due battute.
Allora perché sceglie attori importanti?
Perché ha in mente gli interpreti prima che il film sia accettato dai produttori e avviato alla realizzazione. Il film è completo con i dialoghi e i volti fin dalla prima stesura della sceneggiatura. Ci possono essere cambiamenti, ma il film è tutto nella mente di Wes. Ecco perché gli attori si affidano a lui, perché ha pensato a quell’interprete nel momento in cui ha concepito il personaggio.
Nel film il drammaturgo Conrad Earp riceve quasi in sogno un attore che gli porta un gelato, rompe una finestra per far passare l’aria (lo scrittore è chiuso nella stanza a battere e ribattere sui tasti della macchina per scrivere), mette la barba finta e una pipa in bocca e si trasforma nel personaggio. Conrad esclama: sei perfetto! E lo abbraccia.
Credo che qualcosa di simile capiti a Wes Anderson: essere visitato da un personaggio con le sembianze dell’attore che dovrà interpretarlo. Credo che molte volte abbia detto tra sé e sé: sei perfetto! E abbia abbracciato quell’immagine.
La trama di Asteroid City è semplicissima (un gruppo di studenti inventori e superintelligenti convergono con i loro genitori in una cittadina per il premio Junior Stargazer … eccetera), però entrano tanti personaggi e riferimenti ad altri film, alla storia, all’arte, che è difficile raccontarselo. Sto pensando a La morte di Marat di Jacques-Louis David, un quadro del Louvre richiamato in una scena: per me questo richiamo è un enigma.
Il suggerimento è di lasciarsi andare e godere il flusso delle immagini e la splendida colonna sonora. E divertirsi.
Incipit. Studio televisivo americano anni cinquanta del novecento. Bianco e nero. Palcoscenico; le telecamere riprendono e trasmettono su un televisore dell’epoca. Un presentatore imbrillantinato spiega e racconta: vedremo il dietro le quinte della creazione e della messa in scena di uno spettacolo teatrale.
Si rappresenta un’opera inesistente, dal nome fittizio, personaggi fittizi, scritta da un drammaturgo, Conrad Earp, famoso per gli affreschi romantico/poetici della vita a ovest delle Montagne Rocciose.
Il presentatore (mi viene in mente il “bravo presentatore” di arboriana memoria) fa partire il racconto dai primi momenti della creazione dell’opera, dalla macchina per scrivere su cui il drammaturgo in veste da camera batte e ribatte il testo interrompendosi solo per bere qualcosa di forte. Dopo averlo osservato per un po’, aggiunge: «C’è poco da divertirsi a vedere un uomo che batte sui tasti di una macchina per scrivere e continua per mesi a rivedere, lucidare, montare, smontare, riscrivere, tagliare, scarabocchiare e bere da solo».
The French Dispatch, il film precedente di Wes Anderson, si svolgeva in una città immaginaria (Ennui-sur-Blasé, in Francia); Asteroid City si svolge nella cittadina che dà il nome al film, immaginaria anch’essa, situata nel deserto del New Mexico, non lontano da Los Alamos, il posto in cui durante la seconda guerra mondiale scienziati provenienti da tutto il mondo, guidati da Robert Oppenheimer, costruirono la bomba nucleare.
In seguito gli esperimenti (progetto bomba H) continuarono, infatti le persone convenute ad Asteroid City ogni tanto sentono un botto e vedono all’orizzonte alzarsi il fungo atomico. Fa parte del panorama.
Siamo nel 1955. In quegli anni Oppenheimer, dopo il “successo” ottenuto negli anni precedenti, fu sottoposto a controlli e interrogatori asfissianti dai servizi segreti, a causa della moglie, dell’amante, del fratello e degli amici comunisti (la persecuzione si risolse in un nulla di fatto; lo scienziato fu riabilitato), ma anche a causa della sua opposizione alla proliferazione nucleare.
Questo nella realtà. Nel film di Wes Anderson la bomba è un grazioso funghetto di fumo, aria e scorie radioattive che gli abitanti della cittadina non guardano, tanto si sono abituati.
Un passo indietro.
Eravamo al bianco e nero, al palcoscenico e al bravo presentatore.
Il drammaturgo, che ha battuto e ribattuto sui tasti della macchina per scrivere, si trova alla prima rappresentazione del testo; si alza e, rivolgendosi direttamente a noi, legge dal manoscritto. La sceneggiatura si materializza sullo schermo. Fine dell’incipit, titoli di testa, comincia il film nel film.
Negli anni cinquanta nel cinema italiano si afferma il neorealismo: severo, malinconico e molto apprezzato in America. Nel 1956 esce Il settimo sigillo, di Ingmar Bergman; tra i personaggi c’è la morte, armata di una lunga falce e di una sega che utilizza per tagliare il ramo su cui l’attore si è sistemato per passare la notte. Wes Anderson sceglie di riferirsi visivamente ai film spettacolari, ai western, a Brodway, al campo visivo largo del cinemascope, di cui un esempio clamoroso (grande successo) fu Il ponte sul fiume Kwai, di David Lean (1957).
Lo schermo si riempie di colori pastello, di oggetti in miniatura con i quali al regista piace giocare, alternandoli con lo stop motion (commento a L’isola dei cani su questo sito): il treno merci, l’uccellino ballerino, il cratere causato dall’impatto con un asteroide, la gabbietta contenente il meteorite, la stazione di servizio, le stanze del motel, vecchi modelli Chrysler e Ford che sembrano le macchine dei fumetti e dei cartoni animati di Walt Disney; un missile balistico ha bene in evidenza l’etichetta “testata nucleare da dieci megatoni; attenzione, non detonare senza l’approvazione presidenziale”; le rovine di una superstrada interrotta; il bancone di un caffè; tra i distributori automatici ce n’è uno che distribuisce piccoli appezzamenti di terreno compresi tra i bungalow: basta mettere dieci dollari e esce fuori il contratto firmato dal notaio; sullo sfondo i cactus e i monti disegnati.
Arriva l’extraterrestre; scende da una navicella spaziale a struttura esagonale. Non ha voglia di invaderci; è solo incuriosito da noi. Ci osserva con attenzione, solleva la gabbietta e si porta via il meteorite; alla fine ritorna e ce lo restituisce con uno sghignazzo (non c’è nel film, ma si può immaginare, anche se non sappiamo in che modo un extraterrestre possa sghignazzare).
Probabilmente gli altri abitanti dell’universo hanno raggiunto un livello di civiltà talmente superiore al nostro da non sapere che farsene di un sasso spaziale. Ci fanno paura perché l’homo sapiens ha sempre distrutto chi possedeva meno armi: si potrebbe fare un elenco delle civiltà cancellate dall’arrivo di popolazioni più evolute, a cominciare dall’uomo di Neanderthal (i nostri cugini sfortunati). Gli extraterrestri non hanno paura di noi, sono solo incuriositi.
Le miniature utilizzate da Wes Anderson per realizzare le illusioni ottiche sono esposte attualmente a Milano (fondazione Prada) e in parte sono visibili on line.
Guardiamo i giocattoli, in particolare il trenino; eppure la mente si fa illudere volentieri.
È un gioco; dentro al gioco ci sono cose pesantissime e profonde, non meno di quelle presenti nei film di Bergman o di Antonioni. La morte, per esempio. Nella forma più atroce: la morte della mamma che il babbo non riesce a comunicare ai suoi quattro figli (tre bambine e un adolescente).
Quando Augie Steenbeck, il padre, si decide a dire ai figli che la mamma è nell’urna (un contenitore di plastica) che hanno portato con sé nel viaggio in macchina verso Asteroid City, aggiunge un ricordo personale (vado a memoria): quando morì mio padre, mia madre mi disse: è andato nelle stelle. Io le risposi che la stella più vicina dista quattro anni luce e mezzo e ha una temperatura superficiale di milioni di gradi. No. Mio padre è nel terreno. Un’altra cosa sbagliata mi disse mia madre: il tempo cancella il dolore. Non è vero: il tempo è un cerotto, attutisce il dolore; in realtà non sappiamo che cos’è il tempo.
Bisogna convenire: non sappiamo che cosa sia il tempo e che cosa sia la morte.
Le bambine non hanno capito bene, ma intanto decidono di seppellire le ceneri della madre in un buco scavato da loro, pensando che possa tornare viva con un incantesimo. Alla fine il babbo e il nonno dovranno accontentarle.
Continuamente si passa dal film (a colori) al palcoscenico (in bianco e nero) dove l’opera teatrale viene rappresentata, riuscendo, qualche volta, a confonderci.
Anche il presentatore si confonde; una scena divertentissima: entra col suo abito blu, finora era nero, guarda gli altri attori e, in piena confusione e imbarazzo, dice: non dovevo essere qui, vero? Esce di scena. Wes Anderson gioca, col suo film e con noi.
La macchina da presa si guarda intorno; il fotografo di guerra Augie Steenbeck, con la sua bellissima macchina fotografica analogica, ferma le immagini, sviluppa le fotografie e le appende ad asciugare. Gesti antichi. Non tanto antichi nella storia dell’umanità, antichi nella storia individuale di molti, nati o vissuti in quell’epoca.
C’è tanto, forse troppo, in questo film.
Jarvis Cocker, nella canzone che accompagna i titoli di coda, ci ricorda: you can’t wake up if you don’t fall asleep, non puoi svegliarti se non ti addormenti; you can’t fall in love and land on your feet, non puoi innamorarti e restare in equilibrio; you won’t smell the roses if you never plant a seed, non avrai il profumo delle rose se non pianterai i semi; you never find a treasure unless you dig deep, non trovi un tesoro se non scavi profondo.
Wes Anderson ha provato a scavare profondo, senza dimenticare di divertirsi.