9 febbraio 2022 h 17.30
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

Altro film del regista: // La forma dell’acqua //

Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
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Tra realtà e finzione, l’arte dell’illusione
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Guillermo Del Toro ha una passione per i mostri e un talento particolare per realizzarli o trovarli. In Nightmare Alley (Vicolo degli incubi) – titolo originale molto più efficace di La fiera delle illusioni, aggiunto per pigrizia dai distributori italiani – ne trova parecchi.
Nel film precedente, La forma dell’acqua (2017, visto nel 2018 e commentato su questo sito), ha creato un essere anfibio dotato di poteri straordinari: fa crescere i capelli, cura le ferite, alla fine salva la donna amata, la fa resuscitare, la porta nel proprio mondo – il mondo libero dell’acqua – anche lei divenuta anfibio, se è vero il ricordo del vecchio pittore, unico testimone sopravvissuto, se il suo ricordo non è un sogno. È una favola: il bene trionfa sul male, dopo averci fatto patire; noi ne usciamo “felici e contenti”.

La forma dell’acqua si svolge in America, in piena “guerra fredda”. C’è un’interessante inversione: i presunti mostri sono umani, i “normali” sono mostruosi.
I veri mostri sono:
– i militari americani, impegnati a contrastare l’invadenza dell’Impero Sovietico e a cancellare ogni forma di vita si presenti aliena rispetto al modello dei conservatori: moglie bionda, garrula e stupida, figli viziati, aggressivi e stupidi, macchinona;
– i militari sovietici, impegnati a contrastare con attività di spionaggio l’invadenza dell’Impero Americano, legati a una concezione del potere che giustifica omicidio, tortura, tradimento, purché vincano il partito comunista e i dirigenti stalinisti.
I veri umani, gli unici, sono tre personaggi:
– l’essere anfibio: è stato catturato e portato in America per essere studiato, torturato, ucciso, perché il colonnello non ammette che possa esistere una forma di vita intelligente (in senso biologico) diversa dalla sua;
– una povera ragazza sordomuta: vive in un appartamento pieno di cose vecchie, sopra un cinema semideserto che manda film americani classici;
– una grassa signora delle pulizie: giudica gli uomini da come lasciano i servizi igienici e fa sempre la scelta giusta, anche quando la scelta è pericolosa per una povera donna indifesa e le tremano le gambe dalla paura.
In questo film i mostri non sono quelli che sembrano tali.

In Nightmare Alley la mostruosità apparente (nel senso che appare, è fisica o psicologica) corrisponde a una mostruosità reale, profonda: i personaggi che hanno l’apparenza di mostri lo sono per davvero, della peggiore specie, di quelli cattivi, come i freak delle scene finali di Freaks – Tod Browning, 1932, un capolavoro che ho rivisto da poco e consiglio di vedere a chi ama il cinema – quando vendicano Hans, il nano, uno di loro, e si lanciano con i coltelli tra i denti a deformare e rendere mostruosa la trapezista Cleopatra che ha illuso e tentato di uccidere il loro amico.

Anche i mostri di quest’ultimo film di Guillermo Del Toro sono feroci, fanno paura, non hanno il senso di fraternità che contraddistingueva i freak di Tod Browning («Chi tocca uno di noi tocca tutti»).
I mostri di Nightmare Alley proteggono solo sé stessi, il compagno, la compagna, l’amico, la figlia dell’amico: un mondo minimo, fatto di poche persone dentro alla galassia enorme del Luna Park. Niente grandi famiglie circensi, solo famiglie minime: uomini e donne soli; non si vede un bambino. Nessuna solidarietà con i propri simili; degli altri disgraziati i mostri si disinteressano, se sentono gemiti fingono di non sentirli, se vedono una violenza si girano dall’altra parte.
Nonostante l’apparente vita di artisti nomadi bohémien, il male è il loro pane quotidiano.

Tutti sanno che Clem tiene un uomo prigioniero, ridotto come una bestia; nessuno inorridisce, nessuno cerca di liberarlo. I mostri sanno che in una gabbia non tanto nascosta, sotto una tenda piena di attrezzi e di sudiciume, un uomo viene torturato, tenuto in condizioni bestiali, costretto a succhiare il sangue di una gallina per sopravvivere. Se riesce a scappare, partecipano alla caccia con impegno; se si ammala o rimane ferito, lo abbandonano sotto la pioggia. Nessuna umanità.
Che altro ci vuole per richiamare il nazismo, che nell’anno a cui il film si riferisce (1941) sembrava inarrestabile in Europa?

Clem è l’organizzatore spietato, efficiente, razionale, della tortura: è il gerarca a capo del lager. Gli altri sono complici attivi, complici che fingono di non sapere, kapò e vittime.
I mostri vendono la propria mostruosità, fisica o psicologica, la esibiscono per vivere, sentendosi in diritto di sfruttare la curiosità dei guardoni che pagano per vederli.
Festeggiano quando Stanton, il personaggio principale, riesce a imbrogliare lo sceriffo locale che vuole chiudere il baraccone e impedire l’esibizione di tanta crudeltà.

In quest’ultimo film di Guillermo Del Toro è come se fossero diventati, fossimo diventati, tutti mostri: gli illusionisti di vario genere, il nano, l’uomo forzuto che ha male alle gambe, gli spettatori delle esibizioni crudeli, noi spettatori del film, il regista che esibisce la sua capacità di realizzare scene sadiche, gli attori, tra i quali principalmente Bradley Cooper e Willem Dafoe, che danno una prova notevole dell’arte di immedesimarsi sullo schermo in un personaggio, anche il più lontano dalla propria esperienza umana.

È un mostro la dolce Molly (Rooney Mara), diversa dalla ragazza sordomuta, Elisa (Sally Hawkins), che, nell’altro film, salvò l’essere anfibio.
Le due ragazze si assomigliano molto, e anche i due personaggi: ho dovuto controllare, perché credevo fossero interpretati dalla stessa attrice.
Fisicamente si assomigliano, psicologicamente i due personaggi sono molto diversi.

La ragazza sordomuta aveva dei valori e una forza interiore; non si faceva trattare male, neanche dal colonnello americano mostruoso: c’è una scena in cui lo provoca dicendo, col linguaggio dei segni, parole di disprezzo, inutilmente trattenuta dalla sua amica.
È lei che salva l’anfibio e riesce a convincere il pittore, terrorizzato, a darle una mano, dicendo (con il linguaggio dei segni): «Se non facciamo qualcosa non esistiamo, se non facciamo qualcosa siamo nessuno».

La dolce Molly di Nightmare Alley è debole, remissiva, complice di Stanton fino alla fine. Il delinquente ambizioso, perseguitato dai suoi incubi, la convince a cercare di trasformare in dollari la disperazione della gente. Lei si oppone, ma con poca energia.

Elisa trasforma i mostri in uomini, Molly si fa trasformare in mostro, e scappa solo alla fine, quando è troppo tardi.
Aveva cercato di allontanarsi prima, poi ha ceduto. Perché ha ceduto? Si potrebbe dire “per amore”, ma non è amore un sentimento che ti fa diventare complice di un mostro.

Questa è la differenza principale, secondo me, tra i due film di Guillermo Del Toro: La forma dell’acqua è un film di speranza, Nightmare Alley è un film di disperazione.

È come se il regista non credesse più alla possibilità di una liberazione degli oppressi, perché gli oppressi non desiderano la liberazione: vogliono diventare oppressori.

Guillermo Del Toro si fa ispirare da momenti particolari della società americana, momenti in cui i pericoli provenienti dall’esterno e le difficoltà economiche e politiche interne contribuivano a indurire i rapporti tra gli uomini. Le sue ricostruzioni precise di ambiente sono una scusa per parlare della realtà attuale (i film parlano sempre della realtà attuale, i registi sanno che saremo noi a vederli, non, in questo caso, gli americani del 1941).
Il mondo di oggi, secondo Guillermo Del Toro, è un Luna Park abitato da mostri violenti, un lager nazista coperto di luci che nascondono le illusioni in cui siamo immersi. Niente a che vedere con l’allegria, la malinconia, la nostalgia dei circhi felliniani.

Stanton è realmente capace di leggere i segni che rivelano come siamo dentro (in questo senso è un bravo psicologo), di individuare la disperazione che non riusciamo a nascondere, per trarne profitto.
La disperazione è il suo pane quotidiano, come per tutti i mostri.
Comincia dalla prima scena (veniamo a sapere, per vaghi accenni, che si è accumulata in molti anni), con quell’uomo che trascina faticosamente un cadavere in un buco in mezzo a una stanza, incendia tutto e va via.

È Stanton. Sapremo, alla fine, che ha fatto morire di freddo il padre malato, aprendo le finestre, riparandosi con una coperta sottratta al povero vecchio e restando a vederlo soffrire per ore.
Non conosceremo il motivo di tanto odio (vaghi accenni), ma quell’odio sarebbe mostruoso anche se avesse una spiegazione, nel momento in cui si trasforma in gesti di vendetta. Il piccolo Hans di Freaks, che per buona parte del film suscita compassione e solidarietà, alla fine, quando ha organizzato la vendetta insieme ai suoi amici, ha uno sguardo feroce.

Stanton, il mostro dotato di bell’aspetto, è attratto dal Luna Park itinerante gestito da un uomo privo di scrupoli, Clem, che sfrutta le anomalie fisiche e psichiche di tanti poveri disgraziati e, se possibile, le accentua.

Clem “cattura” barboni alcolizzati offrendo loro un lavoro “temporaneo” insieme a una miscela di vino e oppio; li riduce in schiavitù e li trasforma in “uomo-bestia” da esibire nel baraccone.

Stanton subito si ambienta, trova un ruolo, si sente a casa sua. Ma nessun posto è “casa sua” per chi ha bruciato la propria casa.
Con l’aiuto di un ubriacone, Pete, il personaggio più luminoso nel buio totale, e di sua moglie Zeena, impara la tecnica per dare l’illusione di possedere poteri paranormali.

Anche in Fellini 8½ (che ho rivisto da poco: ce l’ho in testa) c’è un telepata che “trasmette” i pensieri della gente alla sua collaboratrice, Maya; legge nel pensiero di Guido e trasmette la formula «Asa Nisi Masa» che Guido sta pensando in quel momento. L’artista sa che si tratta di illusionismo, ma sa anche che «c’è dell’altro» (se ricordo bene la frase).
È la stessa idea di Pete: noi creiamo illusioni, utilizziamo trucchi, ma c’è dell’altro.
Pete ricorda molto il telepata di  – lo stile, i gesti, l’eleganza – quando non è ubriaco. È l’unico personaggio che esprime pietà (non si muove, ma almeno esprime pietà) quando sente gli urli dell’uomo-bestia.

La telepatia, nel film di Fellini, è un gioco, dentro a una cultura che considera il gioco molto seriamente. I personaggi di Guillermo Del Toro non giocano mai.

Pete muore, ucciso per errore (metanolo al posto dell’etanolo). Stanton, che fa del male anche a chi vuole bene, anche senza volere, si mette in proprio insieme a Molly e, con la sua capacità di osservazione e il quaderno in cui Pete ha raccolto i trucchi e il codice utilizzato per comunicare con la collaboratrice, riesce a penetrare negli ambienti più facoltosi. Trova la complicità di una psicologa priva di scrupoli che è tale e quale la moglie di Dracula: è mostruosa, anche se di bell’aspetto (Cate Blanchett), molto più fredda di un pezzo di ghiaccio (siamo a meno 273 gradi centigradi).
La psicologa gli rivela i segreti dei suoi clienti, segreti che Stanton sfrutta per illudere i ricchi – potenti, infelici, dilaniati dai sensi di colpa – di potersi liberare utilizzando lo spiritismo.

Finisce male, naturalmente, e il mostro che voleva conquistare il mondo con l’illusionismo concluderà la sua vita nella forma più degradata: diventerà l’uomo-bestia, costretto a succhiare il sangue di una gallina per sfamarsi, gridando: «Non sono così».

Un vero incubo, anche se ben realizzato, questo Nightmare Alley.

La vicenda raccontata è datata 1941: entrata in guerra degli Stati Uniti. C’è la macchina della verità, uno strumento frutto di una concezione meccanicistica della psiche, decisamente superata.
Il film sembra prendere le distanze da questa concezione: nonostante tutti gli elettrodi e i pennini che disegnano onde, Stanton riesce a imbrogliare la macchina (non era difficile). Però la psicologia rappresentata è semplicistica e confina con l’illusionismo.

Stanton rivela facilmente le turbe psichiche che lo angosciano: gli basta distendersi sul lettino della psicologa per cominciare a parlare, quasi, troppo facilmente, ipnotizzato.
Un paziente dotato di autocontrollo (come Stanton) richiederebbe molte sedute di analisi per cominciare a scalfire le difese, con difficoltà, se avesse voglia di avviare un percorso. Ma in quel momento non ha alcuna intenzione di intraprendere questa strada, di abbandonare il delirio di onnipotenza che lo sta portando dalla nevrosi alla psicosi.
Dal momento che un film non è un caso clinico raccontato da Sigmund Freud, si può considerare la semplificazione un artificio necessario alla narrazione.

Nota

Leggo che Guillermo Del Toro sta realizzando l’ennesimo film su Pinocchio (ennesimo riferito all’insieme dei registi, per lui è il primo).
Brutta notizia! (per me)
Ciò che penso sui vari pinocchi televisivi e cinematografici l’ho scritto in un articolo su questo sito (l’articolo si chiama, appunto, Pinocchio, 10/11/2020).

Se anche Guillermo Del Toro fosse in grado di apprezzare la bellezza della lingua del libro Le avventure di Pinocchio (non ne ho idea) non vedo come potrebbe renderla in un film.

Penso sia attratto dal burattino bambino o bambino burattino, da Mangiafuoco, dal gatto finto cieco e dalla volpe finta zoppa, entrambi parlanti, dal grillo loquace, dai piedi bruciati e ricostruiti, dall’impiccagione al ramo di un albero, dal viaggio nella pancia del pesce-cane (col trattino) «più lungo di un chilometro, senza contare la coda».
Trasformerà il burattino in uno dei suoi mostri.

Certamente non vedrò questo film.

Ma come? Prima vedere, poi giudicare.
Si dà il caso che non faccio un tentativo tanto per farlo e non mi metto su una torre, in posizione equidistante.
Sono di parte; difendo la mia cultura: Pinocchio non si tocca.

Per meglio dire: si tocca solo per leggerlo e apprezzare la meravigliosa lingua italiana, toscana, di Carlo Lorenzini, detto Collodi.