9 ottobre 2023 h 17.30
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6

Temi
I giovani
// Sick of Myself // Io Capitano // Animal House // Next Sohee // Close // Chiara // Penguin Highway // 1917 // Jojo Rabbit // Un giorno di pioggia a New York // La paranza dei bambini // Roma // Mirai // La terra dell’abbastanza // Lady Bird // Alla ricerca di Van Gogh //

Psicanalisi (“The doctor is in”)
// Frammenti di un percorso amoroso // Sick of Myself // Beau ha paura [Beau is afraid] // Preparativi per stare insieme … // Tre piani // Un divano a Tunisi // Doppio amore [L’amant double] //

Signe è una bella ragazza scandinava. Ha un lavoro, una casa, un compagno: Thomas.
Apparentemente non le manca nulla; eppure Signe soffre: non riesce a essere, come vorrebbe, al centro dell’attenzione.
Il suo problema è accentuato da una relazione sbilanciata con Thomas, anche lui in continua ricerca di ammirazione.
Thomas è superficiale, vuoto come una campana, ma riesce a richiamare su di sé l’interesse degli altri.
I due sono in perenne conflitto, con Signe sempre perdente: lui al centro dell’attenzione, lei in un angolo, ignorata.
Thomas è un narcisista sadico: si gode la vittoria che conferma l’amore per se stesso e finge di ignorare l’umiliazione della sua compagna. Senza una componente di masochismo non si spiega come mai Signe non lo mandi a quel paese.
Probabilmente, nell’infanzia, Thomas è stato pompato dai genitori («Come sei bello! Come sei intelligente!); Signe è stata spompata («Come ci hai deluso!); mai detto direttamente, ma trasmesso con l’atteggiamento, con lo sguardo.
Il film non ci fa dare un’occhiata all’infanzia dei due, però c’è un indizio: lei odia suo padre e quando teme di morire sogna un funerale a cui gli sia impedito di partecipare.
La madre sembra fuori dal mondo: quando Signe comincia a star male la indirizza verso la medicina olistica. Una bella espressione: medicina olistica. Nella realtà del film si risolve nelle farneticazioni di un guru.

Thomas fa l’artista, nel senso che riunisce pezzi di design (soprattutto sedie e poltrone), crea nuove combinazioni e le mette in mostra. Siamo a Oslo, dove pare che queste esibizioni siano considerate arte moderna (anche in Italia succede).
Thomas non ha abbastanza soldi per comprare le poltrone che utilizza per realizzare i suoi assemblaggi. Nessun problema: le ruba. Signe gli dà una mano a rubarle.

Mentre i due sono a cena in un ristorante, insieme ad altre persone attente a ciò che Thomas dice, Signe, ignorata da tutti, mangia di proposito alcune noci, pur sapendo di essere allergica alla frutta secca. Forse non è allergica e finge il malore successivo, ma finalmente riesce ad attirare l’attenzione su di sé.
Già quando il cameriere aveva chiesto «Qualcuno soffre di allergie?» e, nel silenzio generale, Signe aveva detto «Io: alla frutta secca», era riuscita a far convergere sulla sua persona l’interesse generale.
Fino a quel momento era trasparente, nessuno l’ascoltava. Poi si è sentita male o ha finto di sentirsi male e finalmente gli altri si sono accorti di lei.

Signe ha scoperto che la malattia ci mette al centro del mondo che ci circonda, e questo piccolo mondo si può allargare. Tutti scopriamo, fin dall’infanzia, questo aspetto della vita. La malattia di un bambino può avere origine psicosomatica: può essere un richiamo, una richiesta di aiuto, di attenzione.
Signe vive in una città scandinava che sembra molto fredda, da diversi punti di vista; lavora in un bar.
Vediamo passare davanti alla vetrina del bar un grosso cane; sentiamo urli e un abbaiare furioso. Una donna sanguinante entra barcollando nel bar e cade a terra svenuta. Signe la aiuta. Si sporca di sangue.
Nel tragitto verso casa, con la camicia e il volto macchiati di rosso, nota che tutti la guardano, finalmente.
È ciò che desidera: non essere nowhere woman (The Beatles) in un mondo nel quale apparire è esistere, indipendentemente dal motivo per il quale gli altri ti notano, su internet, sulle riviste patinate, in televisione.
Signe cerca, senza successo, di farsi mordere da un cane.

Qui siamo entrati nella patologia; fino a questo momento erano disturbi esistenziali, con i quali tutti abbiamo fatto i conti nell’adolescenza. I disturbi diventano segni di una malattia (sintomi) se si cerca una soluzione alla sofferenza procurandosi altra sofferenza.
Il film vuole farci intendere che una ragazza infelice possa provocare un grosso cane lupo e cercare di essere morsa al solo scopo di trovarsi al centro dell’attenzione.
Evidentemente il regista e lo sceneggiatore (coincidono) devono inventarsi qualcosa per dare una svolta al racconto, anche se a molti, tra i quali sono anch’io, ciò che inventano sembra abbastanza inverosimile. Questo non è necessariamente un difetto del film: i pregi e i difetti non dipendono da ciò che il regista inventa ma da come ce lo racconta.
Kristoffer Borgli, il regista norvegese, è bravo a raccontare.

Il film fu presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022 ed è arrivato allo Spazio Alfieri in questi giorni. Sono andato a vederlo perché quel cinema mi piace molto e mi piace via dell’Ulivo, a metà della quale è situata la sala. Mi sento a casa in quella via: potrei passarci la notte dormendo sul marciapiedi, mi sentirei al sicuro. Mi piacerebbe abitare lì. Non ha niente di particolare, tranne il cinema, niente che la distingua da una via di una qualunque cittadina. È appartata e vicina al centro storico; mi fa pensare a una vecchia signora che non mostra ma sappiamo che possiede rari gioielli preziosi.
Da via dell’Ulivo, se hai voglia “di tuffarti in un gomitolo di strade” piene di turisti, bastano due passi. Se non ne hai voglia, te ne stai in uno di quegli appartamenti anonimi che si affacciano sulla strada, protetti da un muro di recinzione che la percorre tutta. Due passi e sei in piazza dei Ciompi. Due passi tra tavolini e gente variopinta e sei davanti al Campanile di Giotto. Peppino De Filippo direbbe: ho detto tutto.
Torniamo al film; i pochi spettatori si conoscono (da anni si incontrano nelle stesse sale); hanno l’abitudine, all’uscita, di scambiarsi opinioni a volo: prima di andare a cena, prima di andare a passeggio, prima di andare a prendere il treno.
Un’opinione mi ha colpito: è un film sul narcisismo, come ha detto non ricordo quale critico illustre.
Io non sono illustre, ma non sono d’accordo.
Più che di narcisismo parlerei di autolesionismo.
Un “guaritore” (per dirla con Emanuele Trevi), junghiano o freudiano, indagherebbe su sensi di colpa e rimozioni. Narcisista è Thomas, non è Signe. Anche perché non si è mai visto un narcisista rischiare i connotati del proprio volto.
Se Signe fosse “solo” narcisista sarebbe un problema per chi le sta vicino, più che per se stessa.
In realtà la ragazza ha trovato una “scusa” per farsi del male. Il desiderio di apparire non è il tema fondamentale del film; copre una spinta più profonda all’autodistruzione.

Proseguendo nel suo percorso di lento suicidio, Signe scopre su internet un farmaco russo tolto dalla circolazione perché produce gravi danni alla pelle. Tramite un amico che frequenta la parte oscura di internet si fa portare a casa una grande quantità di quel farmaco in pillole e comincia a ingerirle.

Aperta parentesi: l’amico è un bell’esempio – non bello, efficace – di tanta gioventù rovinata dal contatto continuo ed esclusivo con la realtà virtuale: internet e sostanze stupefacenti. Chiusa parentesi.

Cominciano le gravi trasformazioni della pelle. Sul volto si formano lesioni che si aggravano e si estendono al resto del corpo. Questi segni a me ricordano, per analogia, i tatuaggi che ricoprono il collo, il petto, le gambe e le braccia, la pancia di tanti giovani. Mi ricordano i piercing infilati nella lingua, nel naso, nei capezzoli, nell’ombelico.

Il film coglie un aspetto autodistruttivo presente in larga parte della gioventù attuale, la cui manifestazione più evidente sono i tatuaggi e i piercing. È necessario spiegare che introdurre sostanze chimiche permanenti nella pelle o possibili veicoli di infezioni (aghi) è mostruoso? È terribile constatare come sia diventato normale.
Altro che desiderio di mettersi in mostra!
Vogliamo dire che quei segni orribili che coprono interamente il collo, oltre al resto, di tanti giovani sono un segno di amore per il proprio corpo? Scherziamo?
Signe fa una cosa analoga, anche se molto più pericolosa (ma il gesto è quello): introduce nel corpo un farmaco che causa eruzioni cutanee sempre più gravi ed estese.
Non si cura, non rivela ai medici la causa della malattia. I danni che man mano si producono non le bastano: continua a ingerire pillole.
Il volto si deforma sempre di più. Partecipa inutilmente al gruppo olistico suggerito dalla madre, guidato dal guru. La psicanalisi segue un percorso tortuoso, complicato e non promette guarigioni. Lo psicanalista parla poco (forse dice solo: buon giorno, si accomodi, è finito il tempo, arrivederci).
Se il “guaritore” parla molto è un guru, al quale indirizzerei una bellissima e divertentissima canzone di Riccardo Pazzaglia: Me ne vado a fare il guru. (Si trova su YouTube).

Signe riesce a ottenere un articolo su una rivista molto diffusa che porta in copertina il suo volto deturpato. È felice quando sfoglia la rivista con l’intervista e le foto, felice quando la gente comincia a riconoscerla per strada, infelice quando la notizia di un assassinio sposta l’articolo, nella versione online della rivista, in fondo alla pagina.
Contatta un’agenzia che, con la scusa dell’inclusione, sfrutta le ragazze che non rispondono ai canoni classici della bellezza o sono affette da handicap fisici e le propone come modelle. Una modella è cieca, un’altra ha una mano atrofizzata. Il corpo di Signe subisce trasformazioni sempre più gravi: perde i capelli, grumi di sangue e di pelle ricoprono il volto e il collo, vomita sangue. Finalmente è riuscita a godere del quarto d’ora di celebrità che Andy Warol promise a tutti, sperando che non sia l’ultimo quarto d’ora della vita.

La storia è paradossale. Il regista la sa raccontare, sa renderla credibile (con un po’ di rinuncia allo spirito critico da parte nostra per tutta la durata del film) e riesce a catturare l’attenzione degli spettatori (almeno la mia), dall’inizio alla fine.

È un po’ come se Gregor Samsa si fosse trasformato volontariamente in un grosso insetto perché stanco della vita di commesso viaggiatore o spinto dai sensi di colpa; anche Signe, alla fine, diventa un grosso insetto che ogni tanto vomita sangue e cerca di trovare un po’ di equilibrio passeggiando nel bosco insieme ad altri malati.
È come se “l’uomo dei lupi” avesse raccontato a Freud il suo incubo (i lupi lo guardavano dai rami di un albero) non per liberarsi ma per finire nella letteratura psicoanalitica.