3 novembre 2022 h 18.15
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r

Politica, temi sociali, visioni del mondo
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Triangle of sadness inizia con una premessa.
Giovani modelli partecipano a una selezione un po’ sadica, come tutti gli esami: un casting.
Abbiamo visto molte volte scene simili: «Cammina, arriva fino in fondo, girati, torna indietro, guarda a sinistra, segui un ritmo, sguardo disteso, sguardo accigliato, puoi andare. Avanti un altro».
Chissà chi ha stabilito le regole nel mondo della moda! Forse le hanno decise quelli che fanno gli esaminatori nei casting, nonostante, riferendosi al film, diano l’idea di essere fuori di testa. Neanche agli esami di stato i professori si prendono tanto sul serio. Evidentemente pensano di poter stabilire con certezza, dal modo di camminare, se il modello convince la gente a comprare il vestito o le scarpe che indossa. La gente compra i vestiti se i ragazzi che li indossano camminano come hanno deciso gli stregoni del fashion? Siamo sicuri che la gente sia così stupida?

In fondo i modelli non devono saper fare altro che camminare in modo innaturale e assumere un’espressione stereotipata; uno che intrattiene i ragazzi prima del casting spiega che devono sorridere se sfilano per un marchio economico; se invece portano le sneakers defender di Balenciaga, che costano 950 euro il paio su internet, devono avere lo sguardo truce. Lo sguardo truce dei modelli che sfilano per un marchio esclusivo fa venire in mente il duce impettito in divisa da maresciallo. È quello il riferimento estetico degli agenti pubblicitari delle maison che vendono ai super ricchi. Poi quelle scarpe, quei vestiti, borse, guanti sono portati in giro dagli africani carichi di borsoni, riprodotti perfettamente nelle fabbriche in Cina – dove fanno gli originali e le copie (anche in Italia fanno le copie, nelle fabbrichette più o meno nascoste). Si può trovare una copia a prezzo ragionevole che differisce dall’originale solo per la destinazione dei soldi ricavati dalla vendita: la mafia al posto della maison superba ed esclusiva. La gente sulle spiagge compra le copie originali made in Cina, ed è tutta gente che non ha assistito alle sfilate e ha visto solo di sfuggita quella roba indosso ai modelli con lo sguardo truce come lo sguardo del duce in divisa da maresciallo nei documentari dell’Istituto Luce.
La roba esclusiva si pubblicizza poco in televisione; la rottura dei coglioni (pubblicità) viene indirizzata alla massa con prodotti economici dove il guadagno viene dalla quantità. In televisione è tutto un sorridere, un ammiccare amichevole: «Non vi basta? Ve ne diamo due a metà prezzo (tanto … per quello che ci costano!)»

Vuol dire che tutta la costruzione intorno ai casting dei modelli e alle sfilate non è reale, è un capitolo inedito di Alice nel paese delle meraviglie, più fantastico dei capitoli editi, ma meno divertente.
Non sfugge che dietro ci sia PIL, ci siano occupazione e enormi guadagni, ma, secondo me, il denaro non circola per effetto del modo di camminare dei modelli e delle modelle.

Le modelle devono sembrare, e forse sono, perennemente incazzate, nonostante guadagnino il triplo dei modelli, e devono essere disposte ad aprire la porta all’anoressia, oltre, alcune di loro, ad aprire la porta della stanza da letto, sulla strada che porta a diventare top.

Stesso discorso per i modelli riguardo alla porta della stanza da letto (lo dice anche quello che intrattiene i ragazzi prima del casting); però loro devono essere in carne, non nel senso del grasso ma nel senso del muscolo. Esercizi in palestra e anabolizzanti.
Tutti, modelli e modelle (forse dovrei aggiungere anche modellu o sostituire l’ultima lettera con un asterisco, con lo schwa o con un trattino, ma non so fare il plurale) devono avere la pelle perfetta, priva di qualunque anche microscopica increspatura, soprattutto in una zona situata sulla fronte, tra le sopracciglia, che si chiama triangolo della tristezza (da cui il titolo). Se l’increspatura c’è, si ricorre al botox.
Il mondo della moda è una farmacia. Vanno molto gli ansiolitici.

È ovvio che un modello e una modella che si sono fidanzati tra loro (succede anche questo) non siano capaci di scambiarsi quattro chiacchiere normali a cena.
Soprattutto perché la top model è anche influencer e viene pagata con inutili prodotti di consumo se si fotografa facendoli vedere.
Così è un continuo fotografarsi, ripassare il trucco, fotografarsi di nuovo, fingere di addentare una mela o una forchettata di spaghetti (pur essendo celiaci) e non rimane molto impegno disponibile per la conversazione.

Siamo in una pausa del lavoro, una cena tra due innamorati, in un ristorantino appartato, naturalmente esclusivo, quando nella vita irreale dei modelli irrompe il cameriere con la realtà del conto.
La modella si concentra ancora di più sul telefonino – come a dire, con sereno distacco: il conto non è affar mio – e il povero modello (povero rispetto alla modella, due terzi delle entrate in meno) scopre che molte femministe dimenticano i principi di parità tra i sessi quando si tratta di pagare il conto al ristorante.
Qui parte una estenuante discussione tra i due, lui sempre più irritato perché non ha il coraggio di dire apertamente: «Stronza! È inutile fare finta di essere distratta o impegnata con il telefonino, hai visto benissimo lo scontrino poggiato sul tavolo dal cameriere, questa volta paghi tu perché non sono un miliardario grassone e repellente da sfruttare!».

Il modello è troppo abituato alla falsità per riuscire a fare un discorso sincero, si disperde nelle chiacchiere, nelle puntualizzazioni (tu avevi detto …, voglio solo stabilire un principio, dobbiamo essere uguali, eccetera) e assume l’aria imbronciata di un bambino maltrattato quando la modella, mostrandosi offesa, dice «Va bene! Vorrà dire che pago io». Così sembra che la discussione possa interrompersi o avere una pausa, ma la modella è furba, mette giù una carta di credito fasulla e quando il cameriere ritorna con la realtà dello strumento elettronico che esegue il controllo e la verifica («L’ho provata più volte: non funziona!») assume un’aria innocente, come a dire: «Il gesto l’ho fatto, che vuoi di più? Ora paga!».

Il modello quasi si mette a piangere, non gli va di essere preso per il culo, ma non dice alla modella: «Sei una grande stronza!», anche perché non parlano in italiano e nella loro lingua non credo esista una parola così efficace e risolutiva.
In inglese c’è «shit!», ma è come «merde!» francese, si lancia contro il destino, contro la situazione; invece «stronzo!» (di origine longobarda) è un giudizio preciso riferito alla persona che si sta comportando da stronza.

La discussione non finisce più e io capisco che in questo film il regista – molto apprezzato, anche da me, soprattutto per The Square (2017) ha dimenticato da qualche parte la sintesi e ha l’intenzione di abusare della nostra pazienza (per dirla con Cicerone); la modella, dal canto suo, ha la ferma intenzione di continuare ad abusare della fessaggine del modello.
È passata quasi un’ora e abbiamo assistito a una premessa (il casting) e alla prima parte (la discussione infinita sul nulla).

In qualche modo i due fanno pace: lui ha resistito, seguendo il consiglio di un tassista.
In Forza maggiore (2014) c’è un addetto alle pulizie che guarda i due personaggi smarriti, forse ha ascoltato i loro discorsi e dà l’impressione di capire la situazione, il conflitto che sta avvenendo tra sensi di colpa, desiderio di salvare la famiglia e inflessibilità luterana della moglie, incapace di perdono: la pietà che noi, di cultura cattolica, descriviamo con l’espressione “chiudere un occhio” che va male quando esageriamo e chiudiamo entrambi gli occhi, ma ci salva dal sentirci giudici implacabili degli altri e di noi stessi.
La modella cede, ammette di essere brava a manipolare gli altri (ce ne siamo accorti) e rivela i suoi timori per il futuro: «Devo pensare al mio avvenire. Quando non farò più la modella potrò solo diventare il trofeo di qualcuno».
In questo modo ha ammesso di non amarlo («ci piaciamo, il nostro rapporto fa aumentare i follower … che vuoi di più?).
Lui è un romanticone e scommette: ti farò innamorare di me. Ma non stila un programma finalizzato al raggiungimento di questo obiettivo, anche perché al primo posto dovrebbe esserci l’abbandono di un modo di vivere irreale.

In questa prima parte il regista ha riproposto una situazione che, evidentemente, gli piace molto rappresentare: due personaggi discutono e piano piano, tormentandosi, la discussione fa emergere verità e conflitti nascosti.
In Forza maggiore (2014) erano due personaggi reali (un uomo debole e una donna inflessibile, che ha la necessità di un gesto riparatore per riportare la situazione al punto di partenza); le loro discussioni riuscivano a interessarci perché la trama consentiva un livello di identificazione. I due personaggi di questa prima parte del film sono così assurdi (per non parlare di quelli che verranno) che le loro discussioni non riescono a raggiungere la soglia della nostra (almeno della mia) attenzione. Dunque: noia.

Nella seconda parte ritroviamo i due modelli, che si chiamano Carl e Yaya, immersi in un microcosmo, in una bolla separata dalla realtà, navigante nell’oceano.
Si trovano sul ponte di uno yacht di gran lusso, prendono il sole insieme a miliardari in vacanza, si sono trasferiti momentaneamente dalle passerelle a una crociera guadagnata con l’attività pubblicitaria.
Non hanno pagato la vacanza (niente equilibrismi di Yaya per non cacciare la sua parte), ma devono fotografarsi in continuazione.

Accanto a loro un magnate delle ex repubbliche sovietiche che «si è arricchito vendendo merda» (fertilizzanti; come è contento quando racconta in questo modo il suo lavoro!), una coppia di anziani inglesi proprietari di una fabbrica che produce mine antiuomo (come sono contenti quando spiegano di essere riusciti a ignorare le limitazioni imposte dall’Onu!), uno che vende algoritmi ed è ricco «oltre ogni limite» (così dice lui) e altri ricchissimi personaggi.

Questi sono i padroni. Poi ci sono gli schiavi: la ciurma che lavora tra i motori che spingono avanti la nave, gli invisibili, addetti alle pulizie, i camerieri che girano con i vassoi e i bicchieri da riempire di champagne, comandati da una kapò bionda con i capelli corti guidata da un solo principio: ai padroni si ubbidisce qualunque cosa chiedano, noi abbiamo un solo scopo, un solo obiettivo: money, money, money ….

Carl conferma subito di non avere capito che l’amore è un’esperienza della realtà e dimostra di essere addirittura più stronzo di Yaya.
Sì, perché Yaya sfrutta gli uomini che appartengono alla sua classe sociale; Carl, invece, fa licenziare un marinaio colpevole solo di avere mostrato il torace (loro girano mezzi nudi) e di avere suscitato la sua gelosia. Carl sente che non potrà mai confrontarsi con un marinaio dal petto villoso che non ha gonfiato i bicipiti grazie agli anabolizzanti ma col duro lavoro.
È associato alla categoria dei padroni, insieme a Yaya, per il suo aspetto fisico; schiaccia lo schiavo che ha lanciato un vago segno di competizione accolto con evidente piacere dalla sua ragazza.

Il problema di questa seconda parte, oltre al fatto che il regista, purtroppo, ha dimenticato da qualche parte, forse tra i bagagli, la capacità di sintesi, è che la tesi è troppo scoperta.
Caro Ruben Östlund: il microcosmo della nave non è il mondo.
Il mondo è diviso in diversi imperi, con diverse sfere di influenza, padroni e schiavi variamente distribuiti. Se la nave rappresenta il mondo occidentale capitalista, non dimenticare che convive con altri mondi, ugualmente potenti e, alcuni, prossimi a diventare ancora più potenti. Hai dimenticato la Cina, che sta comprando l’Africa e i porti europei, quindi già ora può decidere in parte  (per ora in parte) che cosa mangiamo. Per fare un esempio: la Cina può decidere che cosa mettiamo nel latte al posto dello zucchero, se miele prodotto dalle api trentine o un miscuglio di prodotti chimici che non hanno mai sentito parlare di alveari, di arnie, di polline e pappa reale (Christophe Brusset – Siete pazzi a mangiarlo! – ed. PIEMME – Cap.15).
È la Cina in cui comandano i funzionari di partito e, al di sopra di tutti, il nuovo re sole, Xi Jinping, che non ha bisogno di comprare o produrre vaccini anticovid efficienti perché può ordinare di prendere a bastonate chi non rispetta il lockdown.
Non è solo la Cina un impero alternativo che si allarga e minaccia quello che tu, caro Ruben, rappresenti in modo paradossale, dimenticando che nel mondo occidentale capitalista non ci sono solo padroni, ma elezioni libere, separazione dei poteri, sindacati e costituzioni.
Tra gli aspiranti al dominio incontrastato sui sudditi (i cinesi e i russi non sono cittadini, sono sudditi) c’è l’autocrate russo che non si preoccupa di rispettare le convenzioni internazionali, di provocare migliaia di morti e distruzioni, di mettere in pericolo la sopravvivenza del pianeta.
C’è l’impero della mezzaluna, molto variegato ma unito dall’obbedienza a vecchie superstizioni. E altro.

Dopo avere creato la bolla in navigazione, il regista si diverte a farla cozzare con la furia degli elementi, che svolgono la stessa funzione del cameriere con il conto nella prima parte.
Se ne è parlato: è inutile descrivere il profluvio di vomito e di liquami organici che ci tocca vedere in questa seconda parte; un po’ ricorda La grande abbuffata di Marco Ferreri, ma, tolto il particolare dei water che saltano, il paragone è improponibile. Ne dovrà mangiare di sale, Ruben Östlund, per arrivare allo stile asciutto di Marco Ferreri!

L’unico personaggio riuscito, interpretato con distacco e umorismo da Woody Harrelson, è il capitano della nave, marxista odiatore degli ultra ricchi che si è stufato di servire. Mentre infuria la tempesta il capitano si lancia in una gara di aforismi con il rivale oligarca russo capitalista che ha trascorso l’infanzia nel socialismo reale.
Questa gag è molto divertente e un po’ distrae dalle insistite perdite di liquami, dalle bottiglie che rotolano nello stesso angolo della sala e dai carrelli che sbattono nello stesso corridoio della grande nave.
Sembra che il regista abbia dimenticato il proposito di illustrare una tesi e il film diventa più divertente.
Con le bombe e il naufragio finisce la seconda parte ma, con la terza, ripiombiamo nella noia.

Nell’isola non ci sono vomitate a spruzzo per far ridere, c’è solo l’assurdità di alcune situazioni. Per cominciare, l’aspetto dei due modelli: i capelli corti di Carl dopo giorni e giorni, in contrasto con la barba lunga del grassone, la mancanza di peli sul suo torace e sulle gambe di Yaya: è improbabile si siano potuti depilare (i due attori l’avranno messo nel contratto; articolo 4: niente peli); l’aspetto dei naufraghi, e, in particolare, dei due modelli, dopo giorni di dieta a base di grissini, di polpo e di carne di asina alla brace, tagliati a pezzi e conservati in un panno presumibilmente sporco. Il regista imbruttisce solo l’oligarca russo, che già era abbastanza brutto di suo.
La signora tedesca sopravvissuta a un ictus ripete «in den Wolken» (nella nuvola), lasciata giorno e notte in un canotto, priva di assistenza, se la cava abbastanza bene, forse troppo bene, data la situazione.
Tutto ciò fa capire che non è una cosa seria. E allora divertiti, Ruben! Soprattutto, al montaggio, taglia!
I naufraghi credono di essere nuovi Robinson perché a nessuno è venuto in mente di farsi un giretto per scoprire di trovarsi in una specie di reality televisivo. C’è l’ascensore tra le rocce, manca poco per: «Siamo pronti per il collegamento con l’isola dei famosi. In questa edizione abbiamo raccolto un oligarca russo che si è arricchito con la merda, un venditore di algoritmi, due modelli influencer, uno sconosciuto dall’aspetto piratesco, una kapò disponibile a essere schiavizzata da chiunque e un’addetta alle pulizie (nella vita normale), l’unica capace di pescare i polpi a mani nude, di cucinare e – udite udite! – di accendere il fuoco.»

Anche nella terza parte il regista dimostra di avere smarrito la capacità di sintesi e si dilunga in un racconto che sembra ispirato a un film di Lina Wertmuller … ma siamo molto lontani dalla freschezza dell’originale e lontani dalla tesi esposta in soldoni nella seconda parte. La metafora forzata si è esaurita; per andare avanti (deve averglielo ordinato il medico) il regista prende l’idea da un film famoso e la applica, limitandosi a invertire i ruoli di genere e introducendo un elemento nuovo: la pazzia. Il finale è aperto: non sappiamo se Yaya si è girata in tempo, non sappiamo dove stia andando Carl di corsa (ma non c’erano solo rocce? Le due donne si arrampicavano, Carl invece corre).

Una signora conoscente a cui, richiesto di un consiglio, avevo raccomandato il film – mi basavo su Forza maggiore (2014) e, soprattutto, su The square (2017) e su un’impressione positiva ricavata dal trailer – ha detto che si è annoiata. Non ho potuto non convenire con il giudizio, per alcuni aspetti meno negativo del mio (secondo me non è solo una questione di mancanza di tagli: sembra tre film mescolati male). Questo per la cronaca e per dire che non si può sapere come uscirà il melone (che qui chiamano popone) prima di aprirlo.

Renato Carosone cantava: «Su coraggio nè Giuvà! / Ó məllonə è asciutə ianchə e mò cu chi t’ha vuó piglià?» (Suvvia, coraggio Giovanni! Il melone è uscito bianco, ora con chi te la vuoi prendere?).
Carosone si riferiva a una cosa molto seria e compromettente, il matrimonio, però il suo invito a prenderla con filosofia è utile in qualunque campo.