5 aprile 2023 h 20.00
Cinema Teatro La Compagnia Firenze – via Cavour, 50r

Nuovo Cinema Corea
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Scuola
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Politica, temi sociali, visioni del mondo
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I giovani
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A Sohee, una giovane sudcoreana, piace ballare. Si esercita per ore, anche da sola in palestra; ripete i movimenti più complicati per eseguirli alla perfezione, mettendoci tutto l’impegno. Suda, non riesce, cade, riprova finché il movimento viene perfetto. Alla fine è soddisfatta, felice.
La parola ballo alla mia generazione richiama alla memoria i lenti sulla mattonella, la coppia allacciata, il twist cantato da Peppino di Capri: «A Saint Tropez – pausa – la gente si chiede perché …».
Il valzer e il tango erano fuori dalla nostra portata. Ancora più lontana la danza classica, con i cigni, i tutù vaporosi, le scarpette con le punte.

Per le giovani coreane (forse anche per le italiane, ma non ne ho idea) ballo significa movimenti figurati che a me sembrano (è la prima impressione) esercizi di ginnastica. Si chiama danza aerobica, credo.
Le ragazze ballano da sole o in gruppo. I ballerini compiono movimenti coordinati, alcuni abbastanza complicati. Non si abbracciano; quando ballano in coppia o in gruppo sembra che ciascuno segua un percorso personale, isolandosi. Completamente assente la seduzione, vero motore del ballo come lo concepivamo noi. Non è una critica: è un fatto.

Un lungo incipit mostra come il ballo sia importante per Sohee; l’incipit è ripreso alla fine del film.
Nel pub, mentre è a cena con le amiche, sente un giovane che, chiacchierando con altri, le prende in giro.
Sohee non ha paura di minacciarlo e metterlo a posto; costringe il gruppo dei maschi imbecilli ad andare via dal locale.
È tosta Sohee, non si fa mettere i piedi in testa. È decisa e molto simpatica.

Ultimo anno di diploma; indirizzo accudimento degli animali.
Per diplomarsi deve svolgere un tirocinio in un’azienda, quello che da noi si chiamava “alternanza scuola lavoro” e ora ha cambiato nome. Bisogna precisare che, con tutti i limiti e i problemi connessi, quest’attività, da noi, non ha mai raggiunto i livelli di sfruttamento descritti nel film.
Il professore che svolge l’incarico di trovare le sistemazioni per gli studenti non trova per Sohee un’esperienza nel suo campo. La indirizza a un call center e le presenta la cosa come un colpo di fortuna («È utilizzato da aziende nazionali, potrai inserirti in un’attività lavorativa importante: non farmi fare brutta figura; se ti comporti male danneggi la scuola che prenderà provvedimenti»). Sempre sul filo del ricatto.
Il professore è una delle figure più squallide, più ignobili, disgustose del film, anche se, apparentemente, “fa solo il proprio dovere”. È uno che ha coltivato la capacità di nascondersi.

C’è un accordo tra le scuole e le aziende. Siccome i tirocinanti sono più precari e hanno meno diritti dei lavoratori (in Corea del Sud titolari di pochissimi diritti), le aziende, soprattutto i call center, licenziano i lavoratori e sfruttano gli studenti che devono fare il tirocinio. Il ricatto si svolge con la complicità delle scuole.

Sohee impiega poco a capire che il suo tirocinio consiste nel ricevere telefonate da clienti intenzionati a interrompere un servizio e il compito suo e delle altre ragazze sedute negli scompartimenti con un computer davanti e una cuffia sulle orecchie consiste nel dissuadere la persona che telefona o nel rimandare il soddisfacimento della sua richiesta.
La regola è: mai accettare l’interruzione del servizio richiesto dal cliente; bisogna rispondere con frasi fatte, proporre altre soluzioni, dilazionare, differire.

Vi sono clienti che hanno fatto trenta e più telefonate senza riuscire a ottenere ciò che chiedevano e vengono rimbalzati dall’una all’altra con finta gentilezza formale ogni volta che ci provano.
Frasi da mandare a memoria: «dovrà pagare una penale, se prolunga il servizio per un anno pagherà meno della penale, le offriamo una promozione speciale, eccetera».
Se il cliente non si convince devono interrompere la telefonata: «la richiameremo», oppure: «siamo oltre l’orario d’ufficio, ci richiami».
Le ragazze devono abbindolare il cliente e, se non riescono a ottenere il rinnovo del contratto, devono trovare una scusa per rimandare e costringere il cliente a telefonare di nuovo o a lasciar perdere.
Con i timidi, con gli ignoranti, con gli anziani la cosa riesce abbastanza facilmente: mettendo insieme velate minacce e proposte fintamente vantaggiose, le ragazze ottengono dalla vittima l’assenso per farsi imbrogliare. Con gli altri finisce sempre allo stesso modo: urli, male parole, aggressività verbale da parte di clienti che hanno fatto trenta, quaranta e più tentativi ma non riescono a chiudere il contratto (nel senso di interromperlo).

Nel film è descritta con precisione la pressione fortissima a cui sono sottoposte le ragazze, incatenate al loro posto. Se rinunciano al tirocinio la scuola non le fa diplomare, la famiglia le rimprovera.
Alla schiavitù delle tirocinanti corrisponde la schiavitù della kapò che le controlla, feroce nei loro confronti perché inserita in un sistema feroce. Altri più in alto controllano la kapò e sono controllati da chi si trova ancora più in alto, fino ad arrivare ai proprietari dell’azienda, che spesso posseggono azioni, non sanno nulla di ciò che succede, protestano se gli utili si riducono e spostano i capitali, piccoli o grandi che siano, su altre aziende più redditizie perché più capaci di schiavizzare i dipendenti. È un sistema che va molto oltre le responsabilità individuali, che pure ci sono.
Nel film non si vede, ma i genitori di Sohee, contenti perché finalmente lavora, potrebbero possedere azioni di quell’azienda e partecipare, senza saperlo, a un sistema che distrugge tante ragazze, tra le quali la figlia.

Alla cinematografia coreana, molto vivace da alcuni anni a questa parte, è dedicato il Florence Korea Film Fest, che si è svolto al cinema La Compagnia dal 30 marzo al 7 aprile 2023.

La Corea del Sud che viene fuori dai film ha un’organizzazione sociale che fa paura. Capitalismo ottocentesco: conta solo il profitto; i lavoratori e le lavoratrici sono sfruttati, privi di tutele e sottoposti a una pressione terribile. Capitalismo non controllato, sindacati inesistenti, sfruttamento senza limiti della classe operaia, alienazione.

Il film si compone di due parti.
In una prima parte è descritto il modo inesorabile in cui lo spirito libero di Sohee viene distrutto dal sistema. La macchina da presa osserva, racconta.
Nella seconda parte un’ispettrice della polizia cerca la vera causa del suicidio di Sohee. Il suicidio precedente di un controllore delle ragazze che non ha resistito alla crudeltà del suo compito è stato rapidamente derubricato da tutti i responsabili come gesto compiuto per motivi personali. Analogamente si vuole attribuire a Sohee una particolare instabilità di carattere che dovrebbe spiegare il suicidio e togliere ogni responsabilità all’azienda, alla scuola, al ministero. Quest’ultimo mantiene in vita la scuola solo se ottiene finanziamenti dalle aziende. È il capitalismo senza le limitazioni introdotte dalle socialdemocrazie. Unico obiettivo: il profitto.

L’ispettrice si muove con estrema difficoltà tra le reticenze di tutti, compreso il suo superiore che non ha voglia di approfondire e afferma: il nostro compito consiste nell’individuare i reati; se nella morte di Sohee non c’è un reato (è accertato che si tratta di un suicidio) dobbiamo fermarci.
Inutilmente l’ispettrice tenta di contrastare questo modo miope di ragionare; anche lei è sottoposta al meccanismo che ha distrutto Sohee e alla fine, nonostante sia inorridita dalla catena di responsabilità che va scoprendo e dalla solitudine della povera ragazza, è costretta a rinunciare.
Commovente l’utilizzo dei video che Sohee ha girato nei vari momenti della propria vita (le ragazze di oggi riprendono continuamente tutto) e l’ispettrice trova sullo smartphone.
Rivediamo scene che conosciamo e le interpretiamo alla luce di ciò che è accaduto dopo. Sohee ci diventa ancora più familiare; le riprese passano gradualmente dal distacco alla partecipazione emotiva. Intensa è l’interpretazione dell’attrice Bae Doo-na. L’ispettrice, per educazione e perché così è imposto dal suo lavoro, cerca di non manifestare l’emozione e la rabbia per ciò che man mano va scoprendo. Solo in un caso perde il controllo e tira un cazzotto a uno che anche noi avremmo desiderato stendere al suolo. Nel resto la sua indignazione è contenuta e la pietà è tutta nello sguardo.

Essendo una brava regista, July Jung dà molta importanza ai dettagli.
Uno mi ha colpito: i piedi intirizziti della ragazza che nel freddo dell’inverno indossa solo un paio di sandali. È il segno della sua disperazione. Si siede al tavolo di un bar, ordina due birre, guarda un raggio di sole che illumina il pavimento e il piede scalzo. Solo quel raggio di sole ha pietà di lei; il suo mondo – amici, genitori – l’ha abbandonata.
Si alza e si dirige verso il lago dove troverà la morte volontaria per assideramento. Vediamo i piedi della ragazza scoperti sul tavolo dell’obitorio. Alla fine l’ispettrice, quando ha capito che l’indagine non potrà andare avanti, siede allo stesso tavolo del bar dove Sohee era seduta l’ultima volta, guarda il raggio di sole che illumina il pavimento e il suo piede che calza gli scarponi invernali.

“Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”: invece un/una regista si giudica proprio da questi particolari. Grande July Jung!