11 settembre 2023 h 16.15
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r

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// Dogman //

Politica, temi sociali, visioni del mondo
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Un film coraggioso.
Ci vuole coraggio a fare un film nella lingua reale, non doppiato. Gli spettatori sono abituati a evitare il minimo sforzo di concentrazione necessario per leggere i sottotitoli e, contemporaneamente, seguire le scene. Non è complicato sul grande schermo, ma è troppo faticoso per chi preferisce stendersi nella poltrona e vedere i film senza neanche uscire di casa.
È un film da vedere al cinema, per seguire senza difficoltà i dialoghi e, soprattutto, per apprezzare la composizione “pittorica” di alcune scene, che sembrano quadri di autore. Mi riferisco ai due “sogni” del protagonista principale e alla lunga fila dolorosa dei migranti sulle dune del deserto. Una donna non ce la fa; Seydou si ferma ad aiutarla. Non può fare molto; la donna muore. Seydou deve riprendere il posto nella fila: immagina di vedere la donna riprendersi, ringraziarlo e sollevarsi da terra, tenendolo per mano. Mi ricorda una delle scene più belle viste al cinema (Sulla Infinitezza di Roy Andersson).
La dura realtà incombe e costringe ad abbandonare l’immaginazione.
Io capitano è un film sulla migrazione dal punto di vista dei migranti.
Siamo abituati al solito punto di vista, strombazzato da televisioni e politicanti: i confini dell’Europa, l’invasione, gli accordi con i regimi, i respingimenti, i poveri resti sparsi sulle spiagge. Quando sono vivi nessun rispetto (qualcuno rinfacciava persino la salute ai giovani africani sbarcati); se muoiono: una giornata di lutto e le facce contrite davanti all’intervistatore.
Visti dall’arrivo alcuni comportamenti sembrano assurdi, quella marea di persone che riempiono i barconi e i centri di accoglienza sembra costituita da invasati.

Io capitano parte dall’Africa, senza puntare sui casi estremi, su chi scappa dalla guerra o da un disastro ambientale. La migrazione non è, non è mai stata un fenomeno eccezionale. È il comportamento di interi popoli e di singoli individui, da sempre. Potete mettere eserciti a guardia dei confini disegnati sulle carte geografiche, qualcuno cercherà di passare dall’altra parte per vedere che c’è o per cercare di stare meglio (o per scappare da una guerra, ma questa è l’eccezione).
Un film dev’essere concreto – non è un saggio sulla migrazione – e Matteo Garrone, come tutti gli artisti, è concreto: racconta di due ragazzi.

Non se la passavano male i due sedicenni senegalesi. Vivevano nel villaggio con poche cose. Dormivano su una stuoia e si svegliavano con il chiacchiericcio delle sorelline. Cantavano e suonavano, partecipavano ai balli collettivi, alle feste tradizionali, sotto le grandi ali protettive della mamma chioccia.
Avevano un sogno, come tutti i ragazzi di sedici anni.
Il loro sogno era: vado in Europa e divento un cantante famoso; i bianchi mi chiederanno l’autografo.
Alzi la mano chi a sedici anni non ha sognato di cambiare la propria vita, di vivere un’avventura. Credo che pochi abbiano alzato la mano.
Nei posti fortunati l’avventura sognata dai ragazzi può diventare una piccola cosa, presto dimenticata, può causare delusione, anche dolore, o può produrre l’avvio di una vita straordinaria, di una carriera ricca di soddisfazioni, in qualunque campo.
In Africa l’avventura di due ragazzi sedicenni, il sogno, è l’inizio di una strada in discesa, in forte discesa. Risalire al punto di partenza è impossibile, succede solo in un momento di disperazione, tramite un personaggio della fantasia capace di accompagnarti dentro il sonno della mamma, per dare a lei un po’ di quiete, a te un attimo di tregua.

I due cugini amici sedicenni nascondono in un buco sotto la sabbia i soldi conservati per il viaggio.
È deciso: partiranno.
Moussa: «Hai paura?».
Nonostante la paura si fa il primo passo; poi è troppo tardi per tornare indietro.
Dopo che sei stato costretto a nascondere i soldi nel buco del culo: è troppo tardi per tornare indietro.
Dopo che ti hanno appeso come un capretto e torturato per costringerti a rivelare il numero di telefono della tua mamma, in modo che possano ricattarla (mandaci i soldi altrimenti ammazziamo tuo figlio): è troppo tardi per tornare indietro.

Non c’è luce nel viaggio; l’allegria di trovarsi in un’avventura si spegne e anche la speranza di raggiungere la meta si trasforma in paura.
Esperienze terribili, in un mondo privo di umanità, che non ha fatto i progressi che chiamiamo civiltà; i poveri corpi servono solo per essere sfruttati fino all’osso. In Europa l’abbiamo già vissuto (per esempio: i campi di sterminio nazisti); la lezione, evidentemente, non è servita all’umanità.

In questo inferno – in mano ai predoni del deserto o in mano ai poliziotti libici, o in mano agli scafisti, quelli veri – non esiste misericordia, nonostante Dio sia invocato in continuazione come forma di saluto o quando si ha paura. Non dev’essere un Dio misericordioso.

Quanto tempo impiegheranno i popoli europei per organizzare l’immigrazione necessaria per la sopravvivenza? Per la sopravvivenza di chi? Dell’Africa? No: dell’Europa.
Quanto tempo impiegheranno per agevolare la “sostituzione etnica” organizzata (per usare la terminologia di un ministro ignorante) ed evitare la sostituzione etnica a cazzo di cane?
Se non si fanno più figli, cerchiamo di trasmettere a chi verrà dopo il meglio che questa cultura ha prodotto (cultura, non etnia o qualche altra parola che il ministro, per sua ammissione, ha pescato nel vocabolario).

L’operazione compiuta da Matteo Garrone assomiglia a un’operazione analoga che Pietro Germi compì nel 1950, in pieno neorealismo, con il film Il cammino della speranza.

Il grande regista raccontò l’emigrazione degli italiani dal punto di vista di poveri minatori siciliani rimasti senza lavoro in conseguenza della chiusura della miniera. Gli ex minatori, disperati, attraversano l’Italia con le loro famiglie per emigrare in Francia.
Sono clandestini, esattamente come i migranti africani di oggi. Come loro non si arrendono: derubati, sottoposti a ricatti dai delinquenti, cercano di attraversare il confine: esattamente come gli attuali migranti africani.
C’è una differenza di fondo.
Negli anni cinquanta un regista generalmente pessimista e cinico come Pietro Germi poteva immaginare un gesto di umanità da parte di una guardia di frontiera che reagisce con tenerezza al sorriso di un bambino.
Attualmente nessun gesto di umanità si può immaginare si verifichi nell’inferno africano: la cultura (il modo di vivere, l’insieme dei valori) dei delinquenti che controllano e sfruttano il traffico di esseri umani non comprende la pietà.

Alla fine il “capitano” guarda l’elicottero dei soccorsi, guarda la costa italiana dove il barcone sta approdando e forse si domanda se ne è valsa la pena.
Urla con soddisfazione: «Sono io il capitano»; non sa che dall’elicottero lo stanno registrando (suppongo) e quando sbarcherà lo arresteranno come scafista. I veri scafisti mettono un povero disgraziato al timone di un barcone e il disgraziato diventa un delinquente da perseguitare “in tutto il globo terraqueo”.

Il film è molto rigoroso; solo un punto mi suona falso: c’è una fontana di troppo. Un muratore idraulico migrante, diretto a Caserta, al momento sottoposto a torture al pari degli altri e venduto come schiavo, è troppo bravo e capace di lavorare in modo raffinato, benché privo di attrezzature specifiche. Mi sembra incredibile che in condizioni così precarie riesca a realizzare una fontana come quella che si vede nel film, al servizio del maialone occhialuto schiavista, fornito di donne velate al seguito.
È la mia impressione, che, per come la vedo io, getta una piccola ombra su una sceneggiatura severa, che non scende a patti con la necessità di fare spettacolo.