12 ottobre 2020

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Sulle tre caravelle, 528 anni fa (12 ottobre 1492), buone notizie per i marinai e per l’ammiraglio, non sempre all’altezza della sua fama: portatore di Cristo (così dice il nome) e di un’ideologia di conquista e di sottomissione delle culture diverse dalla sua.

Sulla nostra unica caravella, oggi (12 ottobre 2020), brutte notizie dal fronte Covid, in uno strano autunno, con freddo invernale, alternato, nello stesso giorno, a caldo estivo, bombe d’acqua improvvise.
Ci sarà una relazione? (Non tra la scoperta dell’America e la scoperta del virus SARS-CoV-2, ma tra la pandemia e i cambiamenti climatici, tra la pandemia e l’inquinamento).
Dovrebbero dircelo gli scienziati, con argomenti inoppugnabili dal punto di vista scientifico.
Ma purtroppo molti scienziati sono impegnati a contraddirsi, a battibeccare, a fare le prime donne in televisione.
Non sarebbe meglio se i virologi, gli infettivologi, discutessero tra di loro lo stato dell’arte? Se scegliessero un’autorità di cui si fidano, un loro rappresentante, a cui affidare la comunicazione? Uno che avesse il coraggio di dire, quando è necessario: «Su questo non abbiamo ancora le idee chiare, stiamo studiando. Quando avremo un’opinione precisa vi faremo sapere.»
Giusto per non contribuire ad aumentare la confusione e per evitare il solito pollaio che caratterizza molti talk show.
Non abbiamo bisogno di chi dice «il virus è clinicamente sparito» senza domandarsi quale effetto abbiano le sue affermazioni sugli spettatori che non aspettano altro per dedurre: “liberi tutti”.
La realtà, cocciuta, mostra che il virus ha continuato a circolare (sarà sparito clinicamente, ma c’era); i numeri dei positivi e dei morti fanno impressione (soprattutto in Lombardia, in Campania e in Toscana; fonte Tg3 ore 12.00), lo stato di emergenza è prorogato fino al 31 gennaio. È annunciato, per stasera o domani, un nuovo Dpcm, con restrizioni aggiuntive.
Di fronte a questo dramma uno “scienziato” sente il bisogno di dire «Quello? È solo uno zanzarologo». Un altro si dichiara stupito di doversi confrontare con “una veterinaria” e lo dice con l’aria altezzosa degli ignoranti («Io non mi occupo di polli»), come se fosse importante, in campo scientifico, il titolo di studio di partenza. Uno che parla così non è uno scienziato (per quanti titoli possa avere): è un povero scemo.
Questi sono i virologi, gli infettivologi, i clinici che all’inizio hanno contribuito ad aumentare la confusione: bisogna fare pochi tamponi, bisogna fare molti tamponi; mascherina no, mascherina forse, mascherina sì; indossare i guanti usa e getta per spingere i carrelli nei supermercati, non indossare i guanti usa e getta per spingere i carrelli nei supermercati; e così di seguito.

La mente torna con dolore ai momenti in cui eravamo in possesso pieno della libertà di circolare: potevamo stringerci la mano, per non dire altro. Di questo bene prezioso, la libertà, quasi non ci accorgevamo.

Era normale percorrere il cosiddetto Cammino Francese da Saint-Jean-Pied-de-Port a Santiago de Compostela, uno dei pellegrinaggi più antichi. Ottocento chilometri a piedi: una lunga passeggiata citata da Dante nella Divina Commedia.

All’inizio del cammino, nel centro di assistenza dei pellegrini di Saint-Jean-Pied-de-Port (Accueil “Les Amis du Chemin de Saint-Jacques”), gli amici del Cammino di San Giacomo mi dettero la Credenziale, il documento che serve a raccogliere i timbri dei posti visitati, necessario per ottenere, alla fine, la Compostela (l’attestato, in latino, del pellegrinaggio completato) di cui sono orgoglioso, tanto che alla parete della mia stanza da letto non è esposta la laurea o altro titolo (non ci tengo né ci tesi mai – diceva Petrolini): è esposta la Compostela.
Dopo avermi invitato a scegliere in un cesto la conchiglia che mi avrebbe accompagnato per tutto il Cammino, mi chiesero di scrivere i motivi (spirituali, culturali) che mi spingevano a intraprendere quell’esperienza.
Scrissi: per dimagrire.

Era vero in piccola parte. Non ero particolarmente grasso, solo un po’ sovrappeso, ma mi dava fastidio la localizzazione del grasso in eccesso. Non ero contento quando uscivo dalla doccia e vedevo la mia immagine riflessa nello specchio di fronte.
Quella collinetta, che un po’ si appiattiva se il corpo era orizzontale, supino, sporgeva con tutta la sua prepotenza quando ero in piedi, nudo, davanti allo specchio. Era il segno di tutte le cose brutte, deprimenti, che accadono dopo una certa età e trasformano un periodo della vita in una malattia.
La vecchiaia è un problema perché spesso si tende ad abbandonarsi alla decadenza fisica, come se fosse inevitabile cominciare a morire in anticipo.

Avevo provato a risolvere il problema della pancia camminando e cercando di fare un po’ di attività fisica.
Camminavo in campagna, nelle città d’arte, ma non avevo mai fatto percorsi complicati.
Se m’iscrivevo a una palestra o a una piscina, la prima settimana ci andavo due volte, poi una, poi dopo quindici giorni, poi mi dimenticavo, trovavo altro da fare.
Anche quando, da giovane, ho vissuto per cinque anni a Trento e a Cavalese, mi piaceva fare giri tranquilli – non sugli sci, che mi sembravano dotati di vita autonoma.
Percorrevo a piedi sentieri facili, dove la neve non si era accumulata o aveva cominciato a sciogliersi. Prendevo la funivia, raggiungevo un rifugio, mi sedevo in quel calduccio buono e ordinavo la polenta con i funghi o con la luganega (variante della salsiccia), bevevo un buon bicchiere di vino rosso, mangiavo una fetta di strudel, chiudevo con un grappino e un caffè.
Questa era la mia idea di escursione in montagna. Preferivo restare per conto mio, ma non rischiare di rompermi una gamba. Non ho mai avuto un buon rapporto con gli atleti; mi annoiavano i loro discorsi sui vari tipi di sciolina.
Ero magro. Potevo permettermi questo atteggiamento un po’ snob.
Il metabolismo faceva tutto da solo.
Ora sembrava in sciopero.
Dovevo aiutarmi sapendo che avrebbe remato contro, la carogna; dovevo mettermi in una condizione che non mi consentisse una via di uscita comoda.
Pensavo: sulla via per Santiago de Compostela camminerò fino al limite delle forze, dissiperò tutta l’energia in eccesso e tutti i lipidi accumulati.
Ma non era solo questo l’obiettivo che mi spingeva a intraprendere un viaggio così impegnativo.
Avevo voglia di perdermi nei passi, di portare la mia attenzione, per un tempo abbastanza lungo, unicamente sulle gambe, sui piedi, sul corpo impegnato in uno sforzo costante.
Volevo anche ripetere un’esperienza che mi aveva portato bene in gioventù, quando ero partito con un sacco sulle spalle per Londra.
Soprattutto: volevo mettere un punto e andare a capo.
Andare a capo, ricominciare, non da zero: ricominciare da tre (grande Massimo Troisi!)

Divisi il Cammino in due parti: estate 2011 – da Saint-Jean-Pied-de-Port a Logroño (circa 150 km); estate 2012 – da Logroño a Santiago de Compostela (circa 650 km).
Mi procurai una macchina fotografica piccola (Canon G12) e, cinque giorni dopo l’ultimo Collegio Docenti della mia vita (in appendice alla riunione: la festa per il pensionamento), partii in treno con un sacco sulle spalle; direzione: i Pirenei.

«Signorina, dica lei dove sono i Pirenei», cantava Natalino Otto; «Professore non saprei, forse sono dietro a lei».
Ce l’ho nelle orecchie, anche se non è una canzone della mia generazione. Non sono così vecchio. Piaceva a mia madre, che diceva «Pirinei». Evidentemente non era un’intellettuale, pur essendo molto intelligente.

Come sempre: nessuna prenotazione.
Biglietteria della stazione, coincidenze sui grandi tabelloni: a quei tempi non c’era, o, se c’era, non sapevo sfruttare la possibilità di fare il biglietto sul cellulare.
Avevo lo smartphone BlackBerry; lo usavo come un registratore portatile. Mi servì per ascoltare musica e versi di Dante letti dal grande Vittorio Sermonti (che Dio l’abbia in gloria!), soprattutto nelle lunghe ore di cammino solitario nelle mesetas, circondato da campi di grano a perdita d’occhio. Chi ha fatto il Cammino di Santiago sa di cosa parlo e alla parola mesetas gli si risveglia uno struggimento difficile da definire; forse la stessa sensazione di dolce naufragio nell’infinito che Giacomo (un amico si chiama per nome) provava davanti all’ermo colle.
I radi contadini, da sopra i trattori, ci guardavano con noncuranza: facevamo parte del paesaggio.

Avevo in tasca una mappa del percorso (per non trovarmi da tutt’altra parte) e un librettino Michelin del Camino de Santiago, in spagnolo (non l’avevo trovato in italiano), con le caratteristiche di ogni tappa consigliata – in pianura, in salita, in discesa, in campagna, in montagna, dura, normale, facile – la lunghezza del percorso, l’indirizzo degli ostelli.
Il librettino mi ha accompagnato per tutto il cammino e si è riempito di nomi, indirizzi, numeri di telefono, annotazioni, correzioni (in previsione di un riutilizzo).

Siccome Lourdes era sulla strada, fuori del cammino, sul percorso in treno da Ventimiglia a St-Jean-Pied-de-Port, vi feci tappa per un paio di giorni, non per devozione ma per curiosità.
Dopo Lourdes raggiunsi, su un treno locale, in poche ore, il punto in cui è tradizionalmente fissato l’inizio del Cammino Francese, in Francia, al confine con la Spagna: Saint-Jean-Pied-de-Port.

In realtà c’è tutto un percorso (altri 800 km) che si chiama via Podiensis, si svolge in Francia e parte da Le Puy-en-Velay, dipartimento Alta Loira, regione Auvergne.
Volendo, si potrebbe partire ancora più a Nord, seguendo percorsi medioevali più o meno conservati, più o meno recuperati, almeno nelle tappe principali. Si partiva da tutta l’Europa, seguendo antichi cammini tracciati dai pellegrini, affrontando pericoli e grandi difficoltà per raggiungere le reliquie di San Giacomo Maggiore, uno dei discepoli di Cristo. Le altre due mete erano Roma (via Francigena, percorsa dai romei) e i luoghi dei vangeli (meta dei palmieri).
Ho camminato sulla via Podiensis nel 2013, da Le Puy-en-Velay a Aumont-Aubrac, prima di farmi prendere dalla pigrizia e appendere la conchiglia al chiodo; non è un modo di dire, in questo momento la vedo sulla parete di fronte alla poltrona in cui sono sprofondato per scrivere sull’iPad. È appesa a un chiodo.
Non voglio essere ingiusto con me stesso. Sull’interruzione dei miei cammini non ha giocato la pigrizia, non all’inizio. Il ritmo si è interrotto nel 2014 per vicende personali impegnative; poi non ho avuto più la voglia di riprenderlo, anche quando avrei potuto.

Lungo viaggio in treno, cambi a Ventimiglia, a Nizza, a Lourdes, sosta di due giorni, di nuovo in treno per Saint-Jean-Pied-de-Port.
Qui giunto, ero dove volevo essere, completamente libero, nel cuore dei Pirenei, all’inizio del Cammino di Santiago de Compostela, mentalmente attrezzato per affrontare ogni difficoltà, e anche per rinunciare, se fosse stato necessario.
Sapevo che non avrei rinunciato, anche perché, diciamolo, non è come scalare la cima dell’Everest.
Non è un’impresa sportiva, ognuno procede col proprio ritmo, cammina fino a quando ce la fa, quando è troppo stanco cerca un ostello, si ferma. Il giorno dopo riprende.
Se non riesce a recuperare, chiede di restare una notte in più, cammina fino al primo ostello successivo. Spesso lo trova dopo pochi chilometri. Se non lo trova, va avanti, un passo dopo l’altro, e si accorge che poteva farcela, non era al limite delle forze, come gli pareva poche ore prima.
Questa è la differenza rispetto alle camminate vicino casa: non hai alternative, devi spingere più avanti il tuo limite, sei costretto a scoprire che sei molto più forte di quanto credevi.
Dopo, davanti a una birra fresca, ci ripensi: ma guarda! mi sembrava di essere morto, volevo sedermi per terra e piangere come un bambino, invece ce l’ho fatta e ora mi sento proprio bene.
Un senso di rilassamento completo invade il corpo, dopo una tappa che sembrava impossibile.
Siamo molto più forti di quanto pensiamo. Basta non avere vie d’uscita e non affrettarsi.
La fretta fa perdere energia, l’ansia distrugge, la sofferenza causata dalla stanchezza dev’essere gestita.
Io sono contrario al dolore, preferirei morire se la mia vita fosse invasa dal dolore fisico senza rimedio. Non credo in un Dio sadico, che ci fa soffrire per il nostro bene. Ma forse non credo in Dio; dico forse nel senso che sono agnostico: non ho certezze.
Altra cosa è la sofferenza causata dalla stanchezza: passa e fa diventare più forti; basta non drammatizzare.
Il Cammino di Santiago non è un’impresa sportiva.
Non si tratta di vincere una gara in competizione con gli altri; la competizione è con se stessi.
Gli amici ciclisti si spostavano sulle strade statali e si vantavano dei tempi di percorrenza (capitava di incontrarli in alcuni ostelli, mai sul cammino).
Noi no. Noi camminatori medioevali – soprattutto pensionati e giovani studenti – andavamo piano, guardandoci intorno. La sfida con se stessi (con l’altro se stesso, quello pigro) riguardava la resistenza, non la velocità.
A crearmi problemi era la tendenza innata a trascurare lo scorrere del tempo: chi mi conosce sa che non ho mai sopportato gli orari.
Partivo tardi la mattina (mi ritrovavo da solo nell’ostello quando tutti erano già usciti da ore, qualcuno al buio), dopo essermi lavato con calma, avere fatto colazione al bar; sulla strada poteva capitare, di rado, di fermarmi in un ristorante per gustare un piatto tipico che mi era stato consigliato; per esempio il pulpo gallego, a Melide, tra Palas de Rei e Arzua, da bagnare con vino blanco de Rioja.
Finito di mangiare, rimanevo un po’ tranquillo, prendevo un caffè (il cameriere mi chiedeva: espresso? Che me lo chiedi a fare! Non mi hai sentito parlare?) e riprendevo il cammino.
Questo accadeva raramente, solo se sul percorso c’era un posto interessante dal punto di vista alimentare o storico nel quale non era possibile fermarsi (avevo tempo, ma entro certi limiti).
Generalmente preferivo separare nettamente la stanchezza e il riposo.
Feci molte più tappe di quelle proposte dalla guida Michelin: volevo godermi il Cammino.
Scelsi di spezzettarlo (tappe di circa 20 chilometri, ma anche meno) perché altrimenti sarei dovuto partire all’alba per arrivare in ostello, massimo, all’una. La “controra”, in quella parte della Spagna, è terribile, fa un caldo pazzesco.
Nonostante la brevità dei percorsi (rispetto agli altri), spesso mi trovavo a camminare da solo nel caldo pomeridiano e mi è capitato addirittura di scavalcare la controra, di arrivare di sera, naturalmente stanchissimo, alla meta prevista.
Di sera non vuol dire al buio e forse neanche al tramonto; in quella parte della Spagna sembra che il sole non tramonti mai; la gente, allegra, rumorosa, passeggia per strada in piena luce, fino a tardi.
Raggiunto l’ostello, facevo la doccia, lavavo i panni (di solito c’erano lavatrici e asciugatrici), preparavo il letto.
Si trattava di un posto in una camera piena di letti a castello; a volte era possibile avere una stanza da solo (evviva, stanotte si dorme senza il solito sottofondo di suoni vari!)
Andavo a mangiare: paella, tortilla, ensalada de bacalao, bacalao alla Rioja, sopa de aio, sopa de pescado, estufado de toro. I carboidrati alzavano bandiera bianca: ci arrendiamo! ti promettiamo: non ci trasformeremo in lipidi.
La pancia lentamente scendeva e una bella muscolatura gonfiava i polpacci, abbronzati dietro (camminando, prevalentemente nella prima parte della giornata, in direzione ovest, il sole picchia alle spalle).

Torniamo all’inizio; sono al punto di partenza del Cammino francese, in procinto di dirigermi verso la Route Napoleon, che inizia con una strada asfaltata e prosegue con un sentiero, per i primi chilometri in territorio francese, il resto in territorio spagnolo.
Arrivare in quel piccolo villaggio, una settimana dopo un Collegio Docenti (l’ultimo; altri ce ne sono stati, ma erano incubi notturni), era un’applicazione (come sullo smartphone) di come mi sarebbe piaciuto impostare la vita. Ci clicchi sopra e succede: nessuna programmazione (ho sempre odiato la programmazione, la parola e il significato, per non parlare degli inutili fogli che gli insegnanti presentano all’inizio dell’anno scolastico), disponibilità ad affrontare la fatica, gli imprevisti; nessuna fretta (per quale motivo correre, dal momento che, prima o poi, troviamo un segnale di chiusura dei lavori?).
Vedere tanti pellegrini che convenivano da tutto il mondo fu un’emozione che ancora ricordo.
Da subito mi sentii parte di una comunità.
Questo è un sentimento che mi ha accompagnato per tutto il viaggio: ero un Pellegrino.
È strano come un non credente, un agnostico, possa compenetrarsi profondamente in una rappresentazione che ha una base religiosa e sentirsi orgoglioso quando uno sconosciuto in giacca e cravatta, un probabile impiegato di banca, in una città moderna e indaffarata come Burgos, avendo notato, in un bar, la concha appesa al sacco, gli rivolge il saluto: «Buen Camino».
È bellissimo trovarsi nei villaggi sperduti, ma ancora di più nelle città, a Pamplona, Logroño, Burgos, Leòn, Astorga, Santiago de Compostela, dove si svolge la vita normale (uffici, negozi, traffico), sentendosi dentro a una rappresentazione.
La gente ti guarda, ti vede vestito in un modo particolare, vede la concha e pensa: «Ecco un pellegrino».
Fai un prelievo in banca, la guardia ti osserva perplesso. Sul volto gli si legge: «A quei tempi esisteva il bancomat?».
Manca poco che ti chieda spiegazioni: scusi, lei è un pellegrino medioevale? Com’è possibile che disponga di una carta bancomat?
San Miniato, dove vivo, è sulla via Francigena; ogni tanto vedo passare qualche pellegrino che va verso Roma, un collega romeo. Porta lo zaino, ha le gambe muscolose, a volte ha un bastone: lo guardo con simpatia, spero mi chieda un’informazione, per avviare una conversazione, capire quanto sia pellegrino, che percorsi abbia fatto (ci sono storie incredibili).
Potrebbe essere un turista, ci vuole occhio per distinguerlo. Come farà a evitare di prendere il treno per Firenze, per Pisa? Come farà a evitare di trasformare un viaggio devozionale in un giro turistico?
Troppa arte lo circonda da noi per riuscire a concentrarsi su un percorso diritto che nel Cammino spagnolo è fatto di chiese e castelli medioevali che si ripetono, sentieri di campagna e villaggi montani che si ripetono, mesetas, cittadine più o meno grandi da percorrere passo passo, seguendo la conchiglia.
Da noi nessuno inquadrerà quel viandante allampanato come pellegrino, e quindi non è un pellegrino, perché non c’è la rappresentazione. Senza contare che dovrà cercare da solo la strada, il posto dove dormire.
A San Miniato c’è il convento di San Francesco, c’è un ostello della gioventù, ma non sono pieni esclusivamente di pellegrini, tutti sulla stessa via Francigena. Quella via che in molti tratti è una statale percorsa da automobili e camion.
La Francigena ha la sua storia, ma non siamo riusciti a mantenere un clima, un’atmosfera, una rappresentazione.
Gli spagnoli sono stati intelligenti: hanno segnato con la conchiglia tutto il cammino, hanno previsto deviazioni dove la strada antica non c’è più, in modo che il pellegrino si trovi sempre a camminare su sentieri che, se non sono antichi, ricordano (a volte vagamente) i percorsi dei pellegrini medioevali.
Nella rappresentazione teatrale la scenografia è importante.
I segnali sono presenti dovunque, nei villaggi sperduti e sui marciapiedi delle città; sono importanti i muri a secco delimitanti i campi, che sopravvivono grazie ai finanziamenti europei.
Un tale, alla mia osservazione – «i muri a secco sono conservati benissimo» – mi guardò con aria saccente e con tono criptosovranista disse: «li riparano con le tasse che trasferiamo all’Europa. Anche tu contribuisci a mantenerli.»
Credeva forse di avermi rivelato una verità irritante che mi avrebbe indotto ad associarmi al suo tono. Per evitare equivoci gli feci sapere che sono contento di contribuire (nel mio piccolo, con le tasse che ho sempre pagato) a conservare le costruzioni presenti su quell’antico Cammino e a dimostrare che la frase attribuita a un ex ministro di un governo berlusconiano, da lui più volte smentita (“c’è la crisi: non è che la gente la cultura se la mangia”) – spero smentita non per vergogna, ma perché veramente non l’ha detta – è sbagliata, anzi: è una stronzata. Con la cultura non solo si mangia: si vive.

Arrivato all’inizio del cammino di Santiago, immediatamente mi sono sentito un Pellegrino.
Sono convinto che se trascorressi quindici giorni in un convento di monaci tibetani, dopo un po’ mi metterei a girare la ruota e a fare disegni sulla sabbia, immedesimandomi nel personaggio.
Ci dev’essere un po’ di Zelig (quello del film di Woody Allen) nella mia psicologia (non è esattamente un complimento).
Non mi sfugge l’aspetto teatrale: l’attore non finge ma ricerca in sé il personaggio che deve rappresentare.
Sulla strada per Santiago de Compostela non ero uno che fa una lunga passeggiata o uno che cammina per dimagrire. Con quella conchiglia ero un pellegrino che porta a compimento un antico percorso devozionale.
Questa è la spinta: a volte sei stanco, a volte ti sembra di non farcela, ma vai avanti. Arriva il momento in cui, in un certo senso, ci credi, o, meglio, non ti domandi se ci credi; accogli con affetto la benedizione che i preti, i monaci, spargono sul tuo capo alla fine di ogni funzione religiosa.
In particolare ricordo l’emozione di una funzione antichissima nella cattedrale di Roncesvalles, dopo avere portato a termine la durissima prima tappa.
Tranquilli! Nessun cambiamento di fronte: basta il ritorno alla vita normale, dopo che, alla fine del viaggio, è calata la tela, per far tornare i dubbi – primo tra tutti: perché ha deciso di entrare nella storia proprio in quel momento, circa 2000 anni fa? Per darci un modo convenzionale per contare gli anni?
Mentre sei in fila all’aeroporto di Santiago de Compostela rifletti sulla rappresentazione teatrale vissuta, guardi gli altri viaggiatori: hanno l’aspetto di turisti che tornano alla vita di sempre. Il sano, sereno atteggiamento agnostico si risveglia, dopo essersi messo in stand by all’arrivo a Saint-Jean-Pied-de-Port.

Per questo dico che non potrò mai fare una scelta religiosa definitiva. Se la facessi, un angolo della mente si metterebbe in stand by, mi guarderebbe sornione: bravo! Hai trovato un bel personaggio e lo stai interpretando proprio bene; hai imparato a convincerti di non avere dubbi. Mi complimento con te. Però sta attento: sta per finire il primo atto. Che farai quando, anche solo per dieci minuti, sarà calata la tela? Che farai nell’intervallo?
Che farai alla fine del secondo atto? E alla fine del terzo?
Alla fine del terzo atto non c’è da preoccuparsi, perché la commedia è in tre atti. Si tratterà solo di fare un inchino, ricevere l’applauso, salutare.

La prima parte (2011) durò un mese (ero impreparato), la seconda parte (2012) due mesi e mezzo, più i quindici giorni a Finisterre (me la presi comoda, avevo tutto il tempo) a bagnarmi nelle acque dell’Oceano Atlantico.
Credo di avere visitato ogni chiesa sul percorso: solo poche erano chiuse.
La chiesa che mi ha colpito più di tutte, che mi ha sorpreso in modo positivo – potrei dire: mi ha entusiasmato – è la cattedrale di Santo Domingo De La Calzada.
Non mi sarei mai aspettato di vedere una chiesa maestosa con, all’interno, un pollaio vero e funzionante in cui alcune galline razzolavano mentre si svolgevano le funzioni.
Una cosa bellissima. Se abitassi a Santo Domingo De La Calzada andrei a messa tutte le mattine … anche solo per vedere le galline.
È bella la statua del santo, rappresentato con due galli ai piedi; nelle pasticcerie ci sono dolci, tipo cornetti, a forma di gallo; si chiamano milagros, miracoli.
Trovo questo molto interessante e indicativo, al di là della leggenda che ha dato origine alla devozione, della carnalità della religione cattolica.

Ho fotografato un numero enorme di drammatici crocifissi, di dolci giovani madonne e di madonne severe, anziane – coperte di tessuti dorati da cui esce solo il viso – di teneri gesùbambini, di dolorose pietà, di santi che mi guardavano arcigni, quando non avevano le pupille rivolte verso l’alto, le mani giunte, l’atteggiamento tranquillo, mentre lance e frecce trafiggevano il loro corpo. A Belorado, nella Iglesia de Santa Maria, un santo regge con la sinistra la testa barbuta separata dal collo. Il collo è scoperto, tagliato di netto, il volto mostra un sereno distacco, come se il santo, in quelle condizioni, si accingesse a fare due passi.

In quel lungo periodo ho cambiato letto quasi ogni notte; ho consumato i pasti seduto ogni volta a un tavolo diverso, con una compagnia diversa; mi sono lavato dentro a servizi igienici di igiene varia, non sempre impeccabile.
Ho affrontato il problema delle bolle sulla pianta dei piedi, un malanno che affligge molti pellegrini. Un podologo che esercitava in un ostello (non gli ho chiesto il titolo di studio) mi ha risolto il problema con una fasciatura stretta che potevo tenere anche sotto la doccia (la vescica si deve riassorbire; è un guaio, in quella situazione, se si apre).
Ho incontrato un gran numero di persone. Quasi tutte sono diventate immediatamente amiche – un’amicizia assai superficiale, veloce, poco impegnativa – senza la noia dei rapporti formali.

Ho partecipato a funzioni religiose come non avevo mai fatto, godendo di quel ritorno all’infanzia, di quell’aria mistica, agevolata dalla bellezza della lingua spagnola (abolito il latino, i canti religiosi si capiscono ma hanno perso mistero e poesia).

Ho corso qualche rischio, per la mia mancanza di consuetudine con i controlli preventivi della salute (cerco di stare attento, ma non ho voglia, finché posso, di passare il tempo tra prenotazioni, analisi, sale di attesa).
La prima tappa, sui Pirenei, è la più difficile, anche perché non consente soste intermedie: non ci sono ostelli. Si attraversa a piedi il confine tra Francia e Spagna, passando dai 200 metri di St-Jean-Pied-de-Port ai 950 metri di Roncesvalles e raggiungendo, sui sentieri di montagna, molto più di 1000 metri.
Si va in salita per 18 km, poi comincia la discesa, ancora più faticosa, soprattutto per le ginocchia, per altri 8 km.
Tutto ciò, nel mio caso, con un sacco troppo pesante, che poi alleggerii regalando i doppioni di tante cose, comprese le scarpe, che mi ero portato dietro.
La liberazione, nella seconda parte del viaggio, avvenne con la scoperta di un servizio presente nei tratti più faticosi: era possibile lasciare lo zaino, di mattina, con pochi euro e sbarrando con una crocetta l’indirizzo dell’ostello che si pensava di raggiungere quel giorno, scegliendolo in un elenco. Ritrovavo il sacco all’arrivo, dopo avere camminato in modo assai più comodo. Unico inconveniente: dovevo per forza completare il percorso, non potevo fermarmi prima, anche se avevo trovato una difficoltà imprevista. Di solito prevedevo tratti troppo lunghi (ecco perché qualche volta sono arrivato di sera) però il cammino divenne molto più piacevole. Prima di allora avevo invidiato quelli che viaggiavano facendosi accompagnare da un asino, il mezzo di trasporto, insieme al cavallo, dei pellegrini medioevali, come si vede nel Monumento al Pellegrino (Alto del Perdón) riprodotto in testa a questo articolo.
Tante volte mi ero pentito di non avere preso in affitto un asinello (anche questo è possibile: si prende all’inizio, si consegna alla fine). Mi aveva distolto da questa scelta la necessità di programmare le tappe (bisogna prenotare la sosta dell’asino) e la mancanza di familiarità con questi animali; qualcuno diceva che se decidono di non andare avanti su una strada non c’è modo di smuoverli. Non so se sia vero.
Nella prima tappa del cammino il peso sulle mie spalle era eccessivo, forse avevo molti peccati da espiare.
Sulla strada per Roncesvalles due pellegrine francesi, vedendomi in difficoltà (avevo finito l’acqua e si era di molto abbassata la pressione), mi diedero una bottiglina di acqua, succo di limone e sale, di cui ero sprovvisto.
Con questo aiuto la pressione risalì (stavo quasi per svenire) e riuscii ad arrivare fino in fondo. A Roncesvalles alleggerii di molto il peso.

Sul cammino si trovano spesso simpatiche costruzioni new age dedicate al sincretismo, contenenti un miscuglio di simboli religiosi di origine differente: la Madonna, i totem, Shiva e Buddha uno accanto all’altro. All’interno, solitamente, un personaggio barbuto, trasandato, dall’aspetto vagamente hippy, un po’ fumato, inoffensivo.

Comprendo chi crede che sul cammino ci siano gli angeli.
Perché no? Anch’io ne ho visti due che mi hanno aiutato a superare il momento di crisi che ho descritto prima. Devo dire che i miei angeli custodi hanno un bell’aspetto e parlano una delle tre lingue che amo di più (nell’ordine: italiano, napoletano e francese). Sono convinto che il solo sentirmi appellare con un «Bonjour, ça va?» mi fece stare meglio.
Anche in altre occasioni, meno importanti di questa, sono stato aiutato dall’apparizione di qualche sconosciuto. Soprattutto mi è capitato quando mi distraevo e mi veniva il dubbio di avere sbagliato strada (sono stato attento alla conchiglia che indicava la direzione giusta?). Ma forse gli angeli sono persone dotate di grande disponibilità verso gli altri, capaci di trovarsi nel posto giusto nel momento giusto, quando qualcuno ha bisogno di aiuto. Così credo: sono agnostico, non sono ateo. La mia guida è il dubbio.

Alla fine del cammino, al ritorno da Finisterre, presi un aereo da Santiago de Compostela a Fiumicino. Per tornare a casa da Roma dovevo prendere il treno per Pisa.
Nella libreria della stazione notai un libro di Paulo Coelho che s’intitola Il Cammino di Santiago (non ricordo la casa editrice). Mi sembrò il completamento ideale di quella esperienza. Non avevo mai letto un libro di Paulo Coelho.
Mi proposi di leggerlo nelle tre, quattro ore complessive tra attesa alla stazione e viaggio in treno e cominciai nel ristorante, davanti a un piatto di spaghetti.
Riuscii a leggere poche pagine. Non ce la feci a continuare un racconto pieno di invenzioni prive di fantasia, che non erano solo false, erano spudorate, e a me sembravano offensive. Se conoscessi l’autore gli toglierei il saluto.

Ci vuole un po’ di pudore quando si inventa una storia, un po’ di rispetto nei confronti del lettore; non si deve tentare di propinargli delle balle su qualcosa che potrebbe avere vissuto. Venivo da un’esperienza concreta, che ho cercato di descrivere anche nei suoi aspetti spirituali e religiosi, naturalmente da un’angolazione personale. Da questa esperienza ho ricavato gioia e sofferenza, solitudine desolata e allegra compagnia, emozioni e sudore abbondante.
Il sudore si è asciugato, è bastata una sosta per cancellare la stanchezza, ritrovare il sorriso, la gioia di essere dentro a una piccola avventura, un po’ folle.
Per me il cammino è stato anche una rappresentazione teatrale, un gioco, mai un sogno psichedelico.
Anche i santi nelle chiese, gli angeli nelle strade erano molto carnali (le due ragazze francesi avrebbero risvegliato un moribondo).

Non solo non condividevo il punto di vista dell’autore del libro (o del personaggio che usa la prima persona), ma la storia è estremamente noiosa, i luoghi sono irriconoscibili, appesantiti dai simboli, i personaggi inesistenti.
Non ce la facevo ad andare avanti, ma oramai l’avevo comprato. Soluzione: riciclaggio della carta; non credo che quel libro meritasse un destino migliore.

Poco prima del marzo scorso (per intenderci: prima delle restrizioni dovute al coronavirus), nell’attesa di un treno alla stazione di Firenze, scorrendo con curiosità e un po’ di tristezza i titoli dei libri esposti sugli scaffali della libreria Feltrinelli – la tristezza è dovuta al numero di libri che non leggerò, perché, diceva Massimo Troisi, loro sono in tanti a scrivere, io sono solo a leggere – scoprii il libro di Coelho in una edizione recente della casa editrice La nave di Teseo.
Mi sedetti in una delle comode poltrone che costituivano la dotazione standard delle grandi librerie e – ahimè! – sono scomparse, e, per verificare l’impressione di quasi dieci anni prima (sono sempre disposto a cambiare opinione sui libri, meno sulle persone) lessi l’incipit, dove l’io narrante racconta di trovarsi a León, sul Cammino di Santiago, con tale Petrus, la sua guida spirituale, in procinto di compiere un rituale di RAM (ho capito solo che non si tratta di memoria random del computer), alla ricerca di una spada (di una spada? Ma questo è pazzo!).

Mi tornò in mente la noia, la fatica, l’irritazione di quasi dieci anni prima, le palpebre cominciavano ad abbassarsi; rischiavo di addormentarmi e perdere il treno. Rimisi il libro sullo scaffale. Questa volta non ero costretto a riciclarlo.