
8 giugno 2023 h 17.00
Cinema Teatro La Compagnia Firenze – via Cavour, 50r
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Amicizia (scoperta, coltivata o tradita)
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Nel 1978 – quando uscì nelle sale National Lampoon’s Animal House – John Belushi (nato nel 1949) aveva 29 anni, John Landis un anno in meno.
Belushi era già famoso per i suoi sketch demenziali al Saturday Night Live.
Sulla scia del successo di Animal House, due anni dopo i due coinvolsero Dan Aykroyd, un altro ragazzo (nato nel 1952), che lavorava con Belushi, in un capolavoro a cui parteciparono miti della musica rock e afroamericana.
The Blues Brothers (1980) è stato un film importante per molte generazioni.
Ci ha insegnato un tipo di umorismo; ci ha fatto amare il Rhythm&Blues; ha influenzato, per un periodo, il nostro modo di vestirci, persino di camminare, e il modello di occhiali che sceglievamo dall’ottico.
Quando partivo da Trento in macchina, insieme ad altri emigrati, per tornare a casa, o da casa per tornare a Trento, sempre qualcuno diceva: «Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio e portiamo gli occhiali da sole: vai!». Era vero solo il pieno del serbatoio e, soprattutto, la cinquecento non era paragonabile alla bluesmobile, ma ci dava allegria cominciare il viaggio con questa citazione.
Per giustificare ritardi ingiustificabili (capitava spesso) ripetevamo l’elenco delle disgrazie che Jake usa con la ragazza armata di kalashnikov: «Sono rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette. Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!»
The Blues Brothers è stato una “pietra emiliana” (copyright Totò per “pietra miliare”) nella nostra formazione culturale: non esagero, dal momento che cultura è lo sguardo sulla vita, non è solo libri letti e esami dati o, peggio ancora, titoli accademici conseguiti.
In ogni scena i due film trasmettono l’allegria giovanile del regista e degli attori.
La caratteristica principale di Animal House è la trasgressione rispetto alla società americana degli anni sessanta in cui il film è ambientato (1962).
La trasgressione non fu ostacolo alla distribuzione negli Stati Uniti e in Europa (solo qualche scena fu censurata): nel 1978 la società occidentale aveva metabolizzato il sessantotto. Si era capito che la libertà, per qualunque forma di arte, è fondamentale.
Niente libertà, niente arte. Niente arte, niente prodotti artistici.
Il mondo capitalista aveva capito che un film trasgressivo, ma geniale, può essere un buon affare.
Se un film come Animal House, indifferente rispetto al “politically correct”, fosse realizzato nel 2023 in America o in Italia, sarebbe coperto di contumelie e tacciato dei peggiori delitti.
Lo hanno restaurato e sta girando nelle sale perché è un cult: come tale è inattaccabile.
Se fosse un film nuovo gli chiuderebbero le porte delle sale cinematografiche in faccia.
I combattenti a tempo pieno contro il consumismo e lo spreco di risorse alimentari, confondendo la finzione con la realtà, giudicherebbero inappropriata la “battaglia del cibo” nel self-service del college e l’accumulo di panini, di dolci e di qualunque cosa mangiabile sul vassoio e fuori del vassoio (anche nelle tasche) di Bluto Blutarsky, il vorace personaggio interpretato da John Belushi, che arriva a ingoiare un panino intero, a mangiare una pallina da golf e a svuotare in un sorso solo una bottiglia di whisky (poi dice: «Grazie: ne avevo proprio bisogno»).
Non sarebbe visto con divertimento lo spionaggio a cui Bluto sottopone le ragazze del college nei loro momenti personali e nelle parti intime; in generale l’atteggiamento degli uomini nei confronti delle donne sarebbe condannato senza appello.
Nel film le ragazze fanno la figura di ochette insipide: Barbara (Babs) ha una collezione di peluche nella stanza da letto; Mandy, la ragazza di Gregory (Greg), uno dei “signorini”, passa le serate in macchina cercando di eccitare il fidanzato; la mano protetta da un guanto usa e getta si stanca, ma lui proprio non ce la fa a concentrarsi. Quando i due si incontrano si scambiano un bacio casto sulla guancia; Greg sta attento a non guastarle i capelli vaporosi. Un rapporto simile tra un uomo e una donna della buona società americana è descritto in un altro capolavoro di quegli anni: Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974).
Non solo le femmine, anche i maschi, in un modo o nell’altro, sembrano scemi.
Il film è una presa in giro generale, di tutti i ragazzi, di tutte le ragazze e degli adulti. Mancano solo i bambini.
Alle proteste del mondo progressista (quelli che in Italia si siedono a sinistra nell’emiciclo della Camera dei deputati e nel Senato) si sommerebbero le proteste del mondo conservatore (quelli che siedono a destra), offeso dalla presa per i fondelli dei militari.
Doug Neidermeyer, comandante dei militari della riserva (indossano la divisa e giocano con i fucili), è un anticipo divertente del sergente Hartman che in Full Metal Jacket (Stanley Kubrick, 1987) perseguita “Palla di lardo” fino a indurlo alla disperazione. Doug Neidermeyer se la prende con il dolce e remissivo Kent Dorfman, detto Flounder (sogliola), però Flounder ha due amici che sanno giocare a golf e uno dei due ha una buona mira. Risultato: la situazione, drammatica nel film di Stanley Kubrick, è comica nel film di John Landis.
Nel 1964 fu avviata la cosiddetta “escalation” dell’impegno militare americano in Vietnam, nel 1978 l’impresa si era conclusa con gravi perdite (1975: ritiro degli americani da Saigon).
La data, 1962, che si legge all’inizio del film, così ridicolmente precisa in una storia sconclusionata, significa: l’impegno politico del sessantotto è di la da venire, la guerra del Vietnam non è entrata nel pieno della tragedia; dunque possiamo scherzare sulla politica e sul militarismo.
Il film racconta giovani che pensano solo a divertirsi passando le serate tra musica, balli, fumo e birra; sono allegramente presi in giro – anche se tra poco alcuni diventeranno martiri e eroi – i “figli di papà” WASP (bianchi, anglosassoni e protestanti) e i giovani provenienti dalle classi meno abbienti che hanno raggiunto un relativo benessere e possono mandare i figli al college.
Se poi nella vita del college si ripropone la divisione in classi sociali (i ricchi nel club Omega, i poveri nel club Delta), ci riempiamo la bocca di cibo, come fa Bluto in una scena, e sputiamo il contenuto in faccia agli altezzosi signorini.
Tutto è visto con gli occhi di poi (senza il senno) e con un’ombra di nostalgia: ah, le belle scazzottate di una volta!
Lo studio non faceva parte dei programmi di vita; la società americana offriva altri modi per raggiungere la ricchezza; il college serviva solo a condividere dei privilegi, come il rinvio del servizio militare, che tra un po’ sarebbe diventato molto pericoloso.
Non andrebbero a genio alla destra le scritte sui titoli di coda, in cui, come fossero necrologi al contrario, si racconta che fine faranno i personaggi del film.
L’altezzoso Gregory entrerà nello staff di Nixon e sarà stuprato in carcere.
Il fanatico militarista Doug Neidermeyer sarà ucciso dai suoi stessi commilitoni in Vietnam.
Ambientando il film nel 1962, prima che l’escalation porti la tragedia nella vita di tanti giovani americani, può passare questa battuta sull’ultimo fotogramma.
Quali reazioni susciterebbe oggi, sia a sinistra che a destra, la feroce presa in giro delle istituzioni democratiche?
Sui titoli di coda scopriamo che Bluto Blutarsky diventerà senatore e, effettivamente, per tutto il film dimostra determinazione e capacità di trascinare gli altri.
Carmine DePasto, il sindaco di Faber, la cittadina in cui è collocato il college, italoamericano di nome e di accento, rivolgendosi al rettore dell’università, dice: «Se tu pretendi di non dare un contributo al comune per la partecipazione alla parata, ti dovrò gambizzare».
Ci offendiamo? O ci facciamo una bella risata?
Qui non c’è trasgressione, perché Il padrino I e II erano già usciti (nel ‘72 e nel ‘74); quindi l’uguaglianza italoamericano = mafioso era già passata nell’immaginario collettivo.
Il professor Jennings (Donald Sutherland) dovrebbe spiegare il Paradiso Perduto di John Milton, ma lo considera un poema troppo lungo, ripetitivo e noioso (come dargli torto?); preferisce trascorrere le serate insieme ad alcuni studenti al lume delle candele in un ambiente fumoso.
Il professore insegna a uno studente come farsi uno spinello, poi, tranquillamente, va a letto con una studentessa che lo ammira. Alla fine la studentessa torna dal suo ragazzo; sui titoli di coda sapremo che i due si sposeranno e dopo quattro anni divorzieranno. C’est la vie!
Scene e situazioni come questa in un film nuovo scatenerebbero una violenta campagna degli odiatori da tastiera, pronti a intervenire in qualunque causa in grado di convogliare odio nei confronti di chi ha talento; in questo caso: talento comico.
Il regista e gli attori volevano solo fare comicità demenziale, senza preoccuparsi della realtà; ai problemi seri e alle tragedie del mondo pensiamo dopo il film: ogni tanto lasciateci ridere liberamente!
Fu possibile ridere senza paraocchi nel 1978 ed è possibile ridere ora al cinema perché si tratta di un film cult e dei mitici fratelli Blues. Non sarebbe possibile se questo film fosse appena uscito: il clima è diventato estremamente serioso.
Il controllo moralizzatore, che prima era esercitato soprattutto dai governi e dalle chiese, in questa parte del mondo ora è esercitato dalla massa collegata via internet.
Il problema è che questo controllo non è solo lo sfogo di gente che non ha di meglio da fare: ha conseguenze. Una campagna di odio può stroncare la carriera di un attore, di un regista o convincere i distributori a bloccare la circolazione di un film.
Qualche anno fa abbiamo visto il nome di un regista sparire in seguito a una serie di denunce (come le ciliegie si chiamano l’una con l’altra) che la magistratura ha dimostrato infondate.
Ecco che, per evitare guai, interviene l’autocensura preventiva.
In alcune scene Animal House sembra un cartone animato; il personaggio interpretato da John Belushi è uno spiritello dispettoso: si arrampica sui muri, salta dai tetti, si fa inseguire ma non riescono mai a prenderlo, sguscia tra le mani degli inseguitori, compare in posti impensabili, cade, si rialza, come fosse elastico.
È un gioco.
Si vede che è un gioco da come rappresentano i neri, nei confronti dei quali non si può negare la simpatia e l’affetto di questo gruppo di pazzi scatenati (basta vedere il film successivo).
In Animal House si gioca con uno stereotipo: i neri sanno cantare e suonare (Rhythm&Blues), però guardano minacciosi i bianchi che hanno osato entrare nel loro locale, li costringono a scappare e si tengono le ragazze.
Per capire come la pensassero i nostri saltimbanchi riguardo alle destre fasciste basta la battuta mitica: «Io li odio i nazisti dell’Illinois», da The Blues Brothers. Un’altra battuta che ci piace ripetere.
John Belushi sapeva far ridere senza parlare, solo muovendo il sopracciglio, come i grandi del cinema muto.
Quando sente il chitarrista romantico intonare una canzone noiosa ci lancia attraverso lo schermo uno sguardo complice, muove il sopracciglio e fa ciò che a noi piacerebbe fare in una situazione simile: gli strappa la chitarra dalle mani e la spacca contro il muro. Poi dice semplicemente: «Scusa».
Chi sta per alzare l’indice accusatore si tranquillizzi: era una chitarra finta, da quattro soldi.
Il film non vuole insegnarci nulla, non vuole lanciare messaggi.
Anche la famosa regola («Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare») è un calembour divertente. Nulla di più.
