4 ottobre 2022 h 18.30
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

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Non è un trattato, è un film.
Se si occupasse di Moro, delle brigate rosse, del Papa, di Craxi o di Fabrizio De André chiederemmo la documentazione degli episodi rappresentati. È gente del nostro tempo: nessuno ha il diritto di inventarsi un personaggio e dargli il nome di una persona.
I personaggi in cerca di autore di Luigi Pirandello apparivano e sparivano e solo sul palcoscenico erano persone.
Finite le prove, spente le luci, non esistevano più.
Ma qui si tratta di Dante: non ci toglieremo mai tutti i dubbi che la sua complicata biografia e l’epoca in cui è vissuto ci pongono.
Come per Leonardo, per Michelangelo, per Shakespeare: sapremo mai chi fossero realmente?
Possiamo avvicinarci, per approssimazione, studiando i documenti che ci restano, cercandone altri; ma questi geni, questi doni che l’umanità ha ricevuto, resteranno sempre un mistero.
Il film è Dante di Pupi Avati.
Molti anni fa la televisione in bianco e nero mandò in onda uno sceneggiato: Dante di Giorgio Albertazzi; regia di Vittorio Cottafavi, sceneggiatura del critico e autore teatrale e cinematografico Giorgio Prosperi. C’erano i più famosi attori di teatro dell’epoca; lo sceneggiato si chiamava Vita di Dante, ma presto divenne: Dante di Albertazzi.
Prima della messa in onda – una bella metafora che si usava allora e dava la sensazione del viaggio di immagini e parole sulle onde elettromagnetiche (ora si pensa ai cavi del telefono o alla fibra ottica) – si era discusso sui giornali: come potrà il grande attore, con quel volto, quel naso diritto, dare verosimiglianza alla sua interpretazione di Dante?
Dopo le prime battute, nonostante fosse uno spettacolo lento e dal tono scolastico (piacque agli studenti e ai professori), credo che nessuno degli spettatori superstiti (a casa mia uno solo, gli altri erano andati a letto) si sia posto quella domanda. Sapevamo che sullo schermo poco risoluto (indeciso) degli ingombranti televisori di allora non c’era Dante, c’era Dante di Albertazzi (per giustizia si dovrebbe dire anche: Dante di Prosperi e Cottafavi).
Se nel film di Pupi Avati ci sono cose non accertate, dobbiamo farcene una ragione. Può piacere o non piacere, ma è un film, è un’opera d’arte.
Gli studiosi fanno bene ad approfondire e confrontare i documenti, ma un artista ha il diritto di dirci chi è Dante dal suo punto di vista.

È una premessa necessaria per evitare la litania: questo non è dimostrato, quest’altro non è accaduto o è accaduto prima, o molto dopo.
Fra gli studiosi girano tesi contrapposte. Che cosa può fare un artista? Può fare una scelta; può anche inventarsi delle situazioni. Noi sappiamo che si tratta di un film, del suo punto di vista.
Pupi Avati ha tenuto a sottolineare, in più occasioni: gli esperti, i dantisti, hanno apprezzato la ricostruzione storica (un lungo elenco scorre all’inizio dei titoli di coda).

Ma siamo in un’epoca in cui uno che ha letto l’ultimo bestseller su un argomento si definisce esperto e ritiene di conoscere la soluzione di questioni complesse. Accade nei campi dell’economia, dello smaltimento dei rifiuti, della transizione energetica. Tutti esperti; nessuno dice: non è il mio campo, sentiamo chi ha studiato.

Torniamo al film.
Come non critichiamo (spero) la Pietà di Michelangelo perché la mamma sembra più giovane del figlio, così, vedendo nel film un bambolotto che passa, dopo un lungo viaggio, dalle braccia di Beatrice (morta) alle braccia di una bambina, unica figlia sopravvissuta di Giovanni Boccaccio, non ci domandiamo da quale testimonianza accertata (ammesso che esistano testimonianze accertate) sia venuto fuori.La bambina rifiuta il bambolotto: le sembra un bambino morto e lo copre di terra.
Non stiamo leggendo un trattato, anche se il film si basa su un testo che si chiama Trattatello in laude di Dante, di Giovanni Boccaccio.

È il titolo che hanno dato alcuni editori.
Non tutti: vedi Vita di Dante – Ed. Avanzini e Torraca; a cura di Bruno Cagli; 1965; Lire 700

Il titolo originale, molto più analitico, è in latino.
DE ORIGINE VITA STUDIIS ET MORIBUS CLARISSIMI VIRI DANTIS ALIGERII FLORENTINI POETAE ILLUSTRIS ET DE OPERIBUS COMPOSITIS AB EODEM (Origine, vita, studi e costumi del chiarissimo Dante Alighieri fiorentino, poeta illustre, e opere da lui composte).
Dunque Boccaccio pensava di avere scritto una biografia completa di Dante: origine, vita, studi e costumi.
Di questo testo ci sono tre versioni dello stesso autore (è accertato).
Una versione estesa (datata dal 1351 al 1355), due versioni sintetiche (dal 1359 al 1366 la seconda, non oltre il 1372 la terza). Le ristrette o “compendiose” sono più vicine al nostro desiderio di trovare fatti e non laudi.

È una biografia a modo di uno scrittore, di un grande scrittore, del trecento.
Boccaccio non si esime dall’inventare episodi, situazioni finalizzate a mostrare che il poeta era un predestinato (il sogno della madre). Racconta apparizioni (riporta apparizioni inventate) per spiegare il ritrovamento degli ultimi tredici canti del Paradiso, che sembravano perduti. Quando racconta l’incontro di Dante con Beatrice utilizza come fonte la Vita Nova.
È il modo dell’epoca: la verità non coincide necessariamente con la realtà.

Boccaccio non aveva conosciuto Dante: aveva otto anni quando Dante è morto a Ravenna.
Conosceva la sua opera e aveva fatto, con amore, il lavoro di amanuense: almeno tre copie della Divina Commedia, tre codici, si devono a lui.
Nel 1373, nella Chiesa di Santo Stefano in Badia, Giovanni Boccaccio fece una Lettura pubblica della Divina Commedia come Vittorio Sermonti e come Roberto Benigni in piazza Santa Croce qualche anno fa. Dovette interrompere dopo alcuni mesi per le precarie condizioni di salute: morì nel 1375.

Nel film si racconta il viaggio che compì nel 1350, su incarico della Congregazione di Orsanmichele, per portare la somma di dieci fiorini d’oro alla figlia di Dante, Antonia, divenuta clarissa con il nome di Beatrice, nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna. La somma, nelle intenzioni dei fiorentini, doveva in qualche modo risarcire la figlia dei patimenti inflitti al padre.
I due figli maschi, Iacopo e Pietro (o Piero, Pierus, come viene citato nei documenti in latino), erano rientrati a Firenze dopo la morte del padre (1321); la figlia, suor Beatrice, non aveva mai perdonato i fiorentini per il trattamento a cui il poeta era stato sottoposto.
Boccaccio cercò, nel corso del viaggio, le tracce dell’esilio di Dante, i testimoni sopravvissuti di una parte del suo peregrinare; era affamato di notizie.
C’è un momento di grande commozione quando scopre, da una lettera, la povertà che Dante dovette patire in esilio e la sua umiliazione, «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Paradiso XVII).

Pupi Avati ha scelto di rappresentare Dante attraverso gli occhi di Boccaccio.
Ammiro la scelta di non ricorrere al sistema adottato molto spesso dai registi attuali per affrontare un argomento complesso: diluire il racconto in una serie televisiva dispersiva.
Spero che altri registi prendano esempio da questo grande vecchio della cultura italiana, grande in tutti i sensi: abbondante, straripante, interessato a tutto, attento a ogni aspetto della realtà, ai sogni e agli incubi.
La grandezza del regista consiste nella capacità di conciliare, in un film che dura un’ora e mezza, due elementi antitetici: dettagli e visione, analisi e sintesi.

A me interessano i dettagli.
Le mani di Boccaccio, tormentate dalla scabbia, protette, per tutto il film, per tutto il viaggio da Firenze a Ravenna – un viaggio lunghissimo a quei tempi, e faticoso – da strisce di stoffa avvolte intorno alle dita, curate con prodotti erboristici che farebbero la gioia di molti amanti della natura, i quali possono concedersi l’odio nei confronti dei prodotti chimici perché non sono affetti da scabbia e, se lo fossero, gli basterebbe entrare in farmacia.
A quei tempi la peste doveva passare da sola: si aspettava, si seppellivano i morti e, quando non c’era più spazio nei cimiteri, si accumulavano i cadaveri da qualche parte, nel fondo di una torre. Si sopportava l’odore di putrefazione. Non c’erano i vaccini e, quindi, non c’erano i novax, né i programmi televisivi per diffonderne il verbo: non c’erano i talk show che aumentano l’audience mettendo sullo stesso piano scienziati e cialtroni.

Il racconto realistico della vita ai tempi di Dante (1265, 1321) e di Boccaccio (1313, 1375) ci fa chiudere definitivamente con la nostalgia del buon tempo antico. Quel tempo (non solo il Medioevo) era faticoso, difficile, pericoloso, pesante; fa meraviglia come, in letteratura, abbia prodotto tanta leggerezza: il Cantico di Frate Sole, il Dolce Stil Novo, la Divina Commedia, il Decameron. Forse la letteratura, l’arte in genere, diventa tanto più leggera e luminosa quanto più la vita è pesante e buia.
Che cosa c’è di più leggero, in architettura, del Campanile di Giotto e della Torre di Pisa (che pende, che pende, che mai non cadrà)?
Per le donne la vita concreta (non quella dei dieci giovani riuniti a raccontare novelle) era un incubo: il mandrillo che sale sul letto di Beatrice fa impressione. Se il personaggio del film assomiglia al vero messer Simone de’ Bardi, che sposò Beatrice Portinari, c’è da dire: povera Beatrice!

La condizione delle donne comportava lo stupro.
La differenza tra le prostitute e le spose convolate a nozze con un contratto vidimato dal notaio, con i festeggiamenti e il bambolotto beneaugurante donato dallo sposo, consisteva – oltre, naturalmente, alle condizioni di vita – in un unico dettaglio: le spose (generalmente di età compresa tra i 12 e i 15 anni) erano stuprate da un uomo solo (possibilmente sciancato, come capitò a Francesca da Rimini), le prostitute erano vendute dal padre e stuprate da una folla di cavalieri che si seguivano tra le loro gambe senza neanche spogliarsi completamente. Guido Cavalcanti dice alla prostituta: «Fa’ piano, perché ho fatto la guerra» (non ricordo la battuta esatta); la prostituta dice a Dante: «Fa’ presto! Mia sorella è fortunata, le capitano quelli che fanno presto».
Non meraviglia che alcune giovani scegliessero la via del convento, anche in questa scelta ostacolate dalla famiglia (Caterina da Siena, Chiara d’Assisi).
Il padre doveva piazzare la merce, risparmiare sulla “dote” e ottenere un avanzamento della famiglia nella scala sociale. I figli, anche i maschi, finché era vivo erano roba sua. Dante fu fortunato, perché il padre morì presto, dopo essersi risposato e avere generato altri figli. Dante divenne padrone di sé molto prima degli altri e forse per questo riuscì a studiare (anche a Bologna), a coltivarsi, a vivere di rendita. Il padre, che prestava denaro, è l’unico membro della famiglia di cui non parla mai nelle sue opere; nell’oltretomba non lo incontra. Rivolge parole di affetto filiale a Virgilio (personaggio letterario), ma anche a Brunetto Latini (suo maestro), nonostante la situazione imbarazzante in cui lo trova.
Dante, in esilio, inseguito dai nemici, nascosto dalla “mugnaia gozzuta”, ha un rapporto sessuale con la donna che lo protegge. Lo vogliono entrambi.
Sembra un’eccezione. Quando “i parenti decidono” che Dante deve sposarsi, Gemma Donati è costretta al matrimonio dal padre (pare dovuta a un errore di trascrizione del notaio l’informazione errata di un matrimonio o di una promessa di matrimonio stabiliti dalle due famiglie quando erano bambini; ma anche questo è argomento di discussione tra gli studiosi).

È un mistero come sia riuscito ad affermarsi – all’interno di una ristretta cerchia di giovani colti – il rispetto per la donna, l’ammirazione estatica, separata da sesso e matrimonio, che portò un giovane poeta a decidere di scrivere per una giovane incontrata quando lei aveva diciassette anni ed era già sposata (dopo un incontro, forse immaginario, infantile) «quello che mai non fue detto d’alcuna» (Vita Nova XLII).

Altro dettaglio.
Il rapporto di Boccaccio con il conduttore del carretto, nel corso del viaggio da Firenze a Ravenna. Boccaccio si fida del conduttore: quando ha voglia di scambiare due chiacchiere bussa sulla sua spalla, gli parla di Dante, gli recita alcuni versi.
È la soluzione trovata da Pupi Avati, insieme ad altre, per raccontarci di Dante con gli occhi di Boccaccio, immaginando che uno scrittore, un grande narratore, non potesse esimersi, in un lungo viaggio, dal raccontare. A chi? Al conduttore del carretto, che diventa anche lui personaggio del film.
Che il viaggio sia faticoso si capisce vedendo il carretto trainato da due cavalli che devono essere aiutati in salita, e guardando Boccaccio, l’espressione stanca del viso, i suoi movimenti lenti e sofferenti quando scende per una sosta (grande Castellitto!).

Altro dettaglio.
Il giovane Dante, accampato con gli altri nella piana di Campaldino, tra Firenze e Arezzo, è accovacciato, insieme ad altri, per fare i bisogni, dopo essersi provvisto di foglie per pulirsi.
È un po’ strano, e buffo, che un compagno più esperto scelga quel momento per dargli dei consigli di sopravvivenza: bisogna stare ai lati e non al centro, i “feditori” (cavalieri che subiscono il primo impatto con la cavalleria nemica) muoiono per primi.
La situazione è buffa (per poco Avati non ci ha mostrato la merda dantesca) però il dettaglio è importante e il gesto inaspettato (oibò! il “sommo poeta” faceva i bisogni?), necessario se vogliamo far scendere Dante dalla statua in piazza Santa Croce a Firenze o in piazza Dante a Napoli e in chissà quante altre piazze nel mondo.
Vogliamo farlo scendere dal piedistallo perché con i suoi versi ci ha condotto nell’alto dei cieli («l’amor che move il sole e l’altre stelle») ma anche in basso, nella materia di cui siamo fatti («ed elli avea del cul fatto trombetta»).

Anche Boccaccio sicuramente amava i dettagli. Per questo ricopiava la Commedia, per entrarci dentro attraverso i singoli versi, le singole parole.
Auspico una riforma della scuola che riporti la calligrafia alle elementari e alle medie e preveda esercizi da amanuense. Copiare la Divina Commedia in quinta elementare? Ne parlo dopo.
Sapendo che nessuno prenderà in considerazione i miei auspici, sottolineo che il lavoro di Boccaccio, condotto quando nei monasteri Dante era in sospetto di eresia, ci ha consentito di avere a disposizione il testo più vicino alle intenzioni dell’autore. Ora non sarebbe questa l’utilità: l’esercizio sarebbe utile per chi lo fa, non per i posteri.

Che cosa rappresenta la Divina Commedia per me?
È il mio livre de chevet – il libro che si tiene sul comodino, o pronto nel kindle, per averlo sempre a portata di occhi – ma, soprattutto, è il libro nel quale mi rifugio se ho bisogno di rasserenarmi.
Quando ho bisogno di ritrovare l’armonia utilizzando un libro ci sono due possibilità molto diverse tra loro: la Divina Commedia e Achille Campanile (Agosto moglie mia non ti conosco e altri).
Non starò a spiegare perché alcuni libri di Achille Campanile mi rilassano: sono i libri in cui il grande umorista non si impegna per divertire ma inventa e descrive un mondo divertente. Achille Campanile è il Jerome Klapka Jerome italiano.
Per non uscire dal tema, racconto della Divina Commedia.
È tutto merito del professore Colucci Cante Fortunato (si firmava così sulle pagelle), il maestro di scuola elementare a cui devo la passione per la lettura e per la letteratura.
Avevo dieci anni (quinta elementare) quando il maestro ci lesse in classe, e ci spiegò, il canto del Conte Ugolino (Inferno XXXIII).
«La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a’ capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto / …».

Rimasi così affascinato da quella musica che, rientrato a casa, andai a cercare i versi su una vecchia edizione, priva di commento e di spiegazioni, della Divina Commedia, un librettino che avevo trovato nella vecchia libreria, tra strani manuali del ‘700, illeggibili, e libri di preghiere di uno zio prete, morto prima che nascessi (a cui devo il nome Giovanni).
Dopo la lettura in classe e le spiegazioni del maestro, il significato di quei versi fu chiaro e, a furia di leggerli e rileggerli, li imparai a memoria.
Grazie al professore Colucci Cante Fortunato conosco a memoria il Canto del Conte Ugolino da quando avevo dieci anni, e altri canti che ho imparato in seguito (soprattutto dall’Inferno).
Recitarli tra me e me mi rasserena. Non è una prova di abilità, un esercizio di memoria, il risultato di uno sforzo: normalmente leggo i canti, ma in tante occasioni in cui non posso leggere – nei lunghi viaggi in macchina, se sono solo – o ascolto Vittorio Sermonti che legge e spiega un canto della Commedia o lo dico tra me e me, verso per verso, a bassa voce, a voce  normale (dipende), o nella mente (nelle lunghe camminate in campagna: non ci tengo particolarmente a passare per pazzo, ne faccio volentieri a meno).
Ascoltando, leggendo o recitando a memoria la Divina Commedia ritrovo l’armonia che la vita, ogni tanto, ci toglie.
Per inciso due punti: 1) Colucci Cante Fortunato non ci leggeva solo la Divina Commedia. Ci leggeva anche I Promessi Sposi, oltre ai libri per bambini: Pinocchio, Cuore, Salgari, eccetera. 2) Non m’intendo di scuola elementare, ma suppongo che se al giorno d’oggi un maestro o una maestra leggesse in classe il canto del Conte Ugolino (o lo facesse copiare sul quaderno in bella grafia, ma questa è un’idea mia, non risale all’infanzia) susciterebbe proteste dei genitori, dei colleghi saputi e laureati in Pedagogia, dei presidi (pardon: Dirigenti Scolastici) fissati con la “programmazione”, con le “classi aperte” e compagnia cantante.

Quando alle superiori, dopo strane vicissitudini scolastiche, comprai la Divina Commedia commentata da Sapegno, fu il ritrovamento di un amico (rubo l’espressione a I Promessi Sposi, cap. XVII). Da allora non ci siamo più persi di vista.

In un primo momento la figlia di Dante non vuole incontrare un messo inviato da Firenze, poi decide di vederlo, conoscendo l’amore da sempre manifestato da Boccaccio per il padre, per le sue opere.
Qui c’è la scena più emozionante del film, la scena finale, in cui Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto, perfetto in questa interpretazione) si commuove e ci commuove manifestando tutto il suo amore e la gratitudine nei confronti di un uomo a cui dobbiamo un grande dono: la poesia. Lo chiama padre: chi, con la sua opera, ci ha insegnato a vivere in modo consapevole è nostro padre, di più, molto di più del padre biologico.

In conclusione rivelo un errore. Aggiorno sempre con difficoltà le mie letture (preferisco rileggere i classici), sono sempre indietro, in ritardo su tutto. Non ho letto L’alta Fantasia di Pupi Avati (ed. Solferino). Non che consideri indispensabile conoscere il libro per vedere il film. Libro e film sono autonomi.
Pupi Avati, quest’uomo così complesso, innamorato del cinema, della poesia, della musica – credo anche del mangiare e del bere roba buona, delle donne, della vita – mi incuriosisce.
Corro in libreria a comprare il libro.