18 febbraio 2019 h 18.10
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

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Un film rilassante, un musicarello.
Se ne facevano tanti negli anni sessanta, con Gianni Morandi, Rita Pavone, Caterina Caselli, Bobby Solo, Little Tony, Albano e Romina, Adriano Celentano, Mario Tessuto (per chi non se lo ricorda: Lisa dagli occhi blu).
Solo Rita Pavone sapeva recitare (una dote naturale che confermò in televisione ne Il giornalino di Gianburrasca, regia di Lina Wertmüller); gli altri erano decisamente attori mediocri, spesso addirittura attori cani, o forse non ci credevano e consideravano il cinema solo un mezzo in più per affermarsi come cantanti.
Qualcuno di loro, quando, più maturo, ha fatto un’altra capatina nel cinema, ha dimostrato capacità inaspettate.
A parte Celentano, che è un capitolo a sé, ricordo Little Tony, utilizzato da Claudio Caligari per interpretare se stesso – sembra facile, ma è molto più difficile se non si tratta di un cameo ma di un personaggio del film – nel suo secondo lungometraggio, L’odore della notte, ispirato alle vicende della cosiddetta “banda dell’Arancia meccanica” che, tra la fine degli anni settanta e i primi degli ottanta, terrorizzò i quartieri della Roma bene.

Little Tony riuscì a rendere il suo personaggio memorabile – il personaggio era lo stesso Little Tony preso come ostaggio nel salotto dell’amante e costretto a cantare da uno dei delinquenti – tanto che quando sento il tàta tàta tàta tàta … iniziale di Un cuore matto, a me viene in mente lui che canta nel film con la voce tremolante per la paura.
Quella interpretazione è stata così perfetta, così aderente alla situazione drammatica in cui è inserita, da imporsi nella memoria.

In un musicarello del 1960 – Urlatori alla sbarra, regia di Lucio Fulci (Mina, Celentano, Joe Sentieri, Umberto Bindi, Gianni Meccia, Peppino di Capri) – entrò la tromba di Chet Baker.
Non ho visto il film all’epoca, ma un bellissimo documentario, in epoca successiva, che mostrava alcune scene di Urlatori alla sbarra.

Chet Baker è stato un mito del jazz, per il suo modo speciale di suonare la tromba; purtroppo fece una brutta fine: dopo un periodo di dipendenza dalla droga, “cadde” dalla finestra di un albergo.

«Suona la tromba come un angelo», dice una ragazza nel film; era vero, suonava come un angelo e aveva un modo di cantare particolare: usava la voce come un’estensione della tromba.

Nel 1988 il fotografo Bruce Weber fece un film documentario (Let’s get lost – Perdiamoci) con il materiale raccolto seguendolo, riprendendolo, fotografandolo per alcuni anni, gli ultimi della sua vita.
È questo il documentario che mi fece “scoprire” Chet Baker; Let’s get lost girò nei cinema, fu anche candidato all’Oscar.
Aveva l’andamento di un thriller: la trasformazione di un uomo – che era stato bellissimo – in una maschera impressionante; nel corso di una lite per questioni di droga aveva perso tutti i denti e dovette reimparare la tecnica di emissione del fiato per ricominciare a suonare la tromba.

Si vedono fotografie della sua vita precedente: l’infanzia, l’adolescenza; si passa al periodo dei grandi successi, alla fama, fino al degrado in cui fu precipitato dalla tossicodipendenza. Sono raccolte testimonianze (la madre, le compagne, le mogli man mano abbandonate, i figli, gli amici); si ascoltano esecuzioni straordinarie, dal vivo; emozionante una delle ultime: Almost blue eseguita in un locale pieno di gente distratta, a Cannes.

In una intervista mattutina in albergo, mezzo intontito, si avverte la sua disperazione per non aver trovato le sostanze di cui non può fare a meno; si arriva alla notizia della morte.
Sui titoli di coda scorrono le immagini del musicarello (Urlatori alla sbarra); fra i nostri cantanti, giovane tra i giovani (siamo nel 1960), Chet Baker suona e canta Arrivederci di Umberto Bindi, in inglese, solo la parola del titolo in italiano.

Mi sembra una gran cosa: un grande musicista jazz in un film italiano popolare; altro che musicarello in senso dispregiativo.

Ho ascoltato molte volte Almost blue (autore Elvis Costello) nella interpretazione di Chet Baker.
Mi procurai la “musicassetta” con le sue canzoni; l’ascoltavo ripetutamente nel corso di lunghi spostamenti, finché la lasciai sotto al parabrezza in un pomeriggio agostano e la trovai con il nastro afflosciato, quasi fuso.
Ora è facile trovare le canzoni cantate e suonate da Chet Baker su YouTube; però ho notato che quando era difficile risentire i pezzi musicali che mi piacevano, se riuscivo a trovare la cassetta, il disco che li conteneva, li ascoltavo più e più volte, fino a farli diventare miei, fino a impararli a memoria.
Da quando le cose sono diventate facili, non succede più di essere conquistati: si ascolta con interesse, si apprezza, si passa ad altro. Troppa roba a disposizione. Troppa grazia, Sant’Antonio!
Dopo un po’ si dimentica quel pezzo musicale che pure ci era sembrato così bello. Non impariamo niente di nuovo a memoria; mentre facciamo la doccia o in macchina cantiamo sempre le stesse canzoni, quelle di una volta, quelle che ci riempiono il cuore.

Non è solo l’effetto nostalgia; è che ora non si ha il tempo di ascoltare e riascoltare una canzone fino ad allargare il microsolco o a consumare il nastro (anche perché i nastri non ci sono più e i microsolchi sono una rarità per amanti dell’analogico in un mondo dominato dal digitale). È tanto grande la disponibilità di pezzi musicali che, per non perdersi nella confusione, si scrivono sempre gli stessi nomi su YouTube: beatles, bob dylan, elvis, cat stevens, paolo conte, ivano fossati, fabrizio de andré, con qualche puntata su tony tammaro, peppino di capri, renato carosone, fernandel, bourvil (oltre, naturalmente, al mito personale: georges brassens).

Era meglio prima? Non so. Però, secondo me, è un bene arrivare a conoscere una canzone, un pezzo musicale, in tutti i dettagli. Soprattutto è un bene farsi trascinare dall’ammirazione, innamorarsi di un’opera d’arte, che sia una canzone, una sinfonia di Beethoven, un quadro di Modigliani o una persona speciale (innamorarsi in senso lato).

Sicuramente da Almost blue, da questa interpretazione perfetta di Chet Baker, mi è venuta l’idea iniziale del logo che utilizzo nei miei video e nel mio sito: Almost free.
Siamo tutti quasi liberi. Il problema è che utilizziamo solo una piccola parte della nostra libertà (della nostra quasi libertà), condizionata dal giudizio degli altri.
La chiocciola si sente protetta dal suo fragile guscio, fino a che il caldo e la mancanza di umidità non la fanno seccare e, piano piano, scomparire.
Rimane il guscio vuoto, bellissimo, come le piramidi, i sarcofagi degli antichi egizi, le lapidi marmoree.
Gusci vuoti: memento della fragilità della nostra condizione e della necessità di sfruttare fino in fondo la quasi libertà, finché siamo in tempo.

Almost blue (di Elvis Costello); grande interpretazione di Chet Baker. Altra splendida interprete: Diana Krall.
Seguono i versi di Almost blue e il tentativo di traduzione, anch’esso almost blue, nel senso di infelice.

Almost blue. Almost doing things we used to do. [Quasi triste. Con lei faccio quasi le stesse cose che facevamo io e te.]
There’s a girl here and she’s almost you. [C’è una ragazza nuova qui, è quasi tu.]
Almost all the things that your eyes once promised I see in hers too. [Quasi tutte le cose che i tuoi occhi promettevano le vedo anche nei suoi.]
Now your eyes are red from crying. [Ora i tuoi occhi sono rossi di pianto.]

Almost blue [Quasi triste]
Flirting with this disaster became me. It named me as the fool who only aimed to be almost blue. [Prendo confidenza (flertare), mi sto abituando al disastro che sono diventato, a essere il pazzo che solo desiderava essere quasi triste.]
Almost blue. It’s almost touching it will almost do.
There’s part of me that’s always true. [C’è una parte di me sempre vera.]
Always [Sempre]

Not all good things come to an end now, it is only a chosen few. [Non tutte le cose buone finiscono ora; solo alcune, scelte.]
I have seen such an unhappy couple. [Ho visto una coppia talmente infelice!]
Almost me, almost you [Quasi io, quasi tu, quasi blu] Almost blue.

Gli attori che, nei musicarelli, facevano da contorno ai cantanti erano di tutto rispetto – Laura Efrikian, Gino Bramieri, Mario Carotenuto, Macario, Nino e Carlo Taranto, Franchi e Ingrassia, fino a Totò; impiegavano la loro professionalità, la loro capacità di improvvisazione in un ruolo scontato basato sulla trama scontata costruita sulla canzone principale.
Anche questo è arte dello spettacolo: costruire qualcosa di sensato dal nulla, o quasi.
Il punto è che il nulla della trama era compensato dalla professionalità, non dal ricorso alla scurrilità facile, infantile, banale, poco intelligente, anzi decisamente scema dei film che qualcuno considera di culto, ma che, più che stra-cult, sono stra-zianti, perché brutti, anzi peggio: mediocri.

Grazie agli interventi degli attori, ai loro siparietti e alle canzoni, venivano fuori film simpatici, a tratti divertenti, che attraevano soprattutto i preadolescenti.

Ho un buon ricordo di questi musicarelli, che capitavano spesso al Cinema Moderno di Giugliano nella mia prima adolescenza, in alternativa ai western e ai brachettoni, i film basati sulla mitologia o sui personaggi della storia greca e romana antica reinventati.

Per questo sono andato a vedere un’Avventura, scritto così, con la u dell’articolo minuscola e la a del sostantivo maiuscola; nel titolo richiama una canzone di Lucio Battisti che conosciamo tutti.
È un tentativo di riproporre un musicarello con attori veri che cantano e ballano, una specie di musical italiano (c’è anche il richiamo a Singing in the rain: l’attore canta e balla sotto la pioggia).
Quindi non si tratta di un vero musicarello – gli originali erano interpretati da cantanti e servivano a pubblicizzare una canzone, qui le canzoni sono già famosissime – anche se c’è un riferimento a quel genere cinematografico, figlio di un’epoca in cui il cinema poteva addirittura permettersi di sostenere altre forme di spettacolo.
Il risultato è piacevole, la storia raccontata è poco più di una scusa per cantare, ma si collega bene alle canzoni interpretate – anche in modo personale (aspetto impegnativo e pericoloso, visto il “monumento” con cui gli attori-cantanti si dovevano confrontare) – e ballate, con un montaggio che rende fluidi i cambi di scena, il passaggio dal cantato al parlato e viceversa.

È un film che va preso con leggerezza, immergendosi nelle canzoni, accompagnate da piacevoli coreografie.

Non credo che inauguri un nuovo genere cinematografico, a meno che qualcuno, partendo dal probabile successo di questo film, provi a costruire qualcosa di più ambizioso, con un soggetto forte, una trama coinvolgente e musiche originali.
Gli attori capaci di lavorare in un film del genere ci sono; il successo internazionale di Notre Dame de Paris di Riccardo Cocciante dimostra che esiste un testo forte, esistono musiche originali composte da un autore italiano (italofrancese) che è in grado di rinnovare una grande tradizione.
Si potrebbe leggere col linguaggio cinematografico, tradurre in un film l’opera teatrale di Cocciante.
Io andrei a vederlo.

Il successo del film sui Queen (Bohemian Rhapsody) si spiega anche con il diffuso desiderio di ascoltare e riascoltare belle canzoni.
Intanto che qualcuno ci pensa, godiamoci le canzoni di Mogol – Battisti, che non erano solo canzonette se ogni tanto ci ritornano in mente, belle come sono, forse anche di più.