6 marzo 2019 h 20.30
Cinema Arno Pisa – via Conte Fazio

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Diciamo subito: bella la fotografia di Daniele Ciprì – e non ne parliamo più.
Perché Napoli è una città fotogenica (l’ho scritto commentando Napoli Velata, di Ferzan Özpetek, un film di cui mi è piaciuta solo la fotografia).
A Napoli è facilissimo riprendere belle immagini: di giorno, di notte, nei vicoli, sulla spiaggia di Mergellina, nei quartieri e persino nel “centro direzionale”, che dà un’idea della città futura.
Napoli offre visioni sorprendenti, a volte emozionanti.
Il Vesuvio, che ogni tanto si intravede sullo sfondo, ti guarda con un sorriso ironico, con l’aria di chi ne ha viste di tutti i colori e ci ha messo anche del suo per rendere questa città unica.

Prima dei titoli di coda, una scritta avverte: “Pur se riferito a fatti di cronaca, questo film è un’opera di finzione e non può essere considerato come una descrizione di eventi realmente accaduti”.

Meno male!
Mi stavo preoccupando.

È un po’ che non vado a Napoli; le ultime volte non mi sono accorto del degrado che si vede nel film.
Sembra il Bronx.

Povero Bronx! Quando si vuole indicare una giungla urbana dominata dalle bande criminali si usa questa espressione: sembra il Bronx.
Magari il Bronx, una delle zone in cui è divisa New York, è un posto tranquillo, dove la gente, a parte qualcuno un po’ agitato, è serena e accogliente.

Metto a confronto la mia esperienza della città di Napoli con ciò che vedo nel film.
Ricordo il cosiddetto “rinascimento napoletano” (sempre enfatici i giornalisti e i politici), che fu anche chiamato “miracolo napoletano” (vai con l’enfasi!) e finì, purtroppo, nella monnezza.
Nonostante la fine ingloriosa, malinconica e puzzolente, non è giusto dimenticare l’orgoglio che ci regalò la prima amministrazione Bassolino: la liberazione di piazza Plebiscito dalle macchine, il recupero dei decumani, il sorgere di tante piccole attività, la maggiore presenza della polizia e dei vigili urbani per le strade, l’immagine, sulle pagine dei giornali, di una città rinata, l’arrivo dei turisti – e, negli anni successivi, l’apertura di nuove stazioni della metropolitana, fra le quali “la più bella d’Europa”: stazione Toledo.

Dopo il buio descritto da Le mani sulla città di Francesco Rosi, il disastro delle amministrazioni laurine (il correttore ha sostituito laurine con latrine e, tutto sommato, ci sta bene) e democristiane, finalmente grandi progetti si realizzavano, in tempi certi.

Quando tornavo a Napoli mi piaceva camminare per le strade che mi ricordavano l’adolescenza: via Toledo (via Roma) fino al caffè Gambrinus e alla Biblioteca Nazionale, i quartieri spagnoli, Spaccanapoli, via Tribunali, le vie dei presepi, la zona intorno all’Università Federico II in via Mezzocannone, il vicino Istituto Orientale (all’Orientale c’era un bell’ambiente, aule moderne, molte ragazze), Montesanto, piazza Dante (dove aspettavo il 160 nero e, in tempi recenti, prendevo la metropolitana), via Foria (il Museo Archeologico), il rione Sanità, con le Catacombe di San Gennaro e il Cimitero delle Fontanelle che, mostrato nel film senza inquadrare la targa all’ingresso, fa una brutta impressione: qualcuno può credere si tratti di un cimitero attuale, con i teschi allo scoperto, o che sia un posto frequentato dai camorristi, mentre, in realtà, è un ossario storico, un museo.
I camorristi sono troppo ignoranti per entrare in un museo.

Perplime, come direbbe il regista “de paura” Rokko Smitherson (Corrado Guzzanti), la cerimonia con il teschio di “donna Concetta”.
Strana cerimonia in quanto i delinquenti, o quelli che aspirano a diventarlo, non hanno alcun rispetto, alcun timore religioso dell’aldilà; per questo possono mandarci chiunque con noncuranza estrema.
Il passaggio dalla vita alla morte per loro non conta nulla: continuamente ammazzano e rischiano di essere ammazzati.
Anche quando fingono di aderire alle forme della religione, anche quando s’impossessano delle processioni di paese, in realtà si tratta di un’adesione superficiale e strumentale e, in qualche caso, di un atteggiamento schizofrenico.
Se veramente credessero all’altro mondo non potrebbero dormire sonni tranquilli e vivere come bestie, peggio delle bestie feroci. Si dice che i vecchi camorristi utilizzassero il cimitero delle Fontanelle per riti di iniziazione dei nuovi affiliati, ma si tratta di cose d’altri tempi, legate forse all’ambiente lugubre e minaccioso.

Nel film i ragazzi s’impegnano in un rito propiziatorio (non di iniziazione) con i teschi: li accarezzano, mormorano delle parole. Forse queste cose le facevano le nonne, le bisnonne, certamente non le madri, non tutte le nonne e le bisnonne.

Si usava, un tempo, “adottare” uno di quei teschi, mettergli accanto un crocifisso, un rosario, accendere le candele. Forse qualche vecchia lo fa ancora, recita una preghiera, una giaculatoria, ma non credo lo facciano dei quindicenni aspiranti camorristi.

I ragazzi di quindici anni, purtroppo, non sanno neanche dove si trova quell’ossario storico; se lo sanno, probabilmente non ci sono mai entrati, perché non visitano i musei. Ci passano davanti, ma non sono interessati ai teschi, al motivo per cui sono raccolti in quel luogo.
Se poi veramente fossero entrati, un guardiano non avrebbe consentito che dei ragazzini disponessero di un teschio per compiere un rito.
Tra l’altro, sembra che la “cerimonia” si svolga di notte, nel buio illuminato dai lumini che loro stessi hanno portato.
Ovviamente, è impossibile entrare in un museo di notte.
È vero che quelle grotte sono, in molti angoli, buie anche di giorno, ma c’è un’illuminazione soffusa, ci sono altri visitatori (soprattutto turisti), ci sono i guardiani che controllano, credo, anche con telecamere. Insomma: quella cerimonia, al giorno d’oggi, mi sembra esagerata.

Come piace il folclore a chi si occupa di Napoli!
Come piace immaginare che la realtà sia bloccata ai racconti di tempi remoti!

In Napoli velata, di Ferzan Özpetek, alcuni giovani giocavano a tombola e Peppe Barra scandiva le frasi corrispondenti ai numeri nella Smorfia napoletana.
Escluderei che dei giovani napoletani di oggi si divertano in questo modo, anzi credo che solo Peppe Barra continui a giocare a tombola – solo lui, quindi da solo, con i fagioli, le cartelle, e, naturalmente, vince sempre: ambo, terna, quaterna, cinquina e tombola («fatt’a me!» era il grido del vincitore in ogni fase del gioco).
Se c’è ancora una famiglia (nonni, genitori, figli adolescenti e bambini), che a Natale si riunisce per divertirsi in questo modo, tifando per dividersi la posta in gioco, mi piacerebbe conoscere questa famiglia, per sapere in quale museo viene conservata sotto spirito.
Naturalmente non va confusa la tombola con lo squallore del Bingo, realmente diffuso, non solo a Napoli, tra le persone che hanno perso ogni contatto con la realtà.

Devo completare il giro: piazza Carlo III, che conosco bene perché, avendo studiato biologia, per un periodo ho frequentato l’Orto Botanico, uno dei più antichi, e certamente più belli, d’Italia.
L’Orto Botanico si trova alla fine di via Foria, prima di piazza Carlo III e confina con l’Albergo dei poveri, che per molti anni è stato Tribunale dei minori e carcere minorile (ó sərragliə = il carcere, in senso spregiativo; serraglio: raccolta di animali feroci ingabbiati); ora, credo, sia un centro di accoglienza.

Il simbolo ə designa la vocale centrale media caratteristica della lingua napoletana, come nella seconda e terza sillaba della parola sdrucciola mammətə= tua madre. Vedere anche la nota in fondo al commento al film Achille Tarallo.

La lunga costiera, meravigliosa in tutte le stagioni, con la Villa Comunale e la Stazione Zoologica (altro luogo di studio per i biologi) dove, prima di scoprire, insieme a Francis Crick, la struttura del DNA, aveva lavorato il premio Nobel James Watson; grande scienziato in gioventù, in vecchiaia ogni tanto se n’esce con affermazioni avventurose.

Conoscevo meno la zona del Vomero, dove mi perdevo, però ogni tanto salivo con la funicolare da Montesanto a piazza Vanvitelli e, in tempi più recenti, proseguivo con le scale mobili fino in cima alla collina di San Martino, per visitare il possente Castel Sant’Elmo e la Certosa e rilassarmi guardando dall’alto il paesaggio della vecchia Napoli, il dedalo dei vicoli con la riga precisa di Spaccanapoli che la divide in due, il mare, il Vesuvio seduto di fronte che guarda ironico e canta, accompagnandosi con la chitarra (giuro di avere visto con questi occhi e sentito con queste orecchie il Vesuvio cantare accompagnandosi con la chitarra!): «iə so pazzə, iə so pazzə; si mə tocchə a nərvaturə sbattə a tuttə n’faccə ó murə; iə so pazzə, iə so pazzə; nun cə scassatə ó cazzə».

La ci di “” (nun cə scassatə ó cazzə) ha il suono dolce (/tƒ/).
Invece, in “tocchə” ha il suono duro (/k/), segnalato dalla lettera acca.
L’espressione “mə tocchə a nərvaturə” significa “m’innervosisco”, “perdo il controllo dei nervi”.

Traduzione (il testo originale, ovviamente, è di Pino Daniele): «Sono pazzo, sono pazzo; se mi fate saltare i nervi ne vedrete delle belle (qui il Vesuvio fa un’allusione evidente al 79 d.C.); sono pazzo, sono pazzo; non ci rompete le scatole».

Una zona che visitavo poco, purtroppo, perché non l’avevo frequentata nell’adolescenza, era Posillipo addərusə (odoroso).

Dalla parte del mare mi facevo tutto il percorso a piedi da Mergellina a Santa Lucia: uno spettacolo! Piccola deviazione nella zona della Riviera di Chiaia, per rivedere la casa del mio amico Ciro – una di quelle antiche case con l’ascensore di ferro nei vicoli a pettine che anticamente erano abitati dai pescatori e, negli anni a cui mi riferisco, dalla piccola borghesia impiegatizia e dai commessi dei negozi di abbigliamento riforniti dalle fabbriche sartoriali, numerosissime: l’ossatura dell’economia napoletana, basata sul lavoro nero.
Con Ciro studiavo quando ho cominciato a frequentare una scuola che mi faceva lavorare molto, ma, in compenso, mi portava a trascorrere le giornate intere a Napoli.
All’ora di pranzo la madre di Ciro ci chiamava; pranzavamo con la famiglia, poi attraversavamo la strada (Riviera, Villa e via Caracciolo), raggiungevamo il mare di fronte, ci univamo a qualche altro amico, prendevamo una barca e remavamo per tutto il pomeriggio.
Eravamo molto riservati; sicuramente nei miei sogni (mentre vogavo) c’era una di quelle ragazze svedesi che avevo visto al cinema (Bibi Anderson o Ingrid Bergman), o una ragazza sconosciuta che incontravo alla fermata del pullman e non avevo il coraggio e l’intraprendenza di trasferire dal sogno alla realtà (eppure, nel ricordo, sarebbe bastato poco). Oggi può sembrare strano, ma io ero il più timido e riservato in un piccolo gruppo, che avevo scelto, di ragazzi timidi e riservati.
Ho superato la timidezza solo dopo una serie di esperienze … ma questa è un’altra storia.

Vogando vogando («Piscatorə ro marə e Pusilləchə / ca ogni nottə mə sientə e cantà …») sognavo un mondo a venire e godevo la sensazione dei muscoli che ti spingono avanti, come quando cammini su una lunga strada di campagna: niente vetrine, rare automobili; solo alberi, cielo e i muscoli delle gambe.
Liberato, per qualche ora, dall’oppressione della vita di provincia, dal paese in cui tutti controllano tutti, si realizzava, in quei momenti, un modo di vivere libero, leggero, un modo di vivere al quale puntare – come un cane da ferma che ha sentito la preda, immobile, concentrato – con la speranza di raggiungerlo, prima o poi.
Non so se proietto nel ricordo pensieri successivi, perché quando si vive, soprattutto in gioventù, soprattutto quando si sta bene, sfugge la sensazione di vivere.
Per questo il tempo felice vola.

Dopo avere rivissuto, con strazio, un compleanno della sua infanzia, Emily, la protagonista di Piccola città di Thornton Wilder, morta di parto e appena approdata al cimitero di Grovers Corners, domanda tra le lacrime:
«Accade mai che un essere umano si renda conto di vivere mentre vive? se ne renda conto ogni minuto della propria vita?».

Ho sempre cercato di dare una risposta a questa domanda, una risposta personale.
Non mi accontentavo della risposta ascoltata in teatro – televisione in bianco e nero: Raoul Grassilli e Giulia Lazzarini; dal vivo: teatrino sotto Port’Alba, non ricordo i nomi degli attori – della risposta letta nel libro che mi procurai alla Biblioteca Americana, una sezione staccata della Biblioteca Nazionale, negli splendidi giardini di Palazzo Reale.

Il Direttore di scena risponde:
«I santi e i poeti, forse».

Questa risposta può bastare a indirizzare una vita, ma avrei voluto aggiungere: «Certo che accade. Non sono santo né poeta, ma voglio rendermi conto di vivere mentre vivo, ogni momento, senza farmi trascinare dalla corrente: scegliendo, lucidamente e liberamente, la mia vita».
Ma, come la domanda è posta da Emily e la risposta è del Direttore di scena – due personaggi inventati da Thornton Wilder – così la mia aggiunta appartiene anch’essa alla fantasia, a ciò che mi sarebbe piaciuto essere, a “… quello che fingo d’essere e non sono!” (Guido Gozzano – La signorina Felicita ovvero la Felicità).
Nella realtà non è sempre possibile mantenersi concentrati; ogni tanto ci si distrae, si accetta la vita come viene.

Quando il sole cominciava a scendere sul mare, tornavamo a studiare.
Abitando in provincia, ero abituato a rientrare a casa la sera tardi, a volte molto tardi.
Non c’erano i telefonini, ma non ricordo una particolare preoccupazione dei miei (al giorno d’oggi i genitori sono terrorizzati, dappertutto, non solo a Napoli).
Anche nei tempi recenti, quando mi facevo queste “rimpatriate” da solo («Cammənatə cuntannətə ‘e passə», diceva Raffaele Viviani), questi lunghi giri, scandendo i passi sui ricordi dell’adolescenza – cercando luoghi che richiamassero le immagini di persone che volevo ricordare com’erano (mi ha sempre rattristato constatare come cambiamo) – camminavo per Napoli fino a tarda sera; non mi ero mai accorto delle bande che, nel film, fanno quello che vogliono.

In via Roma e nella zona dei quartieri spagnoli, in piazza del Gesù e nei vicoli intorno al Munasteriə e Santa Chiara, nella Galleria, ma anche nel rione Sanità, a Capodimonte, in via Chiaia, in piazza San Domenico Maggiore e nei vicoli che portano al Policlinico, al Conservatorio, a port’Alba, in piazza Dante, tanta bella gente a passeggio; nel periodo natalizio una folla riempiva le strade e, in particolare, la Galleria Umberto I.
Si vedevano le volanti della polizia girare con discrezione.
Pericolosa era la zona delle Vele, ma ancora più pericolosi per l’umanità sono gli amministratori che le hanno realizzate.
Questa testimonianza è confortata dalle immagini che ho ripreso nel video Cammenata 2015 (per non complicare il raggiungimento del video su Vimeo, il suono ə è stato reso con la e), reperibile su questo sito (sezione Video).

A dicembre 2015, purtroppo, Pino Daniele ci ha lasciato.

È un po’ che non vado a Napoli.

Non nego che ci siano le bande di adulti e le bande di giovanissimi affiliati alla camorra, che ci sia lo spaccio della droga e il pizzo (estorsioni ai danni dei negozianti e dei venditori ambulanti); purtroppo la cronaca dimostra che esistono, sono una realtà.
Napoli non è una cittadina, è una metropoli (i luoghi che ho citato sono una minima parte della città, sono solo i posti che conosco meglio) e ha tutti i problemi delle grandi metropoli.
Ci sono i delinquenti, però c’è anche la polizia e la gente onesta; nel film se ne vede poca, la polizia non si vede proprio, come non esistesse.
Comunque, Napoli non è il Bronx (non c’è niente da fare, torna sempre il povero Bronx).

La prima scena del film mi ha fatto venire un dubbio.
Si vede un gruppo di sette, otto ragazzi impossessarsi di un imponente albero di Natale nella Galleria Umberto.
L’albero è così grande che uno dei ragazzi provenienti dalla Sanità, per sottrarsi a un gruppo rivale dei quartieri spagnoli, ci sale sopra, arrampicandosi sui rami (devono essere robusti per poter reggere il peso di un ragazzo di quindici anni).
Alla fine l’albero viene abbattuto e trascinato in uno spazio fra le case – nessuno si affaccia alle finestre che si vedono sullo sfondo – e viene bruciato; ma siamo a Napoli o in un altro posto? La famosa curiosità dei napoletani, che è interesse per la vita, che fine ha fatto?
Nessuno si affaccia alle finestre, non arriva la polizia, non arriva il camion dei pompieri; siamo nel … (ci siamo capiti, siamo in quel posto lì).

Mi sono chiesto: come hanno fatto a trascinare un albero alto, robusto (insisto: i suoi rami reggevano un ragazzo di quindici anni), pesante, fino allo spazio dove appiccano il fuoco?
La Galleria Umberto ha quattro uscite: una dà sul Teatro San Carlo (basta attraversare la strada); non credo possano essere usciti di là; tra l’altro in quella strada passano le macchine in continuazione, e sarebbe la via più lunga per arrivare alla Sanità.
Un’altra uscita dà su via Roma, che, nel periodo natalizio, a quell’altezza credo sia interdetta al traffico; i vicoli di fronte sono stretti, pieni di macchine parcheggiate; dove non ci sono le macchine ci sono le scale, le famose scale dei vicoli napoletani che tanta soddisfazione hanno dato ai cineasti (basti ricordare Operazione San Gennaro di Dino Risi, con Nino Manfredi); la via dei vicoli non mi sembra percorribile in quelle condizioni.
Stesso discorso per le altre due uscite, che danno su vie laterali piene di macchine parcheggiate.

Vivo in campagna e so come sono pesanti gli alberi, soprattutto se hanno rami così robusti da poterci salire sopra, e che problema è lo spostamento del tronco, quando si è costretti a tagliarli perché rischiano di cadere.
Sarebbe servita una motosega, ma non se ne vedono.

Se anche vogliamo ammettere che i ragazzi potessero uscire dalla Galleria trascinandosi dietro il pesante albero di Natale, senza l’intervento della polizia, c’è una considerazione definitiva («che taglia la testa al toro», direbbe Totò): la Sanità è molto distante dalla Galleria.
Come cavolo hanno fatto a trascinare l’albero per tutta quella lunga distanza?

Secondo me la prova che questo spostamento per trascinamento non è possibile sta nel fatto che nel film non lo fanno vedere.
Con i permessi di cui le troupe cinematografiche dispongono, avrebbero isolato la zona per un paio d’ore, messo un divieto di sosta e, con l’aiuto della polizia urbana, realizzato la scena del trasporto dell’albero dalla Galleria fino a destinazione.
Il regista non avrebbe rinunciato a infilare un altro poco di folclore nella descrizione di Napoli.

Mettiamo le mani avanti: se Saviano non ha inventato l’episodio, può darsi si sia riferito a un fatto di cronaca realmente avvenuto, però l’albero non doveva essere robusto come quello che si vede nel film (avranno rubato un alberello in vendita nel periodo natalizio).
Se veramente è successo qualcosa di simile, hanno voluto ingigantire la cosa.

Niente di grave, tanto più che, alla fine, anche loro (gli autori del film, del libro o di entrambi) hanno messo le mani avanti con la scritta riportata sopra.

Uno spettatore che non conosce Napoli non si rende conto dell’assurdità di quella scena: mostrare l’abbattimento di un grande albero di Natale nella Galleria, poi l’incendio di un albero di Natale, insieme ad altre cianfrusaglie, nel rione Sanità e suggerire agli spettatori che i due eventi sono collegati, che l’albero è lo stesso; mi sarei voluto alzare in piedi nel buio della sala e gridare: «è un’assurdità, non è possibile!», ma mi sono trattenuto (infatti non sto scrivendo da una struttura sanitaria sostitutiva dei manicomi).

Non fa niente: è un film; ingigantite pure!

Sappiamo che la camorra rappresentata è una camorra da film o da serie televisiva; l’unica cosa da verificare è se la storia raccontata ha una coerenza interna, se è vera, credibile, sullo schermo.

Una cosa che non mi convince è l’ammazzamento del capo camorrista da parte di un ragazzo di quindici anni.
Qui non c’entrano le strade, c’entrano i tetti: l’episodio è incredibile, troppo facile.
Il ragazzo si traveste da donna, o, per essere esatti, da transessuale, scavalca un paio di terrazze sui tetti (richiamo, forse, a De Niro nel Padrino parte II, ma le situazioni sono completamente diverse), raggiunge la casa del delinquente, riesce a non farsi vedere dalla moglie del boss, entra in casa e lo ammazza con due colpi di pistola.
Il boss si accascia sul divano senza perdere una goccia di sangue.
L’assassino si allontana; non gli resta che ripulirsi la faccia.
Tante guardie del corpo, tanti uomini armati a disposizione, nessuno a controllare i tetti.
Troppo facile; non convince.

Altra incoerenza interna al racconto, nel disegno dei personaggi, tenendo conto di quel poco di esperienza che ciascuno di noi utilizza per giudicare le vicende che si svolgono sullo schermo: la figura del camorrista don Vittorio di Ponticelli.

Ponticelli è uno dei quartieri periferici, nella zona orientale della città: un paesone che fa parte di Napoli, amministrativamente, ma è fuori mano.

Il vecchio boss è agli arresti domiciliari, eppure è circondato da guardie del corpo che denudano i visitatori di cui non si fidano (capacità di perquisizione zero, capacità di controllo da parte della polizia: sotto zero).
Il ragazzo viene perquisito dopo essere arrivato vicino al boss, non all’entrata nell’abitazione.
Se fosse stato armato, avrebbe avuto tutto il tempo di sparare.

Alla fine di uno scambio di battute assurdo, davanti a un televisore che trasmette una partita di pallone che sembra non interessarlo troppo (il ragazzo si è messo proprio davanti al televisore), il vecchio accetta la proposta di un quindicenne sconosciuto, a capo di una banda di una diecina di ragazzini, e li rifornisce di una borsa di armi.

Uno che comanda e conta qualcosa dovrebbe sapere che i ragazzini sono molto pericolosi: non sanno neanche sparare, possono fare cazzate (infatti ne fanno), possono sparare a chiunque, anche spararsi tra di loro (infatti si minacciano e quasi si sparano tra di loro), possono metterlo in guai ancora maggiori di quelli che sta affrontando (se è agli arresti domiciliari ci sarà un motivo, anche se sembra che il giudice e la polizia non controllino in maniera adeguata il suo isolamento).

Li rifornisce di armi pericolosissime, e riceve da loro, come segno di gratitudine (oltre, si suppone, ai proventi dello spaccio), un videogioco con cui divertirsi a sparare con un mitra virtuale.
Fa quasi tenerezza il vecchietto quando chiede al ragazzo con cui sta giocando: ho finito le munizioni, dammi altri proiettili, ricarica.
Questo sarebbe un capo camorrista, anche se vecchio e un po’ cafone, direbbero a Napoli.

Le assurdità mi distraggono: comincio a non credere a ciò che accade sullo schermo, a pensare ad altro; mi distrae la mancanza di coerenza interna al racconto.

Se fosse un musical, come il bellissimo Ammore e malavita dei fratelli Manetti, una situazione del genere sarebbe accettabile; infatti in quel film ci sono tante situazioni assurde, soprattutto verso la fine, ma non danno fastidio.

Già il fatto che i personaggi cantano fa pensare che siamo dentro a una sceneggiata, a una favola in musica, dentro a un musical, appunto; non è necessario che ciò che accade sia sempre credibile.
In un musical uno spaventapasseri può mettersi a ballare, una baby sitter può mettersi a volare, una fioraia cockney può acquisire una perfetta pronuncia inglese e i modi di una principessa (come nel film My fair lady, tratto dal testo teatrale Pygmalion di George Bernard Shaw).

Altra cosa è un film che si presenta con una veste e una presunzione di neorealismo, un film che già nel titolo, nel libro da cui è ricavato, vuole invitarci a riflettere su un dramma sociale. Le assurdità rompono la tensione.
Rompono, non solo la tensione.

L’albero di Natale portato in giro per Napoli, la “cerimonia” nel Cimitero delle Fontanelle, l’uccisione del capo camorrista, il vecchio delinquente agli arresti domiciliari che riceve chiunque, dispone di armi, comanda come un vero capo e gioca come un rimbambito.

Alla fine subentrano i bambini, quelli veri, bambini di scuola elementare.
Scoprono le armi e … bum … cominciano a sparare.

Io non ho mai sparato, purtroppo.
Mi sarebbe piaciuto perché mi sembra un bello sport, comodo; sviluppa i riflessi, la precisione, il controllo.
Mi domando: è possibile che dei bambini riescano a sparare con armi vere, che, forse, sono anche pesanti? Ammettiamo sia possibile.
C’è da constatare che, dopo avere pensato tutte le varianti delle storie di camorra, tutti gli intrecci immaginabili, Saviano e gli altri hanno abbassato l’età dei personaggi (sugli adulti non si poteva inventare altro), fino ad arrivare ai bambini.

Si può immaginare che la prossima volta si occuperanno della camorra tra i neonati – ci sono storie drammatiche all’interno dei nidi d’infanzia, bambini che non sanno nemmeno parlare e gestiscono lo spaccio di pannolini, di biberon, prendono il pizzo sotto forma di poppate – e, subito dopo, tratteranno la camorra nella vita fetale: tanti capi camorristi cominciano molto presto a organizzare le attività delinquenziali future.