21 giugno 2022 h 17.30
Cinema Spazio Uno Firenze – via del Sole, 10

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Fumetti
// Amore postatomico // Come Prima (Alfred, regia Tommy Weber) // La terra dei figli (Gipi, regia Claudio Cupellini) // 5 è il numero perfetto (Igort, regia Igort) // La profezia dell’armadillo (Zerocalcare, regia Emanuele Scaringi) // Don’t Worry (John Callahan, regia Gus Van Sant) //

Napoli e dintorni
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Famiglia (fratelli e sorelle)
// Come pecore in mezzo ai lupi // Miracle: Letters to the President // Come prima // Il potere del cane // Marx può aspettare // Raw // Le sorelle Macaluso // I fratelli Sisters // Mirai //

Tocca ripetermi.
Un romanzo grafico (graphic novel) è un film. C’è tutto: immagini – in movimento nella mente del lettore – parole sonore, personaggi scolpiti.
Non tutti i romanzi grafici sono film. Per esempio “5 è il numero perfetto”, di Igort, è costituito da una serie di immagini statiche, che continuano a essere statiche, quasi fermo immagini, quando i personaggi non sono disegnati ma interpretati da attori importanti (Toni Servillo, Carlo Buccirosso, Valeria Golino, Luigi Morra) in un film diretto dallo stesso Igort.
Quando il fumetto è un film, il film ricavato dal fumetto è un remake … e qui cade a proposito, come cadono il parmigiano grattugiato e il basilico sui maccheroni al sugo, la legge empirica fondamentale: il remake è sempre peggiore dell’originale.
Si tratta di una legge empirica, forse presenta eccezioni che non conosco.

Alfred (Lionel Papagalli, da pronunciare con l’accento sulla i) è un fumettista francese autore del romanzo grafico da cui è tratto il film Come prima.
Alfred crea i personaggi, li caratterizza graficamente e psicologicamente, li mette in una situazione, li guarda vivere.
In Come prima la situazione di partenza è la seguente: due fratelli procidani, Fabio e Giovanni, non si vedono da molti anni.
Fabio, il fratello maggiore, è andato via dalla famiglia e dalla piccola comunità (padre, fratello, zii, amici) e non ha dato più notizie di sé.
Giovanni, il fratello minore, si è messo sulle tracce di Fabio: l’ultima volta che l’ha incontrato, dieci anni prima, tornava dall’Africa e partiva per la Francia.
L’ha trovato, in Francia, in un posto equivoco. Fabio fa il pugile dilettante per raccattare un po’ di soldi; Giovanni, non visto, assiste a un incontro di pugilato in cui il fratello viene sonoramente battuto.

È un film (sto raccontando il fumetto): immagini in movimento – lo scambio di pugni sul ring tra i due colossi inferociti, le braccia tese, i guantoni, i colpi che fanno vacillare la testa – parole sonore, suoni onomatopeici: FFTAP (un colpo schivato), HHH… (l’ansimare del pugile), CHOOO… (un colpo d’incontro), AAH… (prima del k.o. – knock out – fuori combattimento).
Sul muro il manifesto dell’incontro: mardi 16 juillet 1958, CHAMPIONNAT AMATEUR 5.000 F de prix.

Fabio non ha vinto i 5.000 franchi di premio e se ne va mogio mogio.
Giovanni lo segue, lo chiama. Fabio si volta, lo riconosce, lo respinge.

Uno che scrive è uno scrittore se costringe il lettore ad andare avanti; basta questa situazione di partenza per capire che il fumettista Alfred è uno scrittore.
Giovanni: «Se avessi saputo del mio arrivo, immagino che saresti scappato … Non volevo correre il rischio.»
Fabio: «Almeno avrei evitato un incontro di merda … Non hai scelto il mio momento di gloria per venire a trovarmi.» «Ne è passato di tempo, eh?» «Cinque anni? Sei?»
Giovanni: «Dieci.»
Fabio: «Cazzo … è un miracolo che tu mi abbia trovato.» «Dieci anni hai detto? Cristo … come vola il tempo, eh?»

Nella testa di Fabio, mentre parla con Giovanni, continuano a ruotare le immagini dell’incontro di boxe che ha appena perso; è come se si ripetesse l’incontro che sta per metterlo nuovamente k.o.
Fabio: «Allora dimmi che cosa sei venuto a fare qui o levati dalle palle, Giovanni!»
Giovanni: «Sono venuto con papà.»
Fabio è k.o. Gli occhi sbarrati: «La tua peggiore idea degli ultimi dieci anni.» «Non ho niente da dirvi e non voglio ascoltare, hai capito?» «Tornatevene da dove siete venuti e dimenticatevi di me, una buona volta.» «Mi hai capito?» «FUORI DALLE PALLE!»
Giovanni scopre un sacchetto che ha con sé e mostra un’urna cineraria.
Fabio capisce.

Fabio – ora è veramente k.o. – «Che … che cosa vuoi?»
Giovanni: «Riportarlo in Italia.»
Fabio: «Non hai bisogno di me per farlo. Che cosa vuoi da me?»
Giovanni: «Che tu faccia il viaggio con me.» «Che mi accompagni.» «Parto domani.»
Fabio: «Non mi riguarda più.»
Fabio respinge Giovanni e se ne va. Giovanni gli grida dietro il nome dell’albergo in cui è alloggiato.

Quando Fabio si convince a seguire Giovanni nella sua cinquecento per un viaggio di ritorno all’isola di Procida (si convince perché inseguito da delinquenti che vogliono dargli una lezione per debiti non pagati), Giovanni gli dice: «Con noi viaggerà nostro padre» e dispone l’urna cineraria sul sedile posteriore della macchina.
Comincia il viaggio di ritorno: Fabio, Giovanni, l’urna cineraria, in una fiat cinquecento di fine anni cinquanta.

È così bello questo incipit, anche solo con i testi – lascio immaginare a chi non ha a portata di mano il libro che cosa sia con le immagini – da domandarsi: è possibile trasformarlo nelle scene iniziali di un film?
Ho visto il film tratto dal romanzo grafico al cinema Spazio Uno in via del Sole in un tardo pomeriggio estivo – nella sala, al buio, si stava bene, dopo il sole implacabile di piazza Santa Maria Novella (estate torrida, fiumi a secco, stato di emergenza nel Lazio e in Lombardia).
Il film delude a partire dall’incipit.

Torniamo al fumetto, che è meglio!
Viaggio di ritorno dalla Francia in direzione di Procida, alla fine degli anni cinquanta.
La cinquecento appartenuta al padre, che venderanno insieme al resto dell’eredità: la casa paterna e la barca. Si spartiranno il denaro ricavato e Fabio riprenderà la sua strada, sparirà di nuovo e, questa volta, per non tornare mai più.

Nel film – chissà perché! – la cinquecento è diventata una fiat millecento. È una macchina che ha la stessa antichità, forse maggiore, delle prime cinquecento. Ma perché hanno fatto questo cambiamento? Quelli del film avranno pensato che con la macchinina erede della topolino e della seicento non si potesse fare un viaggio così lungo.
Si vede che non hanno viaggiato nelle cinquecento di quegli anni.
Dalla fine degli anni cinquanta fino alla metà dei settanta l’utilitaria più diffusa è stata la cinquecento, che aveva una caratteristica: era indistruttibile. Anche quando il motore si fermava non era difficile rimetterlo in funzione. Ripartiva sempre.
I primi modelli avevano il cofano anteriore incernierato in modo pericoloso, l’apertura contro vento: con la macchina in moto il cofano poteva sollevarsi improvvisamente. Poi fu incernierato nel modo giusto e il problema si risolse.
C’era una levetta dell’aria, accanto alla leva del cambio, che si doveva sollevare per partire, quando il motore era freddo, e abbassare progressivamente. Per scalare le marce si doveva fare la “doppia debraiata”: pedale della frizione abbassato, leva del cambio a folle, colpo di acceleratore (sollevando la frizione), frizione riabbassata, inserimento della marcia. Era un esercizio di abilità e di sensibilità, senza il quale la seconda, provenendo dalla terza, o la terza, provenendo dalla quarta, non entrava e si restava a folle, con le ruote non controllate dal motore. Mi domando come abbiamo fatto a cavarcela, come ne siamo usciti vivi (non tutti).
La cinquecento ha accompagnato l’adolescenza di molti di noi.

La millecento era un passo avanti: ce l’avevano i giovani impiegati di banca che guardavano con sufficienza le cinquecento delle famiglie borghesi piccole piccole (stipendio e un po’ di rendita) e delle famiglie proletarie che disponevano unicamente del reddito da lavoro. Loro, gli impiegati delle banche non ancora in crisi, anzi floride, avevano stipendi più alti della media, il posto sicuro e molto presto passarono dalla fiat alla ford, contribuendo a tagliare il ramo su cui erano seduti.
I funzionari delle banche, i medici, gli avvocati compravano il maggiolino wolkswagen.

Mi dispiace non avere conservato la cinquecento, anche se ora, a pensarci, non saprei che farmene. Allora macinavamo chilometri su chilometri e non ci stancavamo. A Trento ho visto arrivare supplenti nella piccola cinquecento, partiti dalla Sicilia con tutta la famiglia (marito, moglie, due figli piccoli).

Dalla Francia a Procida il viaggio è lungo. La cinquecento attraversa paesini, strade di campagna. Per ore i due fratelli non si dicono una parola.
Giovanni cerca di far dire qualcosa a Fabio, di sapere che cosa ha fatto negli anni vissuti lontano dal suo passato (era partito adolescente per soddisfare il bisogno di avventura, era diventato fascista e aveva partecipato alla guerra d’Etiopia).
Fabio non ha voglia di parlare, è teso, non vuole aprirsi.
«Non cercarmi Giovanni, ti avverto … Non mi cercare.»
Fabio guida, Giovanni si addormenta. Fabio vede nello specchietto retrovisore l’urna contenente le ceneri del padre: parla con lui.
Immagini antiche gli passano per la testa: un bambino lo guarda, è il fratello. Lui è più grande, è sfrontato, sicuro di sé. Fuma.
Le adunate fasciste, la nave.
A un passaggio a livello il rumore del treno sveglia Giovanni. Discutono. Fabio è furibondo, frena, si allontana nella campagna. Trova un cane abbandonato, legato a un albero.
Lo adotta. Il cane, sul sedile posteriore della macchina, dorme con il muso appoggiato sull’urna cineraria.

Fabio teme ciò che lo aspetta a Procida. A volte crede di essere caduto in una trappola. Teme di ritrovare chi gli rinfaccerà la sua scelta giovanile di unirsi ai fascisti per andare a combattere in Africa. L’isola gli stava stretta.
I due fratelli discutono, litigano, escono dalla macchina.
Giovanni rinfaccia a Fabio ciò che i camerati hanno fatto al padre dei due, antifascista, allo zio, agli amici, mentre lui combatteva insieme a loro in Africa.
Qualcuno approfitta della distrazione per rubare la cinquecento.

Interviene padre Henry, il prete che ha combattuto con i partigiani e conosce i piccoli delinquenti del posto.
Padre Henry fa riportare la macchina ai due fratelli e racconta a Fabio la sua scelta di lottare insieme ai partigiani, di farsi prete combattente per la libertà e per gli ultimi.

I due fratelli si rimettono in viaggio.
È notte: l’ora dei ricordi.

Dopo la guerra Fabio era tornato. Sceso dalla nave nel porto di Napoli, al molo Beverello, nessuno, tranne Fabio, era venuto ad accoglierlo. Nessuno dei vecchi amici. Il padre aveva proibito in famiglia di parlare di lui. Maria, la sua ex fidanzata, non aveva letto le sue lettere. Fabio era salito su una nave in partenza per la Francia. Da allora non si era fatto più sentire, non aveva dato più notizie di sé.
«Merda, non ero io il solo che poteva fare il primo passo!»
Il testo originale è in francese, questa che leggiamo noi è una traduzione, per questo ha senso che i due giovani, nel fumetto, non parlino in dialetto napoletano e qui ha senso l’imprecazione tipicamente francese: “merde!” Ormai Fabio è abituato ad arrabbiarsi in francese.
Nei fumetti non si abbonda nei particolari; Procida vale: “isola di pescatori”. È una Procida immaginaria, astratta, potrebbe essere un’isola siciliana o un’isola greca.
Anche il modo di parlare dei personaggi non li lega a un posto: tradotti dal francese, parlano in italiano. Ci sta, dal momento che nei fumetti è presente un elevato livello di astrazione. Se non fosse così, un topo in giacca e cravatta ci farebbe impressione, Topolino e Paperino sarebbero personaggi di un film di fantascienza tendente all’horror, Topolino e Minnie rischierebbero di essere catturati con una trappola per topi, Paperino finirebbe in padella insieme ai suoi nipotini e a nonna Papera.

Ecco perché è così complicato fare il remake di un fumetto: tante cose accettabili nel fumetto non lo sono con gli attori e con la vera isola nel Golfo di Napoli.
Quando i personaggi e i posti sono concreti, incarnati da persone in carne e ossa e da un’isola di rocce a picco sul mare, di case appollaiate una sull’altra, di reti stese ad asciugare, di pescatori che riparano le reti, è necessario evitare i luoghi comuni. Nel film abbondano.

Meglio continuare a leggere il fumetto.
È notte, i due fratelli sono stanchi e affamati; prima della frontiera si fermano in una pensioncina. Cenano. Fabio va in camera per dormire, trova l’urna che Giovanni ha appoggiato su un comodino.
Fabio parla con l’urna, parla col padre.
«L’ultima volta che ci siamo visti hai detto che se fossi tornato mi avresti ammazzato. Te lo ricordi?»
«Invece sei stato tu a venirmi a cercare. Cosa volevi vedere? Cos’ero diventato?»
«Potevi farlo anche tu!» «Perché non l’hai fatto, eh?»
«Devo averti fatto proprio incazzare eh …»

Giovanni ha un segreto. Dopo la partenza di Fabio si è messo con Maria, la ex fidanzata di Fabio, e ha avuto una figlia da lei.
Non si sono sposati, non vive con lei da tanto, Maria si è trasferita lontano con la bambina. Giovanni forse non riconoscerebbe la figlia se la vedesse e la bambina non riconoscerebbe il padre, se lo vedesse.

È l’alba. Confine tra la Francia e l’Italia. Halte Douane. Controllo passaporto (nel 1958 c’era).
Qui nel film s’inventano una cosa assurda per passare la frontiera, una cosa che annoia anche a raccontarla e sposta il film nel genere commedia: una gag (Fabio finge di essere prete). Poi c’è una citazione da Amici miei, una citazione che è fuori contesto e mi ha fatto uscire fuori dalla grazia di Dio (queste cose mi fanno incazzare). Le citazioni si fanno dentro a un contesto, non al di fuori; altrimenti il film cambia genere e un dramma diventa commedia. Ho fatto fatica a restare in sala (solo perché ci si stava bene e fuori faceva ancora caldo).

I due hanno un regolare passaporto. Non c’è nessun motivo di inventarsi la gag del prete per fargli attraversare la frontiera.
Gli sceneggiatori si sono inventati un Fabio che perde facilmente il controllo, un mezzo pazzo che chiude il fratello in una bara rischiando di ammazzarlo, un ladro che assale il giovane addetto a un distributore di benzina, lo deruba, lo lascia a terra ferito.
Il giovane derubato descrive la macchina dei due fratelli (la millecento fiat) e da quel momento i due sono ricercati dalla polizia. Per risolvere il passaggio della frontiera gli sceneggiatori (scemeggiatori) s’inventano la gag del prete. Così regista e sceneggiatori sono riusciti a rovinare il rigore e la pulizia del testo di Alfred.

La cinquecento è arrivata in Italia: ora è la protagonista principale del fumetto.
Il paesaggio cambia, si trasforma, diventa il meraviglioso paesaggio italiano. I disegni hanno una bellezza commovente.

A chi si rivolge Giovanni a pag.155? Mentre la macchina attraversa l’Italia del 1958 – ponti, tornanti a picco sul mare, paesini della costa ligure, chiese, strade di campagna, processioni, matrimoni, bambini che giocano a pallone, campi delimitati da file di cipressi e colline toscane – dice: «Non te l’avevo mai raccontato?»

A chi non l’aveva mai raccontato?

Secondo me si rivolge a noi, a ciascuno di noi, e a sé stesso.
Giovanni ricorda quando vide Fabio piangere.
Fabio è il fratello maggiore e per Giovanni era ciò che per un bambino è il fratello grande, che fuma e al bambino sembra una roccia. Il fratello grande piangeva di nascosto in un pollaio, dopo avere litigato col padre e avere deciso che sarebbe andato via. Giovanni non seppe dirgli niente, pensò solo che il pollaio è un posto strano per piangere.
«Sono sicuro che sarebbe bastata qualche parola e forse le cose sarebbero cambiate.»
Il bambino non riuscì a dire qualcosa, pensò solo che il pollaio è un posto strano per piangere. Non disse niente.
«L’indomani se n’è andato.»
La vita è fatta anche dei rimorsi per le parole che non abbiamo detto e forse avrebbero cambiato le cose, e ci dimentichiamo, quando abbiamo il rimorso, che eravamo solo un bambino.

Si fermano nella trattoria “da Beppe”. Mentre Giovanni fa una telefonata per avvertire qualcuno che stanno per arrivare, Fabio si ubriaca e provoca gli altri avventori, i contadini impegnati in una partita a carte.
Qui, nel fumetto, c’è una citazione di un film di Francesco Nuti: «Dammi un bacino».

È una citazione perfettamente inserita nel contesto (Fabio è ubriaco, il personaggio di Nuti era ubriaco).
Mi rivolgo al regista Tommy Weber: Tommy … Tommaso … Tommasino … impara dal fumetto su cui hai lavorato come si inseriscono citazioni che non risultino stonate!
Un’altra citazione perfettamente inserita nel contesto si riferisce al film di Ettore Scola Una giornata particolare: lenzuola bianche che fanno corona a due persone che si amano (Giovanni e Maria) e non riescono a incontrarsi.

Fabio è turbato, ma è felice di essere tornato in Italia, da cui manca da tanti anni. Quando vede gli aranci spuntare dal muro di cinta di un casolare frena, esce dalla macchina di corsa e si arrampica sul muro per cogliere e mangiare le arance. In quel momento è felice, commosso. Seduto in mezzo agli aranci, per un attimo, tutte le cose brutte che ha vissuto sono scomparse. «Tutto bene … Alla grande ….»

E poi?
E poi c’è una conclusione meravigliosa, che gli sceneggiatori del film e il regista sono riusciti a rendere banale.
Ma non si può raccontare. I disegni sono indispensabili.
Posso solo consigliare di procurarsi il romanzo grafico (graphic novel) del fumettista Alfred, pubblicato dalla Bao Publishing (data di pubblicazione 9/04/2014).
Quando avrete finito di leggere sarete emozionati, commossi, come è capitato a me quando l’ho letto la prima volta, seduto in una poltrona della libreria Feltrinelli a Chiaia (Napoli) nel periodo 2015 – 2016 e ora l’ho comprato, finalmente, nella Feltrinelli di via Cerretani e l’ho riletto per ritrovare le emozioni e “rifarmi la bocca” dopo la delusione del film (mentre scorrevano le immagini mi domandavo: possibile che fosse così? No. Il fumetto non era così).
Alfred è uno dei disegnatori e degli scrittori attuali più interessanti.

Il film? Si può fare a meno di vederlo, non si perde molto.