13 febbraio 2018
Schermo televisivo (Rai1 – RaiPlay)
Ricordi
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“Fabrizio De André – Principe libero”, regia di Luca Facchini (Raiplay). In che modo e fino a che punto un artista popolare agisce sui registri dell’esperienza umana individuati da Jacques Lacan? Agisce su Reale, Simbolico e Immaginario attraverso la comunicazione. I grandi artisti popolari utilizzano, senza rendersene conto, il linguaggio dell’inconscio.
Il cantautore anarchico che appoggia la sigaretta accesa sulla cassa armonica della chitarra classica o folk evoca un mondo (parliamo degli anni settanta, ottanta) ancora prima di cominciare a suonare e a cantare. Nei concerti, da solo o accompagnato dalla PFM (Premiata Forneria Marconi), o da un suo gruppo con coro e violino, Fabrizio De André otteneva una rarità per quei tempi: il religioso silenzio e la concentrazione sul testo. La magia si rinnovava ogni volta che appoggiavamo il 33 giri sul piatto del giradischi.
Il primo pensiero, quando, qualche anno fa, ho saputo dell’operazione realizzata per iniziativa principalmente della vedova Dori Ghezzi, è stato: «Non si può vedere! Non è possibile!».
Non volevo vedere un film sulla vita di Fabrizio De André che girava nelle sale e, in due puntate, in televisione.
Poi sono incappato, casualmente, nella prima puntata su Raiplay. Ho visto anche la seconda, per curiosità, perché a Fabrizio De André sono legati ricordi importanti della mia vita. Volevo confrontare il pregiudizio negativo con la realizzazione.
Questione fondamentale (“That is the question”): a che scopo rifare in una fiction parte della vita di un personaggio contemporaneo che non amava parlare di sé?
Quando Fernanda Pivano diede di fuori – anche ai grandi traduttori degli scrittori e poeti americani può capitare di dare di fuori – quando disse che Fabrizio era un poeta e che Bob Dylan sarebbe il De André americano (altra cultura, altro modo di usare le parole, altra musica), Fabrizio dimostrò un evidente imbarazzo e la paura di passare, di essere fatto passare, per cretino: «Benedetto Croce diceva: se uno continua a scrivere poesie dopo i diciott’anni, o è un poeta o è un cretino. Per prudenza mi definisco autore di canzoni».
Faber scriveva belle canzoni. Definirlo poeta è una necessità solo di chi desidera omaggiarlo e non sa come farlo (dire che era un artista non basta?).
Nonostante la comune origine, attualmente poesia e canzone sono due forme d’arte diverse. Alcuni poeti si sono cimentati con la scrittura di canzoni. Pierpaolo Pasolini scrisse il testo di Tutto il mio folle amore. La canzone fu interpretata da Domenico Modugno nel film Capriccio all’italiana del 1967 (episodio: Che cosa sono le nuvole?).
Se fosse stata presentata al Festival di Sanremo avrebbe meritato di vincere. Ve l’immaginate? «Testo di Pierpaolo Pasolini, musica di Domenico Modugno, dirige il maestro Giuseppe Vessicchio, canta Domenico Modugno». Perché no?
Alcuni autori di canzoni hanno scritto poesie; altri hanno dipinto quadri o, come Luciano Ligabue, diretto film.
Sono artisti e si esprimono, spesso, con mezzi diversi e con risultati diversi.
La canzone è una combinazione inscindibile di testo e musica, dunque è cosa diversa dalla poesia, nonostante abbia la stessa origine.
Molti autori francesi hanno applicato musiche a poesie scritte da grandi poeti, contemporanei o di secoli passati, a volte addirittura modificando parzialmente il testo. Il risultato è una canzone, che rimane distinta dalla poesia originaria.
Georges Brassens cantava la Ballade à la lune, di Alfred De Musset (1810 – 1857).
«C’était dans la nuit brune, / Sur un clocher jauni, / La lune, / Comme un point sur un “i”».
[«Era nella notte buia, / su un vecchio campanile, / la luna, / come un punto su una “i”»].
«Lune, quel esprit sombre / Promène au bout d’un fil, / Dans l’ombre, / Ta face et ton profil?».
[«Luna, quale spirito cupo / fa muovere in capo a un filo, / nell’ombra, / la tua faccia e il tuo profilo?»].
L’espressione «À quelque arbre pointu » della poesia diventa, nella canzone, « Contre un arbre pointu». Forse il cambiamento è reso necessario dalla musica, a cui il testo si deve adattare, o è una scelta di Brassens, diversa dalla scelta di De Musset. Sono legittime entrambe le soluzioni: una è poesia, l’altra è canzone. La prima si legge, preferibilmente ad alta voce (secondo me), la seconda si canta.
Se uno scrivesse: «Se bruciasse la città / da te, da te, da te io correrei …» e pretendesse di far passare questi versi per poesia, farebbe ridere. Come canzone non è male, tanto è vero che noi “diversamente giovani” l’abbiamo nelle orecchie, con la voce e i gesti inconfondibili di Massimo Ranieri. Eh già! Nella canzone contano anche i gesti: non si può separare dalla interpretazione. Sono possibili diverse interpretazioni.
La poesia di Dante non dipende da chi la legge (a me piace la lettura di Vittorio Sermonti e, in seconda battuta, di Giorgio Albertazzi, che ci metteva anche un po’ della calata fiorentina).
Cantando Il cielo in una stanza, in macchina, nei lunghi viaggi, da soli o in compagnia, abbiamo in mente le lunghe braccia di Mina che disegnavano la melodia con la stessa precisione della bellissima voce. «Quando sei qui con me», pausa, «Questa stanza non ha più pareti ma alberi», pausa, «Alberi infiniti …» … eccetera eccetera.
A volte ci viene in mente Gino Paoli e cerchiamo di imitare il suo modo di cantare al limite della stonatura: lui cantava al limite, noi decisamente stoniamo.
Quando cantiamo Mr Tambourine man cerchiamo di imitare (è il nostro destino) la voce nasale del giovane menestrello che elencava, accompagnandosi con la chitarra e con l’armonica a bocca, una serie lunghissima di versi che sulla carta sembrano privi di senso, sembrano buttati lì uno dopo l’altro. Ora il ragazzo è vecchio, ha al suo attivo una produzione sterminata di versi che non erano buttati lì ma costruiti con rigore ed è premio Nobel per la letteratura.
Bob Dylan è un poeta?
Secondo me è un artista meritevole del premio Nobel per la canzone. Non esiste questo premio? Inventatelo.
Ives Montand cantava le poesie di Prévert, stupendamente musicate da Joseph Kosma. Le poesie erano già state pubblicate nella raccolta Paroles; avevano e hanno vita autonoma. Risultato: si possono leggere e si possono cantare, perché non sono nate come canzoni.
Provate a leggere il testo di una canzone separato dalla musica. Nel 90% dei casi risulterà noioso, infantile, banale. Anche molte canzoni di De André sono illeggibili senza l’apporto della musica, ma che importa? Non sono nate per essere lette, sono nate per essere cantate, possibilmente da una voce intonata.
Converrebbe utilizzare la parola artista, che va bene per tutti e mantiene le distinzioni: uno che scolpisce il marmo fa una cosa diversa da un fotografo o da un musicista, direbbe il compianto Catalano dei tempi di Quelli della notte (chi sorride al ricordo è un “diversamente giovane”).
Torniamo al film.
Luca Marinelli, che impersona Fabrizio, è bravo e fa il possibile; a scuola si direbbe: s’impegna. È indeciso tra il tentativo di imitarlo e l’idea di dare un’interpretazione personale dell’uomo, dell’artista, del cantante.
Noi conosciamo bene l’originale, l’abbiamo osservato con attenzione, lo ricordiamo come fosse un compagno di scuola: ci siamo fatti la nostra idea.
Siamo disposti ad accettare la versione personale di Luca Marinelli; non ci piace il tentativo di imitazione (mi è venuto fuori il pluralis maiestatis, forse per il tono del discorso; meglio tornare alla prima persona).
Io credo non abbia senso entrare nella vita intima di un artista, cercare di penetrare il segreto della sua anima, come se fosse possibile conoscerlo.
Non stiamo parlando di un genio vissuto alla fine del ‘400, di cui ci sono rimaste alcune opere e il mito. Sapremo mai chi fosse Leonardo Da Vinci? Non credo. Possiamo solo inventarci il nostro Leonardo Da Vinci.
Anche per artisti più vicini a noi, come Amedeo Modigliani – sui quali sono disponibili documenti, testimonianze, fotografie, lettere, diari – un regista che racconta la storia del pittore livornese in realtà costruisce il suo Modigliani.
«Ma il mio mistero è chiuso in me …» cantava Pavarotti nella Turandot, sulla musica di Puccini e il testo di due parolieri (così si chiamavano gli autori dei testi delle canzoni): Giuseppe Adami e Renato Simoni.
È chiuso in sé anche il mistero di un artista morto nel 1999, di cui molti hanno ricordi vivi di amicizia, di familiarità.
Non ha avvertito imbarazzo, Dori Ghezzi, quando si è vista interpretata da un’attrice? Quando ha visto la ricostruzione del momento in cui i due personaggi hanno scoperto l’attrazione reciproca?
Un momento magico. Mia madre avrebbe usato un’espressione che rende perfettamente l’intimità: «In quel momento gli occhi si sono incontrati».
Non credo che Dori Ghezzi abbia spiegato a Valentina Bellè come doveva abbracciare Luca Marinelli e come doveva farsi abbracciare.
Probabilmente le indicazioni sugli atteggiamenti da assumere sono state date dal regista, anche se Gianluca Gobbi, che ha interpretato Villaggio, ha detto in televisione – l’ho sentito con le mie orecchie – che Luvi e Dori erano sempre presenti sul set.
Davano suggerimenti per rendere la rappresentazione simile al vero?
La confusione tra realtà e rappresentazione è troppo facile in un film che ha dentro situazioni reali e personaggi per la maggior parte viventi o morti da poco. Quando si affronta la vita di un nostro contemporaneo si deve evitare di andare oltre il documentario, evitare di ricostruire alcuni episodi in una fiction che ha, forse involontariamente, una pretesa di veridicità.
Si dirà: Paolo Sorrentino ha fatto un film su Andreotti, un film su Berlusconi.
È vero; ma questi film non rischiano di confondere realtà e rappresentazione: lo spettatore sa che sta vedendo il Berlusconi di Sorrentino, il Berlusconi di Nanni Moretti (Il caimano), l’Andreotti di Sorrentino (Il Divo).
È la pretesa di veridicità, la mancanza di interpretazione a dare fastidio.
La moda di fare fiction sulla vita dei contemporanei si può a malapena accettare, tollerare, sopportare, quando ha un intento divulgativo, se serve a far conoscere alle nuove generazioni gli eroi della repubblica; ma bisogna stare bene attenti a non farne dei santini – soprattutto i giovani si accorgono subito della magagna e cambiano canale o guardano con distacco, senza emozione.
Fabrizio De André non è stato un eroe della repubblica, è stato un artista, un cantautore.
Luigi Tenco non aveva perennemente lo sguardo cupo. Lo aveva solo davanti alle telecamere, gli piaceva fare il bel tenebroso; in realtà era un ragazzo allegro, come ha testimoniato più volte Gino Paoli che faceva parte dello stesso gruppo di giovani artisti genovesi di quegli anni.
La scuola genovese: Gino Paoli, Fabrizio De André, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Umberto Bindi, Giorgio Calabrese (paroliere). I fratelli Gian Franco e Gian Piero Reverberi, musicisti, davano un tocco classico agli arrangiamenti.
«… frustando il cavallo come un mulo, quel gran faccia di culo …» cantavano i due amici (Fabrizio e Paolo); poi subirono un processo (lo ha raccontato Villaggio) e De André fu costretto a cantare «… frustando il cavallo come un ciuco, tra i glicini e il sambuco …» (Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers).
Ma non credo che i due formassero una specie di coppia da avanspettacolo, come appare nel film. De André non era un tipo da avanspettacolo, se dobbiamo stare a ciò che Villaggio ha raccontato in più occasioni. Faceva pensare di più all’artista maledetto, che era di moda in quegli anni.
Basta qualche episodio per capire quanto i due fossero fuori di testa. Sono ricordi di Paolo Villaggio, un po’ perfidi, com’era nel carattere del personaggio che li ha raccontati, episodi sempre al limite della credibilità, pieni di evidenti esagerazioni.
In un video Villaggio dice: «L’ho conosciuto che aveva tre anni; bestemmiava in una maniera veramente un po’ impressionante». Dice proprio così, con la voce di Fantozzi, come se parlasse di un adulto e volesse attenuare l’affermazione («un po’ impressionante»).
Poi aggiunge: «Era di ottima famiglia, upper class, snob, la famiglia e anche lui». Una serie di colpi circolari (famiglia ottima, upper class, snob) che si concludono con un gancio (anche lui snob) e il tentativo di knock-out.
Per inciso: non è cattiveria; è sempre così tra amici: più sono fraterni, più raccontano i difetti e i limiti l’uno dell’altro.
Si sa che la famiglia di Fabrizio era molto ricca, grazie alle attività del padre, ma qui sembra di sentire Fantozzi che guarda con invidia una famiglia più altolocata della sua.
In un’altra intervista dice che era un bel bambino. Fantozzi nota che quel bambino è non solo ricco, libero di parlare come gli pare, ma anche bello. Pare che gli roda un po’, o gli rodesse a quei tempi, tenendo presente che Villaggio credo non sia mai stato elogiato per la bellezza: per l’intelligenza, per l’umorismo, mai per la bellezza, suppongo.
Nel seguito del video Villaggio dice che fu lui a rimproverare il bambino di tre anni per le sue bestemmie. Il racconto prosegue con l’amicizia (amore e odio mescolati, come in tutti i rapporti umani) che si sviluppò in seguito. D’estate lavoravano sulle navi da crociera, intrattenevano i passeggeri. Fabrizio suonava la chitarra e cantava, Villaggio presentava; in un’altra sala Berlusconi cantava, Confalonieri suonava il piano.
È come se Villaggio cercasse di smontare Fabrizio, di mettere in evidenza la sua lontananza dal mito che sarebbe diventato per molti.
Questi ricordi non devono essere presi alla lettera; sono il punto di vista di Paolo Villaggio – che sicuramente era un personaggio più complesso di come appare nel film.
Credo – è una mia supposizione – che Villaggio si sarebbe ribellato alla rappresentazione di come era agli esordi, di come era l’amico; non mancavano episodi conflittuali, non solo tra di loro, ma anche con i fratelli (Fabrizio con il fratello studioso e Paolo con il fratello gemello, studioso anche lui).
Ma, siccome … il mio mistero è chiuso in me …, ciò che conta, alla fine, è che De André sapeva scrivere canzoni e sapeva cantarle. Tutto il resto: i racconti degli amici, i rapporti con il padre, l’alcolismo, il maledetto vizio di fumare in continuazione, c’interessa assai meno, anche perché sappiamo che non ci aiuterà a comprendere il miracolo dell’arte, a capire da dove veniva la sua capacità di combinare parole e note, mettendo un timbro indelebile sui nostri ricordi.
La canzone può essere una cosa molto seria.
C’è gente che dà grande importanza alle canzoni e ai suoi autori.
Io, per esempio, qualche anno fa ho fatto una specie di pellegrinaggio laico a Sète, in Francia, per visitare la tomba di Georges Brassens, nei confronti del quale ho, da tanto, una profonda ammirazione.
L’ammirazione è legata all’imprinting, cioè alla circostanza in cui ho “scoperto” Brassens: in una casa bretone, una mattina perfetta, una ragazza gioiosa appoggiò un disco 33 giri sul piatto di un giradischi e mi spiegò (non conoscevo il francese, utilizzavamo l’inglese per comunicare) quelle canzoni dalla musica apparentemente semplice e dal significato allegro, ironico, colto, intelligente.
Anche Fabrizio De André ammirava Brassens; agli inizi della sua attività si ispirava al suo stile. Fra i suoi primi testi ci sono molte traduzioni, ottime traduzioni, di canzoni di Brassens.
Per esempio: «Matrimoni per amore, matrimoni per forza / ne ho visti di ogni tipo, di gente di ogni sorta …» è la traduzione di La Marche Nuptiale («Marriage d’amour, marriage d’argent / j’ai vu se marier toutes sortes de gens …»).
Qualche volta, come nella canzone che contiene una reminiscenza pavesiana («La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi / ti coprirà d’un velo bianco, addormentandosi al tuo fianco …»), prendeva la musica che Brassens aveva collegato a una poesia di Théodore de Banville (Le verger du Roi Louis) e non traduceva ma adattava un suo testo. Risultato: due bellissime canzoni originali, una in francese, l’altra in italiano.
Quando decise di dedicarsi seriamente al lavoro di cantautore, dopo il successo di La canzone di Marinella cantata da Mina, Fabrizio trovò una strada personale, riuscendo sempre a rinnovarsi, a cambiare restando fedele a se stesso.
Uno dei ricordi più emozionanti della mia giovinezza è legato a un gruppo che, una sera settembrina di tanti anni fa, in una piazza di Napoli, cantava le canzoni di De André, in particolare Il suonatore Jones e le altre di Non al denaro, non all’amore né al cielo. Il giorno dopo comprai il 33 giri nel negozio Ricordi nella Galleria Umberto; lo conservo ancora, anche se non ho più il giradischi (la Ricordi in Galleria Umberto non esiste più).
Ero in un momento particolarmente felice, che concludeva un periodo complicato.
Avevo finito gli esami all’Università, stavo preparando la tesi di laurea, stavo per dare una svolta radicale alla mia vita, avevo incontrato l’amore eterno (fu così eterno da durare qualche anno, da resistere a due trasferimenti; fu stroncato dal terzo).
La ragazza era dovuta tornare a casa dei genitori, lontano da Napoli, così quella sera mi trovai da solo nella piazza, da solo ma insieme a tanti giovani, come spesso capitava a quei tempi, ad ascoltare questo gruppo che cantava le canzoni di De André.
Per capire la mia emozione bisogna tornare indietro, agli anni che avevano preceduto quella serata, alla sensazione di non combinare nulla, di oscillare tra scelte diverse. Alla fine di quell’estate tutto si stava risolvendo, e tutto a modo mio: ero riuscito a evitare di “sistemarmi” definitivamente vicino casa, di incapsularmi da solo, per mancanza di alternative, in una famiglia nuova uguale a quella in cui ero cresciuto. A quei tempi ci si sposava presto, una volta “sistemati”, solitamente con una ragazza del proprio ambiente, dopo un noioso fidanzamento. Volevo cambiare aria.
Il volo era pronto, preparavo le ali: dopo la laurea, Londra. Poi: dove la fortuna mi avrebbe portato, completamente libero. Quell’estate, nell’ostello per la gioventù Villa Camerata a Firenze, avevo incontrato la compagna che si sarebbe unita al volo, almeno per qualche tempo. La situazione, che prima sembrava bloccata, si era aperta.
Raggiunsi il massimo dell’emozione quando il giovane chitarrista barbuto cantò Un malato di cuore e scandì, cercando di imitare il modo che aveva allora Fabrizio di pronunciare le parole con esattezza: «Quelle sue cosce color madreperla / rimasero, forse, un fiore non colto».
Io avevo colto il fiore, ma avevo rischiato di non coglierlo, come il malato di cuore della poesia di Spoon River Anthology. Avevo rischiato di non riuscire a prendere fiato, di accontentarmi della poca aria necessaria per sopravvivere, di rassegnarmi a una vita priva di rischi, di nuove esperienze, di incontri, di sorprese, di sogni. Mi sembrò che Fabrizio questa canzone l’avesse scritta per me.
Questo mi succede sempre con l’arte. Quando guardo La Primavera, agli Uffizi, ho l’impressione che Botticelli l’abbia dipinta per me, mi meraviglio di non trovare la dedica in un angolo (al mio amico Giovanni, firmato: Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, Sandro). Come mai non ci ha pensato, nonostante l’antica amicizia? Certamente una dimenticanza. Una volta ho provato a correggere l’errore dell’amico: mi sono avvicinato al quadro munito di una grossa biro. Purtroppo è suonato l’allarme; un nugolo di nerboruti guardiani poco disponibili al dialogo mi ha impedito una buona azione. Così va il mondo!
«Ma che la baciai, questo sì lo ricordo, col cuore ormai sulle labbra. Ma che la baciai, perdio sì lo ricordo! E il mio cuore le restò sulle labbra».
Due esperienze felici, avvenute in tempi diversi, si legano, nel ricordo, a due cantautori, Georges Brassens e Fabrizio De André, che hanno molti tratti in comune. Senza di loro sarebbero state ugualmente felici (la felicità non derivava dalle canzoni) però sarebbero svanite nel buco nero che ingoia il passato, come tante altre esperienze, felici e infelici. I due artisti hanno messo un timbro su quelle esperienze, su quei momenti, con le loro elaborate combinazioni di parole e musiche.
Il collegamento sarebbe potuto avvenire con una statua, con un quadro, con una sinfonia, con una poesia. Alle persone semplici come me accade quasi sempre con le canzoni.
Chissenefrega se la canzone è cosa diversa dalla poesia! La poesia, nella forma attuale, non ha bisogno della musica, necessaria alla canzone (per favore, non mettete La guerra di Piero nelle antologie scolastiche! È una canzone, va cantata, non letta).
Le scene finali, con Fabrizio che gira per le vie della vecchia Genova e attraversa «i quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi» le abbiamo viste più volte, sono facilmente reperibili sul web; nelle registrazioni Fabrizio è un po’ invecchiato, un po’ ingrassato e gonfio (forse aveva addosso, senza saperlo, la malattia che lo portò alla tomba).
Nel film e nel video, presenza costante: la sigaretta tra le dita o sulle labbra.
Ho letto che il film è stato visto in televisione da un gran numero di spettatori e quindi, per come sono valutati i programmi televisivi, è stato un successo. Ciò che conta è il numero, non c’è un indice di gradimento.
Anch’io ho visto il film, quasi per caso.
L’alto indice di ascolto, o come si chiama, denota solo, secondo me, che in tanti siamo interessati alle canzoni e alla vita di questo artista. Se poi siamo rimasti soddisfatti di come è stato rappresentato nel film … è un altro discorso.