23 marzo 2023 h 17.45
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

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Enrico è un ragazzo di Forcella appassionato di canzoni. Fa le pulizie in un negozio di dischi. Il proprietario del negozio gli permette di utilizzare i registratori e i dischi per fare le compilation su cassetta; siamo nei primi anni ottanta.
Enrico non si limita alla copia: segue un criterio; dimostra competenza e gusto, tanto che le sue cassette con le “compilescion” nel quartiere sono molto richieste.
Vorrebbe fare il diggei (DJ), ma non ha l’occasione perché è timido e insicuro.
Appartiene a una delle simpatiche famiglie che vivono, arrangiandosi, in uno dei centri storici più antichi e movimentati di Napoli: Forcella, piazza Mercato, via Tribunali, Porta Capuana, via Duomo, via San Biagio dei librai, i decumani, Spaccanapoli.
Ha due fratelli. Sono i tre figli del giovane Pasquale Frattasio: Peppe, Enrico e Angelo.
Tre fratelli, tre caratteri diversi. Sono molto legati tra loro.

Quando erano piccoli la madre, anche lei giovanissima, li chiamava dal balcone: «Pèppì, Angelo, Èrrì» (per troncare il nome di Angelo si doveva usare il diminutivo: Angelì per Angelino).
I bambini giocavano per strada con gli altri ragazzi: case piccole, poco spazio. Per giocare c’era solo la strada. Non erano scugnizzi, nel senso che non erano abbandonati a se stessi; i genitori li seguivano, gli davano l’affetto e un’educazione, un po’ a modo loro, ma efficace.
La scuola non era obbligatoria per questi ragazzi, anche perché, a confronto con la strada, era troppo noiosa.

Valori essenziali.
«Papà, noi siamo poveri?»
«Noi non siamo poveri, perché ogni sera un piatto a tavola lo possiamo mettere».

Avrebbe potuto aggiungere: non siamo poveri perché ci vogliamo bene.
Il signor Frattasio si svegliava alle quattro del mattino per trovarsi a piazza Garibaldi in coincidenza dell’arrivo del primo treno. Vedremo più avanti quale era il suo lavoro.
Quando stava per tornare a casa telefonava alla vicina, che aveva il telefono fisso; la vicina avvertiva la moglie di Pasquale; lei si affacciava fuori dal balcone e urlava: «Pèppì, Èrrì, Angelì salite! Papà sta arrivando. Preparate il tè».

Non siamo a Londra.
Il tè era messo nelle bottiglie di whisky, le bottiglie erano tappate con l’etichetta originale incollata dai ditini delicati e precisi dei bambini.
Un lavoro fatto bene. Un gioco. I bambini si divertivano e chiedevano al padre di portarli a vendere il tè-whisky. Pasquale guardava la moglie, perché l’ultima parola spettava a lei. Lei si faceva pregare un momento, poi cedeva con un gesto che l’attrice è stata molto brava a riprodurre, un gesto che è conficcato nella memoria di chi è stato cresciuto da una donna meridionale. Il gesto di quando chiedevi il permesso a tua madre e tua madre acconsentiva. «Puó ascì, però alle otto estaccà» (“e” = devi; “sta” = stare; “ccà” = qua).
Il signor Frattasio sceglieva le bottiglie meglio riuscite (questa non va bene, il liquido è troppo scuro) e le metteva in mostra sulla bancarella. Vere bottiglie di whisky, originali, di marca, sigillate, a metà prezzo. Passava il militare, si fermava il turista o il provinciale che voleva fare l’affare: «a Forcella si trova tutto a metà prezzo. Una volta è sparito un transatlantico». Ed era vero, io ci credo; è come la fede religiosa: si crede alle cose più assurde; qualcosa di vero ci deve essere.

Il signor Frattasio apriva la bottiglia originale (unica) e faceva assaggiare al cliente il whisky. Il pollo diceva: «È buono, ottimo»; un bambino lo distraeva mentre il padre gli rifilava la bottiglia col tè.

Diciamo la verità, senza falsi e comodi moralismi: un capolavoro di inventiva, di umorismo, che consentiva alla famiglia di tirare avanti onestamente. Pasquale ripeteva, dopo il discorso sulla povertà: è importante essere onesti.

Poi c’era la truffa delle radio finte. Non si vede nel film ma mi ricordo che se ne parlava. La carcassa di una radio piena di sassi. Il pollo, che aveva pensato di fare l’affare (immaginava di comprare a poco prezzo una radio rubata), quando arrivava a casa non si capacitava: aveva provato la radio, l’aveva accesa e funzionava. Spaccottato l’acquisto, scopriva di avere comprato la carcassa di una radio e qualche sasso.

Gli sceneggiatori dei film di Totò e lo stesso grande interprete dell’anima napoletana da dove prendevano le loro invenzioni? Da un popolo che ha imparato per secoli ad arrangiarsi e a fare a meno di uno stato che in altri posti è percepito come protezione dell’individuo e della comunità. Da quelle parti lo stato non c’è mai stato, o c’è stato solo per fare danni. Danni a chi? Certamente non ai detentori del potere. Agli altri.
Ecco perché il signor Frattasio si sentiva onesto, perché i suoi trucchi e le sigarette di contrabbando servivano a portare avanti la famiglia senza fare cose veramente disoneste, come rubare o peggio.
Si potrebbe obiettare: il pollo veniva derubato. È vero, veniva derubato. Ma le sue intenzioni non erano tanto oneste. Non si compra whisky o una radio per campare la famiglia. Diciamo che un po’ il pollo se lo era meritato e forse ci rideva su anche lui quando, offrendo un bicchierino di whisky agli amici, li vedeva storcere la bocca, poi scoppiare in una risata: «Lo sapevo! Ci stavo attento! Non so come sia riuscito a farmela sotto il naso».
Così il mito di Forcella si diffondeva e moltiplicava.

«A Forcella ti rubano i calzini senza toglierti le scarpe».
Ci credo. Non dico che l’ho sperimentato. Ma, diciamo la verità, chi ha sperimentato i miracoli? Eppure molta gente ne parla come se li avesse visti.
Qualcosa di vero certamente c’è, qualche statua della Madonna sembra veramente piangere, anche se non sapremo mai se è la statua che piange o siamo noi che abbiamo gli occhi pieni di lacrime.

I finanzieri si incaponivano ad arrestare la povera gente che faceva concorrenza allo stato vendendo le sigarette di contrabbando. Avrebbero fatto meglio a cercare i capi dei grandi traffici e i grandi evasori fiscali. A che serve imbestialirsi contro i pesci piccoli? È come cercare di evitare l’alluvione spostando l’acqua del fiume un cucchiaio alla volta. Bisogna prendersela con quelli che hanno deviato il letto del fiume!

Questa considerazione ci riporta al bel film di Sydney Sibilia, ben fatto, molto divertente e preciso, nonostante l’apparenza scanzonata (a proposito di canzoni).
Se nel deserto una volta piove, il giorno dopo diventa un prato, perché sotto alla sabbia è pieno di vita, che non aspetta altro per svilupparsi.
La stessa cosa accade a Napoli. Basta dare una possibilità a questa gioventù viva e intelligente perché dal nulla si formi una casa discografica (Mixed by Erry) che ha più vendite di tutte le altre, antiche e blasonate. È vero: il successo economico si spiega con le minori spese rispetto alle altre case discografiche. Possono vendere le cassette a basso prezzo perché non pagano le tasse e non pagano i diritti d’autore.
Ma il successo si spiega anche con la bravura di Enrico, che faceva compilation molto richieste, e con la rete capillare di diffusione delle cassette: la stessa rete del contrabbando delle sigarette.
Dunque l’abbassamento dei prezzi, l’innalzamento della qualità e l’utilizzo di un sistema di distribuzione diffuso (le case discografiche serie, in ritardo, scoprirono le edicole) fece aumentare le vendite in modo incredibile.

La qualità fu un aspetto molto importante. Si coniò un nuovo standard: il falso originale. Se compravi la cassetta con il marchio Mixed by Erry sapevi che era un falso, ma non era una fregatura, non s’inceppava nel lettore, non era incompleta o piena di fruscii. La gente si fidava e tornava a comprare le cassette false originali. I figli del signor Frattasio avevano fatto un passo avanti, avevano capito che il pollo ti fa guadagnare una volta sola, il cliente ti fa guadagnare molto di più, perché torna.

Bella la scena in cui i tre fratelli, ormai ricchi, aiutano il padre, che non vuole rinunciare alla sua attività, a preparare, nella cucina della vecchia casa, le bottiglie di whisky con il tè dentro.
I ragazzi ridono, scherzano, fanno le battute; il padre li guarda orgoglioso. C’è armonia. È la conferma della risposta che aveva dato al bambino: «Noi non siamo poveri». Non sono poveri neanche quando sono diventati ricchi.

Grande successo, milioni di lire a palate, anche perché i ragazzi ebbero la fortuna di non dover fare i conti con la camorra.
Li protesse – non lo stato – la loro buona stella. Incapparono in un periodo di guerra tra le bande; i camorristi, troppo occupati ad ammazzarsi tra di loro, non avevano la testa per entrare nel commercio di canzoni e musicassette. Uno dei capi, che aveva proposto di “diventare socio” a modo suo, fortunatamente uscì di scena per entrare nel cimitero di Poggioreale e rimanerci. Visto che lo stato non lo chiudeva nel carcere di Poggioreale: meglio di niente.
I fratelli Frattasio non furono costretti a scendere a patti con la camorra.

Divertente, nel film, la rappresentazione della lotta con il capitano della finanza isterico, che riuscì a metterli in galera grazie alla collaborazione di un imprenditore del nord diventato fornitore unico delle audiocassette vergini (grande Fabrizio Gifuni). L’imprenditore, spinto dalle case discografiche danneggiate dalla concorrenza sleale, si accordò con il capitano della finanza, ebbe la garanzia di una sorta di immunità per i reati commessi da lui e vuotò il sacco a danno dei fratelli Frattasio.

Non dico che questa azienda di falsificazione, che non pagava le tasse e i diritti d’autore, fosse una realtà positiva.
Una volta diventati ricchi erano ladri e fu giusto perseguire i reati da loro commessi fino a mandarli in galera. Se si fossero fermati a un’attività locale limitata, che faceva campare un buon numero di famiglie, penso che avrebbero meritato indulgenza, perché facevano del bene a molti disoccupati ed erano riusciti (per fortuna) a non essere costretti al dilemma: servire la camorra o morire.

Sarebbe un dramma per tutti, anche per chi pensa di non essere coinvolto, se proprio per questo la loro attività fu stroncata. Se avessero avuto l’appoggio della camorra e, conseguentemente, di qualche politico corrotto, probabilmente neanche il capitano nevrastenico sarebbe riuscito a vincere la guerra personale che aveva ingaggiato contro di loro.

Fatti i complimenti al regista e alla casa di produzione Groenlandia, si dovrebbero citare tutti gli attori, perfetti dentro i personaggi: gli interpreti dei ruoli principali (i tre ragazzi, il padre, la madre, il capitano della finanza Ricciardi, le fidanzate, l’imprenditore del nord), quelli che danno vita a ruoli più brevi (i ragazzini per strada, il proprietario della discoteca, l’usuraio che dice «Quanto vi serve» senza punto interrogativo, il padrone del negozio, il marocchino, il camorrista), i molti che dicono una o due battute (il ragazzo nirə nirə che vende le sigarette di contrabbando, il carcerato latore di messaggi).
Si vorrebbe comprenderli in un grande applauso, di più: abbracciarli tutti e abbracciare, se fosse possibile, la lingua napoletana, la vera fonte di tanta fecondità nel campo del cinema, del teatro, della poesia, della musica popolare, della musica colta, dell’arte in genere. Una lingua che si può definire con una sola parola: meravigliosa.

Chi non ha visto il film e non ama lo spoiler si fermi qui. Mi va di raccontare la breve ripresa successiva ai titoli di coda, una scena divertente che risolve il cruccio del capitano isterico: «Come cazzo fanno a mettere in circolazione la cassetta pirata con le canzoni di Sanremo prima che il Festival sia finito? Ci dev’essere una spia» pensava il capitano, il quale, sicuramente, non credeva ai miracoli che il popolo napoletano, quando ci si mette, riesce a fare come niente fosse.
Il miracolo lo faceva la madre di Enrico: il figlio le aveva piazzato un registratore accanto al televisore; quando le canzoni cominciavano pigiava insieme i tasti play e rec.