5 maggio 2022 h 17.15
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6
Letteratura
// Il ritorno di Casanova (da Schnitzler) // Anton Cechov // La stranezza (Pirandello) // Tromperie (Philip Roth) // Illusioni perdute (Balzac) // Tre piani (Eshkol Nevo) // Pinocchio (articolo) // Il mare non bagna Napoli (Anna Maria Ortese) // Le nostre anime di notte (Kent Haruf) // Martin Eden (Jack London) // Copia originale [Can you ever forgive me?] (dalla autobiografia di Lee Israel) //
Famiglia (mogli, mariti, amanti)
// Settembre // Tromperie // In the mood for love // After love // Drive my car // Otto e mezzo // Illusioni perdute // Cold war // Il filo nascosto // The party // Made in Italy //
(pag. 5) «L’altro giorno l’amichetta di mio marito gli ha fatto un regalo. È un tipo pretenzioso, lei, una di quelle persone possessive e ambiziose.»
La ragazza critica l’amante del marito, che gli ha fatto un regalo pretenzioso (un disco di Franz Schubert), poi dice che vuole fare un viaggio ad Amsterdam con il suo amante, perché c’è una “mostra fantastica”. Non si preoccupa di essere anche lei pretenziosa.
È tutto così Deception di Philip Roth (in francese il titolo del film: Tromperie = inganno, raggiro): conversazioni e contraddizioni, sincerità falsa e bugie vere.
Le conversazioni sono sempre piene di contraddizioni, di verità e di bugie. Un conto è se descrivo una situazione: è il mio punto di vista. Altro conto se riporto le cose che ci siamo detti a riguardo.
Non si riesce mai a finire una frase: l’altro ti interrompe, sposta il discorso su un argomento diverso. Le conversazioni sono sempre un po’ una lotta: quanto più le affermazioni sono perentorie, tanto più assomigliano ai ganci nell’incontro di boxe; servono a distrarre l’attenzione dell’avversario e colpire dall’altra parte.
A meno che il contrasto sia attenuato dalla necessità, dal bisogno, dal desiderio di ridurre la competizione. In questo caso c’è un patto implicito tra i dialoganti (“io sono ok, tu sei ok” direbbero nell’analisi transazionale): si può conversare per ore (anche annoiandosi) senza dire nulla.
Possibile non si possa sfuggire alla gara a chi ce l’ha più lungo (qualunque cosa sia) o alla noia?
Tra pari è difficile sfuggire.
La lezione è un’alternativa, ma richiede il riconoscimento dell’autorevolezza di chi è in cattedra: i guai attuali, nelle scuole e nelle famiglie, sono cominciati quando si è ipotizzata l’abolizione della cattedra (qualcuno l’ha attuata) e ha preso piede – forse divulgata, prima dai telefilm, poi dalle serie televisive – l’espressione “io sono amico/a dei miei figli”. Tu sei il padre/la madre, non sei l’amico/a.
Altra possibilità: l’esperienza religiosa totale dei monaci e delle monache di clausura.
I monaci pregano (mettono in cattedra Dio) o lavorano in silenzio, non conversano.
Thomas Merton, il trappista scrittore (La montagna delle sette balze, 1948) diceva che la più grande delusione, quando si entra in un monastero, è scoprire che qualcuno, dopo anni di vita monastica, continua ad avere il pessimo carattere che aveva prima di essere investito dalla vocazione: è solo diventato più trattabile.
I molti anni di preghiera e di silenzio non servono per l’ascesi: rimani sempre con i piedi saldamente attaccati alla terra (la forza di gravità è quella che è). Come la psicoanalisi, servono ad accettarsi e, di conseguenza, a controllare la spinta ossessiva a imporsi sugli altri.
Inganno, di Philip Roth, è un esperimento di scrittura.
La spiegazione si trova a pag. 49 della traduzione italiana (Ed. Einaudi Super ET), in un dialogo tra Philip e la moglie. Parlano del taccuino in cui lo scrittore annota le sue conversazioni.
«Lo pubblicherai? – Ma naturalmente ci ho pensato.»
«A pubblicarlo così com’è? – Ti ho detto che non lo so. Quest’idea di eliminare tutte le parti espositive che stanno fra un dialogo e l’altro non è male, ma non ho ancora cominciato a esaminare a fondo il problema. Non so davvero cosa ho in mano.»
Lo pubblica. Nessuna descrizione in tutto il libro. Solo, ogni tanto, un gesto, una reazione: “E lo mette giù” (l’assegno), a pag. 121, “una risata”, a pag. 133, e altri piccoli interventi.
Noi philip-rothiani rigorosi avremmo preferito che li avesse eliminati completamente. Se fai un esperimento, dev’essere completo.
Una serie di conversazioni annotate in un taccuino, scambiate principalmente con le amanti – principalmente con un’amante inglese a Londra – prima o dopo l’amore o, con gli altri protagonisti, in altre situazioni.
Chi scrive si chiama Philip, è uno scrittore.
La moglie di Philip si ribella, dopo avere letto, per caso, il taccuino: «penseranno che sei tu; che figura mi fai fare?»
Anche questa conversazione va nel taccuino, poi nel libro.
La fatica di spiegare alla moglie la differenza tra ciò che uno scrittore scrive e ciò che fa: è una verità, ma è anche una bugia, un inganno.
(pag. 141) «Vorrei sapere… no, non è vero, non vorrei sapere un bel niente! – Oh, avanti, ormai ci siamo. Qual è il punto?»
«Tu non vai nel tuo studio a lavorare, tu vai nel tuo studio a scopare! Tu vedi una donna nel tuo studio! – Oh davvero? Tu dici?»
È la moglie di Philip Roth ad avere letto il taccuino e a dire cose patetiche, o è la moglie di Philip, il personaggio del libro?
Lei suggerisce di cambiare il nome del personaggio, di chiamarlo Nathan: si preoccupa di fare una brutta figura.
(pag. 149) «Be’, magari potresti esaminare sul serio il problema, sai. Perché quello che ti ritrovi in mano è il ritratto di un amore adulterino, e, di conseguenza, sarebbe consigliabile eliminare il tuo nome, non ti sembra? “Philip, hai un portacenere?” Potresti cambiarlo in “Nathan”, no?, se dovesse essere pubblicato.»
«Tu pensi? No. Non è Nathan Zuckerman, non è stato concepito come Zuckerman. Il romanzo è Zuckerman. Il taccuino sono io.»
«Mi hai appena detto che non sei tu.»
«No, ti ho detto che sono io nell’immaginazione. È la storia di un’immaginazione che si innamora.»
Noi philip-rothiani sappiamo bene chi è Nathan Zuckerman: l’alter ego dello scrittore in molti dei capolavori di Philip Roth.
Nathan Zuckerman è un personaggio.
Dunque un personaggio di Deception (la moglie di Philip, il redattore del taccuino) sta chiedendo a un altro personaggio (Philip, il redattore del taccuino) di farsi chiamare con il nome del personaggio di molti altri libri.
Che casino!
In tutto questo Philip Roth, lo scrittore in carne e ossa, che cosa fa? (Faceva?). Si diverte. (Si divertiva).
Dare al personaggio il suo nome e il suo lavoro è uno scherzo rivolto a quelli che hanno bisogno di credere che Anna Karenina e Beatrice siano realmente esistite. Saranno anche esistite, ma non sono le donne presenti, una nel romanzo di Tolstoi, l’altra nella Divina Commedia. Credo improbabile che Beatrice Portinari, dopo morta, abbia fatto da guida turistica a Durante Alighieri (detto Dante) alla scoperta delle meraviglie del Paradiso e altrettanto improbabile che l’autore della Divina Commedia abbia fatto, da vivo, un viaggio nell’oltretomba. Uno è il poeta Dante Alighieri, che conosceva a memoria l’Eneide di Virgilio, l’altro è il personaggio Dante Alighieri: anche lui poeta, anche lui conosceva a memoria l’Eneide di Virgilio (guarda la coincidenza!).
Lo scrittore rappresenta un processo contro Philip (Roth?), accusato, estraendo passi e personaggi dai suoi libri, di misoginia, un delitto che prevede le pene più severe.
(pag. 88) «Può spiegare alla corte perché lei odia le donne? – Ma io non le odio.»
«Se lei non odia le donne, perché le ha diffamate e denigrate nei suoi libri? Perché ha abusato di loro nel suo lavoro e nella sua vita?»
«Non ho abusato di loro né nell’uno né nell’altra.»
«Abbiamo udito le deposizioni dei periti, periti che sono stati estremamente circostanziati nel motivare ogni loro giudizio. E tuttavia lei sta cercando, non è vero?, di sostenere davanti alla corte che queste autorità professionalmente al di sopra di ogni dubbio, venute a testimoniare sotto giuramento in una corte di giustizia, sbagliano o mentono? Posso chiederle, signore, cosa ha mai fatto, lei, che sia stato utile alle donne?»
«E io posso chiederle a mia volta perché voi considerate la descrizione di una sola donna come la descrizione di tutte le donne? E perché ritenete che i vostri periti non potrebbero essi stessi venire contraddetti da un diverso gruppo di periti? Perché …»
Tutto questo, e molto altro, è il libro.
E il film?
La parola, messa, da sola, al centro di tutto, funziona alla perfezione in un libro.
Funziona a teatro. Recital di poesie. L’attore dietro a un leggìo – meglio ancora: senza leggìo – evoca parole sublimi. Basta un po’ di espressione (sono insopportabili gli attori che “caricano”, che si sovrappongono al testo), una dizione chiara, contenuta.
Il teatro, ridotto all’essenziale, è questo.
Sei personaggi in cerca di autore potrebbe essere realizzato con il minimo di scenografia e di movimento: i personaggi, evocati, sbucano dal buio.
Analogamente Amleto. Niente torri, spalti, sale del trono; anche il cimitero ridotto al minimo; il teschio evocato (si eviterebbe il ridicolo dei teschi di plastica).
Si potrebbe fare. Si è fatto.
Non si perde nulla.
Basta la parola, come nella vecchia pubblicità del confetto Falqui.
Al cinema non funziona.
Non so bene perché, ma non funziona.
Forse perché ci aspettiamo il contributo delle immagini, del movimento, la costruzione di una trama.
Ci aspettiamo che il profugo cecoslovacco geloso veramente spari, o tenti di farlo.
Due amanti sullo schermo che parlano di tutto, distesi sul tappetino, annoiano. Manca il lavoro che il libro ci costringe a fare: lo scrittore, l’amante, la moglie, l’amica malata, il profugo ceco geloso sono lì e parlano, leggono il libro. Potevamo leggerlo noi.
Ci costringono ad associare i loro volti ai personaggi, senza darci qualcosa in più: il di più che ci aspettiamo al cinema perché non diventi videolibro (audiolibro + video).
Restiamo delusi: la delusione si leggeva sulla faccia dei pochi spettatori, alla fine del film. Ammetto che forse ho proiettato la mia delusione. Cercavo di carpire, inutilmente, le impressioni su quei volti di vecchi professori e professoresse in pensione (questo, secondo me, è lo spettatore tipo di un film che si chiama Tromperie).
Il film è fedele al testo; però nel cinema non è come nei libri, nel teatro e con il confetto Falqui: non basta la parola.
Non è completamente fedele.
Nel libro la ragazza dice: «Mia madre mi ha insegnato a non sedermi mai con la fica in vista».
Nel film Léa Seydoux dice: «Mia madre mi ha insegnato a non sedermi mai con le gambe aperte».
Non so se nella versione francese la frase è la stessa del libro, se l’autocensura è intervenuta nel doppiaggio, ma non credo.
Nel libro ci sono altre frasi più o meno spinte che sono state edulcorate.
Uscì nel 1990 nell’America puritana e benpensante; il film è stato realizzato in Francia nel pieno della pandemia.
Lo scrittore, dovunque, ha goduto di una libertà assai maggiore del regista.
In realtà ci voleva un bel coraggio a essere Philip Roth in quell’America, e, purtroppo, in modi diversi, col conformismo del politicamente corretto imperante, anche ora ci vorrebbe.
Se qualcuno, avente diritto, si dispiace perché ho ricopiato parti del testo dal libro in mio possesso, basta mandarmi una mail: le sostituirò con omissis.