2 febbraio 2022 h 17.00
Cinema Spazio Uno Firenze – via del Sole, 10

Giappone: non solo manga o anime
// Il ragazzo e l’airone // Penguin Highway // True mothers // Drive my car // 5 è il numero perfetto (nel commento: Quaderni giapponesi di Igort) // Mirai // Un affare di famiglia // Mr Long (attore cinese, ambientazione giapponese) // L’isola dei cani (regista americano, ambientazione giapponese) //

Famiglia (mogli, mariti, amanti)
// Settembre // Tromperie // In the mood for love // After love // Drive my car // Otto e mezzo // Illusioni perdute // Cold war // Il filo nascosto // The party // Made in Italy //

Teatro
// Romeo è Giulietta // Sanctuary (impianto teatrale) // Educazione Fisica (da “La palestra” di Giorgio Scianna) // The Whale (dall’omonima pièce teatrale) // Anton Cechov (Il gabbiano) // Grazie ragazzi (S. Beckett: Aspettando Godot) // La Stranezza (Luigi Pirandello: Sei personaggi in cerca d’autore) // Drive my car (Anton Cechov: Zio Vanja) // Il sindaco del rione Sanità (Il teatro di Eduardo) // Conversazione su Tiresia (Andrea Camilleri) // Favola (dalla commedia di Filippo Timi) // The Party (impianto teatrale) //

Tratto dai racconti dello scrittore Haruki Murakami.
Non c’entra nulla con il film, ma il titolo internazionale (non conosco il titolo originale giapponese e non sarei in grado di tradurlo) richiama una canzone dei Beatles, e a me, quando si richiama una canzone dei Beatles, ovunque ciò accada, viene spontaneo canticchiare: «Baby you can drive my car / Yes I’m gonna be a star / Baby you can drive my car / And maybe I’ll love you / Beep peep’m beep peep yeah / Beep peep’m beep peep yeah».

Il racconto si svolge in Giappone: saluti cerimoniosi ma contenuti, con il collo piegato, la testa portata avanti, gli occhi bassi, il resto del corpo diritto; autocontrollo in ogni situazione, lineamenti del volto immobili anche quando si vorrebbe scoppiare; nei riti funebri nessun pianto dirotto, solo un accenno di commozione; bastoncini e piccoli piatti contenenti poca roba, apparentemente vegetale.
Per il resto il film potrebbe essere stato girato in una qualunque città europea. Ormai (nessuna sfumatura di rimpianto, solo la constatazione di un fatto) si vive dappertutto allo stesso modo in determinati ambienti: gli stessi supermercati, parcheggi, svincoli autostradali, automobili, alberghi, tablet e smartphone su cui si fanno le stesse telefonate guardandosi negli occhi (telefonate che non impediscono di morire da soli), gli stessi letti e, nelle scene finali, che si svolgono nel 2020, le stesse mascherine FFP2.
A proposito: è il primo film, tra quelli che ho visto recentemente, in cui la pandemia entra in scena. Nella parte finale serve allo spettatore per orientarsi sull’asse dei tempi. Anziché scrivere: “Sono passati alcuni anni, siamo arrivati al 2020”, il regista inserisce uno stacco e fa vedere una scena che è molto facile collocare nel tempo: i clienti del supermercato hanno la mascherina.
Fra molti anni uno studente chiederà, durante una lezione di cinema: «Perché il regista fa indossare quelle buffe mascherine ai clienti del supermercato? Questa scelta ha un significato?». Il professore spiegherà il significato o ne inventerà uno, come solitamente fanno i professori.

Sarà interessante, nei prossimi film, vedere come il regista ha rappresentato il corteggiamento, l’amore, la commedia, il thriller, l’horror, il comico, in tempo di pandemia: gli zombi con la mascherina; i killer che disinfettano le pistole; gli innamorati, prima di baciarsi, si fanno il tampone. Nel poliziesco il commissario ricostruisce un delitto commesso utilizzando come arma il covid: il presunto assassino si è vaccinato e infettato, poi si è seduto al cinema nella poltrona accanto alla vittima novax, senza rispettare la distanza, e ogni tanto le soffiava sul viso, abbassando la mascherina: «Scusi, sa l’ora?». Testimoni: uno spettatore infastidito e la maschera del cinema, intervenuta per far cambiare di posto al presunto assassino. Troppo tardi.

I film si chiamano tra loro (non sono impazzito, è solo un modo di dire).
Fellini 8½, che ho rivisto la settimana scorsa in versione restaurata al cinema Arsenale di Pisa, ha chiamato Drive my car di Ryusuke Hamaguchi, che ho visto questa settimana al cinema Spazio Uno di Firenze.
I due film si assomigliano molto; anche le due sale: soprattutto quando ci sono dentro gli spettatori, che sembrano gli stessi. Forse sono gli stessi. Almeno uno.
È diverso l’ambiente (mi riferisco ai film, non alle sale) quanto può essere diversa Roma anni sessanta e dintorni (fino a Chianciano e a Ostia) da una città altamente tecnologica e dal nome fortemente evocativo di una tragedia: Hiroshima, nell’isola giapponese di Honshu, a partire da una diecina di anni fa.

In Drive my car la tragedia di Hiroshima e Nagasaki non entra per nulla, come non entrava, nella Roma di Fellini, la tragedia collettiva vissuta dalla città fino a una ventina di anni prima.

Guido Anselmi (Federico Fellini) è regista e sceneggiatore e deve realizzare un film, ma non trova l’ispirazione: è confuso nella vita e nell’arte.
Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), il protagonista di Drive my car, è un attore di teatro e regista e ogni giorno si confronta con la parola attraverso, prima, Aspettando Godot, poi, nella seconda parte, Zio Vanja di Anton Cechov.
È necessario, per entrare meglio nella storia raccontata, ripassare questo dramma, almeno i personaggi, le situazioni, le battute principali.

Qui c’è una grande invenzione, che fa capire come un classico travalichi il tempo e lo spazio.
Un dramma di Cechov, rappresentato a teatro, costringe, per cogliere il nocciolo, a superare tante cose: la difficoltà di trovare un parcheggio dove lasciare la macchina fino a ora tarda; la noia iniziale dei costumi d’epoca, che aumentano la distanza tra il testo e noi – poi ci si abitua; le traduzioni legnose che denunciano il tentativo di rendere in una lingua italiana un po’ strana le espressioni tipiche della lingua originale; gli attori che gigioneggiano; le attrici che emettono dieci sospiri tra una frase e l’altra e s’ispirano a Eleonora Duse (è evidente che mi riferisco a esperienze remote). Non sono testi a cui ci si avvicina facilmente.
Eppure, basta un’invenzione, come in questo film, perché il nocciolo venga fuori.
Il nocciolo è ciò che rende un dramma, nato in una situazione culturale lontana, meritevole di essere rappresentato – superando le barriere spaziali, linguistiche e temporali – per scoprire che un testo classico è contemporaneamente antico e moderno, simultaneamente russo fine ottocento, italiano e giapponese attuali.

L’invenzione è la seguente: gli attori recitano nella propria lingua (giapponese, cinese, coreano, altre lingue asiatiche). Ciascuno non comprende la lingua degli altri, o comprende solo alcuni altri interpreti.

Com’è possibile!?
Si può fare.

È necessaria una lunga preparazione sul testo, è necessario ripeterlo tante volte fino a che fluisca in modo naturale nella testa, prima ancora che sulle labbra. Gli attori devono conoscere bene la propria parte, ma anche le altre, tutte le battute; e ripetere, ripetere, ripetere.

Ogni giorno ci si prepara sedendosi intorno a un tavolo: gli attori hanno davanti il foglio con le battute proprie e quelle degli altri, scritte nella lingua che conoscono. Quando un attore ha concluso la propria battuta dà un colpetto con le nocche sul tavolo, cosicché l’altro/a sappia che tocca a lui, o a lei.
Tra gli attori c’è una donna muta (non sorda), che si esprime con il linguaggio dei segni. Anche lei recita la sua battuta, con le dita, con il viso, con il corpo, e batte con le nocche sul tavolo quando è conclusa.
Questo esercizio, ripetuto tante volte, dà agli attori la necessaria scioltezza; quando il discorso è diventato fluido, si aggiunge il movimento, prima nel giardino accanto alla sala prove, poi sul palcoscenico. Alla fine si va davanti al pubblico.

E il pubblico? Come fanno, gli spettatori di Hiroshima, a capire, dal momento che solo alcuni attori recitano in giapponese, alcuni parlano cinese mandarino, altri coreano o altre lingue asiatiche, un’attrice utilizza il linguaggio dei segni?
Sul palcoscenico uno schermo riporta la traduzione simultanea del testo in diverse lingue, in modo che il significato delle battute sia chiaro per tutti.
Teatro classico con l’ausilio della tecnologia: artificio inserito con naturalezza nell’arte, che è un artificio (il teatro lo è in modo evidente).

Si verifica la magia della comunicazione, in teatro ma anche nel film, nella parte dedicata alla costruzione dello spettacolo e alla visione di alcune scene sul palcoscenico.
Ci emozioniamo quando Sonja, la luce nel buio di un dramma oscuro, interpretata dalla giovane muta, dice, muovendo le mani per comporre le parole: «Bisogna vivere! Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga, lunga sequela di giorni e di interminabili sere; affronteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà, adesso e in vecchiaia, senza conoscere riposo. E quando verrà la nostra ora, moriremo rassegnati e là, nell’oltretomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che abbiamo conosciuto l’amarezza, e Dio avrà pietà di noi; tu e io, zio, caro zio, vedremo una vita luminosa, meravigliosa, splendente; noi ci rallegreremo e, commossi, ci volteremo a guardare le sciagure di oggi con un sorriso, e riposeremo. Io credo, zio, credo ardentemente, appassionatamente … Riposeremo! (Telegin suona sommessamente la chitarra) Riposeremo! Sentiremo gli angeli, vedremo il cielo cosparso di diamanti, vedremo tutto il male della terra, tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che colmerà di sé il mondo, e la nostra vita diverrà quieta, tenera, dolce come una carezza. Io credo, credo … (Gli asciuga le lacrime con un fazzoletto). Povero, povero zio Vanja, tu piangi … (Tra le lacrime) Non hai conosciuto gioia nella tua vita, ma aspetta, zio Vanja, aspetta … Riposeremo … (Lo abbraccia). Riposeremo!».

Questo esperimento, svolto in un teatro di Hiroshima, occupa la seconda parte del film e corre parallelamente al dramma del regista: il rapporto con la moglie Oto (Reika Kirishima).
Non sto raccontando il film in modo lineare, ma non importa: Drive my car dura tre ore e non si racconta facilmente, esattamente come non si racconta facilmente Fellini 8½.

Un lungo incipit dura quaranta dei centottanta minuti complessivi.
Facciamo la conoscenza di Yusuke Kafuku, attore di teatro e regista, sposato con Oto. La coppia, anni fa, ha perduto la figlia quando era bambina, poi la donna non ha voluto più figli.
I due sono molto legati emotivamente, sembra che abbiano una perfetta intesa.
All’inizio e nel corso del rapporto sessuale lei inventa una storia, che poi scrive, sviluppa, propone ai teatri. Una storia inventata mentre fa sesso. Oto è diventata un’importante sceneggiatrice.
Marito e moglie sono molto legati, ma lui sa che Oto ha rapporti sessuali con gli attori che incontra nel corso della sua attività.
Kafuku preferisce fingere di non sapere che la moglie lo tradisce, non vuole rompere l’equilibrio che si è stabilito tra loro; preferisce fare come nulla fosse, anche dopo averla vista, casualmente, impegnata in un rapporto sessuale con un giovane attore molto popolare, una star televisiva: Koji.
Koji è troppo impulsivo per essere giapponese: si metterà nei guai.
Quando si sposta per andare e venire dal teatro, Kafuku ama guidare la sua macchina, una vecchia Saab 900 rossa tenuta bene; fa partire una cassetta registrata e ripassa il testo che sta interpretando. Oto prepara le cassette, la sua voce registrata gli porge le battute. Nel regno dell’alta tecnologia, Kafuku non si è aggiornato: usa le cassette, il mangianastri; nell’ultima scena vediamo ancora la Saab, tenuta in modo impeccabile (se vedesse la mia macchina mi denuncerebbe).

Kafuku spiegherà che l’esercizio, la ripetizione, è essenziale per il suo lavoro di attore e di regista. Un testo va ripetuto e ripetuto tante volte fino a che la mente se ne impossessi totalmente: solo allora Cechov ti comunica il nocciolo di ciò che voleva dirti, di ciò che lo ha spinto a scrivere, e si scavalca il tempo, lo spazio, la lingua.

Oto, rimasta sola in casa, muore per emorragia cerebrale. Sono passati quaranta minuti dall’inizio del film.
Fine dell’incipit. Titoli di testa.

Kafuku si ritrova solo; continua a lavorare; passa qualche anno; accetta un contratto con un teatro di Hiroshima per il lavoro sperimentale che ho descritto all’inizio: la rappresentazione teatrale di Zio Vanja di Anton Cechov con attori che non parlano la stessa lingua.
Molti attori partecipano ai provini. Tra questi Koji, il giovane che il regista aveva visto impegnato in un rapporto con la moglie pochi giorni prima che morisse.
Kafuku gli dà la parte principale, quella, appunto, di zio Vanja.
Il regista ama viaggiare nella sua macchina rossa in quanto, durante il viaggio, ha modo di fare l’esercizio di cui si diceva: ripassare i testi utilizzando le cassette preparate da Oto.
Ha chiesto alla direzione del teatro di soggiornare in un albergo distante un’ora di macchina dal luogo dove si svolgono le prove, appunto con l’intenzione di esercitarsi.
La direzione del teatro lo accontenta, ma, per problemi legati all’assicurazione, gli impone di utilizzare un autista.
Kafuku rifiuta questa soluzione perché teme che la presenza di un estraneo ostacoli la sua concentrazione; poi, dopo una prova, accetta l’autista.

Si tratta di una ragazza, Misaki Watari (come mi piace scrivere i nomi giapponesi!), molto brava nella guida. Elogiata da Kafuku per il suo modo di guidare, spiegherà che cosa l’ha spinta a imparare: i calci della madre, che Misaki accompagnava in macchina avanti e indietro, a prendere il treno dal suo paesino sperduto in montagna. Se la madre si svegliava durante il viaggio per un’accelerazione improvvisa o una frenata, se la prendeva con Misaki e, a casa, la picchiava.

La ragazza ha alle spalle una storia pesante, triste. Sono poche le scene in cui la vediamo sorridere, forse solo quando accarezza un bellissimo cane (nota: prima o poi dovrò procurarmi un cane giapponese).

Intanto il rapporto tra Kafuku e Koji si complica.
Koji era realmente innamorato di Oto e si sente inadeguato a interpretare il personaggio di zio Vanja, che il regista gli ha assegnato.
Nel corso di un colloquio da lui richiesto, Koji rivela la conclusione dell’ultimo racconto di Oto, di cui Kafuku conosceva solo una parte.
La conclusione contiene la rappresentazione simbolica di un fatto reale: un coagulo presente nell’occhio sinistro di Kafuku, vicino al nervo ottico, che potrebbe portarlo, in futuro, alla cecità.
Il regista è scioccato dal racconto di Oto rivelato da Koji: un uomo viene ucciso da una donna colpendolo nell’occhio sinistro. Nonostante la tempesta interna, Kafuku ascolta senza muovere un muscolo del volto.

Perfetto autocontrollo dell’uno, eccessiva impulsività dell’altro: Koji picchia un giovane che gli ha fatto una foto di nascosto (è una star televisiva), si mette in un guaio e deve interrompere la sua partecipazione al progetto teatrale.
Kafuku è costretto a prendere su di sé il ruolo di zio Vanja, nonostante lo sforzo enorme che gli comporta.

Il rapporto con l’autista Misaki volge al meglio in quanto nelle ore che trascorrono nello spazio ristretto dell’automobile, con lui impegnato a ripetere le battute sotto la guida della cassetta registrata, poi andando insieme a fare una passeggiata, partecipando a una cena in casa di una coppia straordinaria, si aprono e ciascuno rivela all’altro (o all’altra) il problema esistenziale da cui è angosciato.

Non vado avanti nel racconto perché è complicato (il film dura tre ore); sono sicuro che chi ha letto finora, ma anche meno, anche solo l’inizio (la descrizione dell’esperimento teatrale), avrà una gran voglia di distendersi in una poltrona di una sala cinematografica simile all’Arsenale di Pisa, allo Spazio Uno di Firenze, al Modernissimo di Napoli, per vedere questo film. Uno dei più interessanti che ho visto quest’anno.
Mi è venuto spontaneo pensare a Fellini 8½; è come se i due film si fossero chiamati. Non sono impazzito: è solo un modo di dire.