11 maggio 2022 h 18.30
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

I vecchi
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Famiglia (mogli, mariti, amanti)
// Settembre // Tromperie // In the mood for love // After love // Drive my car // Otto e mezzo // Illusioni perdute // Cold war // Il filo nascosto // The party // Made in Italy //

Su Instagram writing.monkeys – un profilo molto interessante che si occupa di sceneggiature – introduce il concetto di rimonta esaminando la sceneggiatura di Settembre, regia di Giulia Louise Steigerwalt.
Scrive writing.monkeys: la rimonta è quella situazione, quell’oggetto, quella frase che viene posta in un momento del film e poi ci torna utile in un momento futuro.
Per esemplificare il concetto, riferendosi a Settembre, concentriamoci su due scene: in una si parla di una lattina di tè freddo, nell’altra è presente uno di quei piccoli tetrapack monodose, muniti di cannuccia, contenente un succo di pera.
Il vecchio medico solitario racconta a Francesca un gesto da cui, secondo lui, iniziò la crisi del suo matrimonio.
Una volta era insieme alla moglie, faceva caldo e aveva sete. Comprò una lattina di tè freddo e la bevve senza chiedere alla moglie se volesse qualcosa.
Da questo gesto, da questo segno di egoismo e di indifferenza nei confronti di lei, cominciò la crisi del suo matrimonio.
Francesca, che è in dubbio riguardo al proprio matrimonio, ripensa a questo racconto quando, nella sala d’aspetto del pronto soccorso, il marito compra un succo di pera in una confezione monodose, estraendola dalla macchinetta distributrice.
Avrebbe potuto chiederle: «Vuoi qualcosa?». Non lo fa. Al marito non passa per la mente di preoccuparsi delle esigenze di Francesca (non se ne preoccupa mai): beve il suo succo e produce, per giunta, il risucchio (tipico di chi non s’importa di essere fastidioso).
Questa, dice writing.monkeys, è la rimonta, o planting: l’atteggiamento del marito di Francesca richiama il discorso del dottore, per cui lei capisce: è finita.
Secondo me in questo film c’è una rimonta più evidente, riferita non tanto alle parole quanto ai gesti e, più precisamente, ai suoni.
Il film inizia con i rumori che il marito produce dormendo e, in seguito, mangiando. I rumori prodotti dal corpo quando si dorme non sono sotto il nostro controllo. Controllare i rumori emessi quando si mangia è un fatto di buona educazione: si nota subito quando sono involontari o lasciati andare con soddisfazione infantile, alla faccia di chi non vuole sentirli.
Ho pensato subito che questi rumori sarebbero tornati quando, finalmente, Francesca si fosse decisa a tirargli un calcio nel sedere. L’atteggiamento ripetuto del marito le fa capire che il matrimonio è finito.
Secondo me ci ha messo troppo a capirlo: uno (o una) che fa il risucchio mangiando o bevendo non può avere un rapporto “eterno” con un’altra persona (inteso come legame di amorosi sensi tra due persone adulte); si può compatire se lo fa una persona anziana che non si rende conto, può essere divertente se lo fa un bambino, ma un uomo o una donna adulta … suvvia! … meglio perderlo/a che trovarlo/a.

Certamente ci sono in giro matrimoni come quelli descritti nel film, basati sulla sopportazione: uno dei due sopporta l’altro o ci si sopporta a vicenda. La pigrizia, la mancanza di occasioni, la paura del cambiamento, i ricordi di un’altra epoca (quando ci sono), spingono a tirare avanti, chiudendo un occhio o entrambi gli occhi (a tavola le orecchie). Ci sono donne disposte a subire l’indifferenza dei mariti pur di non rompere un legame comodo. Lo stesso discorso si può fare a parti invertite.

Il film mi ricorda Favolacce.
È un elogio: ho apprezzato il film dei fratelli D’Innocenzo, pur evidenziandone, nel commento su questo sito, alcuni limiti.
È Favolacce senza i difetti e con un finale improntato all’ottimismo, almeno l’ottimismo della speranza: davanti a tutti i protagonisti sembrano aprirsi nuove possibilità di una vita più allegra, meno deprimente.

Le due donne riescono, finalmente, a liberarsi dei due trogloditi, facendosi forza con il legame tra di loro che la crisi ha portato alla superficie.
Il vecchio dottore capisce che alla sua età con una ragazza diciottenne, bella, intelligente, si può stabilire un rapporto di affetto paterno (infatti alla fine, in sostanza, la adotta), non si può pensare ad altri tipi di legame.
Quando lui le prende la mano, lei lo guarda negli occhi e gli dice: «ma sei vecchio!». Questa scena ricorda la ragazza che nel film Loro di Paolo Sorrentino dice a Berlusconi, guardandolo negli occhi: «sei vecchio, hai l’odore di mio nonno».
Queste figure di merda le fanno quelli che non hanno il senso della realtà e s’illudono di essere sempre giovani, come il dottore che s’innamora della prostituta troppo giovane per lui (non ci sarebbe niente di male se fosse più adulta) e il vecchio imprenditore traffichino che si passa l’asfalto sulla testa ogni mattina.

Triste, squallida, la lezione di educazione sessuale che la ragazzina riceve “per dovere” dal ragazzino di poco più grande che ha imparato tutto dal cugino “esperto” e ha gli stessi problemi di lei, ma li nasconde.
I genitori pensano al cappottino e alla bicicletta, ma, sull’argomento che più preme a quell’età, i ragazzini sono abbandonati come eravamo abbandonati noi. I nostri genitori avevano una giustificazione: erano ignoranti, ne sapevano meno di noi che non sapevamo nulla, avevano la testa piena di pregiudizi. Il poco di scuola bigotta che avevano subìto (la maestra, il confessore) era riuscita a conficcare nel loro cervello solo vaghe paure. Per loro il corpo era un mistero. Con tutta la buona volontà non avrebbero saputo insegnarci niente.

I genitori di oggi non sono ignoranti come erano i nostri (in realtà lo sono molto di più), hanno fatto la scuola dell’obbligo, hanno preso il diploma o la laurea, vanno a perdere tempo in quella pletora di uffici dove per fare una cosa servono tre impiegati, hanno il computer e lo smartphone, guardano la televisione: partite di calcio e serie, qualche talk show (solo se ci sono delle belle litigate), ogni tanto un film (raramente al cinema; quando ci vanno è per mangiare popcorn e dire agli amici «hai visto l’ultimo film di …?»). Naturalmente questo quadro catastrofico si riferisce a una parte dei genitori di oggi, a una parte della società: ognuno giudichi quanto diffusa.

I genitori dei bambini di oggi conoscono più cose, rispetto a quel poco che conoscevano i nostri.
Il problema è che sono egoisti (sempre di una parte sto parlando), pensano solo a se stessi, ma il loro egoismo è rudimentale, impreciso, inefficiente: non riescono nemmeno a fare il proprio bene, nonostante si considerino al centro del mondo. Vivono in modo disordinato (quelli del film e molti nella realtà): il pokerino la sera, l’appuntamento con l’amante, la camicia sporca buttata per terra, tanto ci pensa la moglie. I figli sono soli (una volta c’erano i fratelli, le sorelle, ora c’è solo l’amica un po’ scema e il cugino “esperto”). La scuola dà qualcosa: la lezione tenuta dalla dottoressa, qualche schema, qualche disegno per spiegare l’ovulazione, gli spermatozoi … . Meglio di niente, ma è poco!
Toccherebbe ai genitori.

Il padre pensa: «Il ragazzino? Impari da solo, come ho fatto io, dagli amici, dal cugino, dai siti porno. Basta che non diventi omosessuale». «La ragazzina? Ci penserà la madre, le amiche, i siti porno. Come si è sempre fatto» (prima c’erano i giornalini).

La madre pensa: «Il ragazzino? Ci avrà pensato il padre per quel poco necessario. I maschi non hanno bisogno di educazione sessuale, se la fanno tra di loro». «La ragazzina? Superato il problema delle mestruazioni, mi pare che basti … no?»

Risultato: i ragazzi sono molto più soli oggi di ieri, e, riguardo al corpo, più ignoranti di noi alla loro età. Potrei sbagliarmi: non sono un sociologo, non parlo di tutti; ricavo le mie opinioni dall’esperienza di una piccola parte di mondo, che assomiglia al mondo rappresentato nel film.
Questo è il bello del cinema: come la letteratura, rappresenta la vita in modo palpabile, attraverso storie inventate. Sono personaggi, ma sono reali come i nostri vicini di casa: il panettiere con la faccia simpatica, sorridente; la ragazza straniera che va a messa di mattina per cercare conforto per ciò che è costretta a fare di sera; la donna terrorizzata da un sistema sanitario che chiede sempre di aspettare, di avere pazienza (se no che paziente è? – direbbe Totò); il vecchio che si attarda sul water e telefona: farò tardi, è successo un imprevisto; i due trogloditi che speriamo di non trovare tra i vicini o tra i parenti.

Non si può concludere il commento senza sottolineare la bravura degli attori e della regista che li ha diretti.

Che dire di Fabrizio Bentivoglio? Ha una specie di aureola intorno alla testa: quando entra in scena non si può fare a meno di seguire i suoi occhi, di guardare il suo volto, la sua espressione. Senza parlare, o parlando poco, comunica l’infelicità del personaggio che interpreta. Con un’occhiata ci dice il tipo di considerazione che il dottore ha nei confronti dell’assistente dello studio medico: capiamo subito che lo ritiene un incapace. Durante il pranzo con i figli gli basta guardare davanti a sé e, alla fine, alzare il calice per il brindisi, senza dire una parola, per farci capire quanto è solo, anche in quella situazione apparentemente di festa.

Non sono da meno gli altri attori: andrebbero citati tutti, uno per uno. Provo a citarne alcuni: Barbara Ronchi e Thony (le due amiche del cuore), Tesa Litvan e Enrico Borello (i due giovani innamorati, la prostituta e il fornaio), i ragazzini, diretti con grande precisione.
La precisione, ecco, questo è uno dei pregi di questa giovane regista, non il meno importante.