4 marzo 2024 h 17.40
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto
Napoli e dintorni
// Caracas // Mixed by Erry // Il buco in testa // Come prima // Nostalgia // È stata la mano di Dio // Il bambino nascosto // Ariaferma // Qui rido io // Il mare non bagna Napoli (libro) // Il sindaco del rione Sanità // Martin Eden // 5 è il numero perfetto // La paranza dei bambini // Il vizio della speranza // Achille Tarallo // Cinema Moderno (articolo) // Una festa esagerata // Napoli velata //
“«Era vestita in maniera sgargiante, come immagino si vestano le ragazze del suo paese quando vanno a una festa: un tripudio di raso e cotone, di rosso e di verde, il petto coperto da collane con pendagli e amuleti»”.
È una piccola parte di un lungo discorso riportato da Ermanno Rea da pagina 44 a pagina 46 del libro Napoli Ferrovia (Feltrinelli Editore) da cui Marco D’Amore ha tratto il film Caracas.
Parla lo sbandato cinquantenne, ex naziskin, deciso a convertirsi all’Islam per soddisfare il suo bisogno di assoluto. I suoi amici lo chiamano Caracas – sicuramente, dico io, mettono l’accento sull’ultima sillaba e sfruttano a scopo umoristico l’assonanza con “cacacàzz” – perché da bambino era arrivato dal Venezuela a Napoli insieme alla madre. Il padre, rimasto in Venezuela, è scomparso dalla sua vita.
La ricerca della figura paterna è il tema dominante del libro; Caracas la trova negli ideali e in due persone: il precettore musulmano e lo scrittore tornato a Napoli dopo tanti anni e desideroso di conoscere la parte oscura della città. Lo protegge dove c’è pericolo e lo sorregge dove, a ottant’anni, rischia di cadere sul selciato sconnesso.
Mi domando come sia possibile che questo napoletano, abitante della giungla di vicoli e palazzoni che circonda la stazione Garibaldi (siamo nei primi anni 2000), utilizzi nella conversazione le parole “sgargiante”, “tripudio”, “pendagli” e altre che sarebbero improbabili nell’eloquio di un giovane fiorentino dimorante nei paraggi di Santa Maria Novella. A maggior ragione sono improbabili nel suo.
È lo stile di Ermanno Rea. Tutti i personaggi parlano come lui, giornalista e scrittore raffinato, napoletano ma vissuto per molti anni lontano da Napoli e divorato dalla nostalgia (dal libro “Nostalgia” Mario Martone ha tratto un film che ho commentato sul mio sito).
Non è un racconto con pretese di realismo, anche se qua e là affiorano i ricordi vividi di luoghi e di volti. I luoghi della giovinezza, i volti degli amici scomparsi. Vediamo Enzo Striano, giovane studente e collaboratore de “l’Unità”, coetaneo di Ermanno. Nel 1986, l’anno prima della morte, a sessant’anni, fu pubblicato il suo libro fondamentale, “Il resto di niente”, un romanzo storico sulla rivoluzione partenopea del 1799. Impossibile non innamorarsi di questo libro e di Eleonora Pimentel Fonseca; impossibile non piangere su una sconfitta che ha segnato la nostra storia (come sarebbero andate le cose se la rivoluzione giacobina fosse riuscita a conquistare il popolo del Sud? Avremmo avuto un Garibaldi meridionale che con mille coraggiosi risalisse la penisola per fare una federazione di repubbliche?). Per anni i due amici, Enzo e Ermanno, si erano accompagnati in lunghe passeggiate notturne dopo il lavoro al giornale. Poi si persero di vista, fino a quando Ermanno telefonò a Enzo per fargli i complimenti per il capolavoro pubblicato. Scoprì che l’amico era morto da poco.
Dal buio del passato emerge con ritrosia il volto di Luigi Incoronato, partigiano, poeta, autore di un bellissimo romanzo breve: “Scala a San Potito”. Luigi morì suicida nel 1967.
Sono scrittori che vale la pena ritrovare per conoscere un periodo fecondo della cultura napoletana: il lungo, lunghissimo dopoguerra, che arrivò quasi alle soglie del duemila (si può dire che il dopoguerra sia finito quando abbiamo sostituito nei nostri pensieri e nelle tasche la lira con l’euro).
La giungla multietnica di Napoli Ferrovia, la zona della città chiusa tra vicoli scuri luccicanti di acqua piovana, è più violenta della giungla di Gomorra. Non c’è una gioventù alla ricerca della ricchezza che i vecchi camorristi e le nuove generazioni sempre in guerra riuscivano a garantire (insieme a una fine anonima tra sacchi di immondizia); la gioventù di Napoli Ferrovia cerca il padre e lo trova nella patria, nel duce, nello scrittore giapponese Nishima o in Allah: entità lontane nel tempo e nello spazio, a cui attribuire l’assoluto, l’eterno, la perfezione.
È una Napoli lontana da Eduardo, soprattutto per estrazione sociale, ma anche lontana da Raffaele Viviani, perché il sottoproletariato urbano non è più lo stesso dei tempi di Viviani e non è il sottoproletariato cafone di cui si occupa il quasi omonimo Domenico Rea, autore di Ninfa Plebea. Il sesso allegro è stato sostituito da un lavoro squallido alla catena di montaggio della prostituzione: «dove son finiti / i tempi di una volta / per Giunone! / quando ci voleva / per fare il mestiere / anche un po’ di vocazione!» (Fabrizio De André).
Il libro è uscito nel 2007; Ermanno Rea aveva ottant’anni. In seguito ha pubblicato altri libri, soprattutto raccolte di fotografie. È morto nel 2016, vecchissimo, come un personaggio biblico, forse “sazio della vita”.
Racconta il suo incontro con Caracas quando accettò un lavoro fisso a Napoli, dopo anni di assenza.
Pag.16: “Quando lo conobbi, ero tornato da poco a Napoli dopo un’assenza durata all’incirca un cinquantennio. Non che non avessi più sfiorato i suoi marciapiedi. Anzi, di falsi ritorni ce n’erano stati parecchi, ma tutti fugacissimi e nevrotici: un abbraccio a qualcuno, e via; una lacrima appresso a un’esequie, e via; uno sguardo al mare, e via. Con la testa invariabilmente abbassata sul petto e un che di furtivo, di colpevole e impaziente nei movimenti. Cinquant’anni sono tanti, una vita. Perché me ne andai? Caracas sorride. «Se non lo sai tu!».”
Un giovane napoletano avrebbe detto: «Si nun’ossajətu!».
Dunque mettiamoci in testa: i personaggi del libro sono tutti lo scrittore; ognuno rappresenta una parte della sua personalità, compresi i naziskin (lui che era stato comunista), la ricerca dell’assoluto (lui che aveva il culto della ragione), i musulmani (lui che apparteneva a un’epoca in cui l’Islam se ne stava a casa sua e da noi si guardava al Cristianesimo con allegro distacco), le prostitute (lui che era stato educato al pudore e al rispetto del corpo).
Il libro è complesso, costruito su tre piani: i flash prodotti dai brevi ritorni, la nostalgia di un tempo scomparso, le visioni di un uomo anziano al limite dell’Alzheimer. Per rendere questa complessità è venuto fuori un film ancora più complicato.
Nella lettura del libro siamo aiutati dal Virgilio che parla in prima persona e dà ordine a un racconto a tratti caotico. La guida viene meno nel film, perché il cinema funziona in un altro modo: lo sguardo è sempre in terza persona. Al cinema vediamo una terza persona che guarda, tranne nella tecnica di ripresa detta soggettiva; in questo caso lo spettatore assume il punto di vista del personaggio e le persone si riducono a due: noi e il mondo intorno che ci tira pugni in faccia, riferendosi a “Toro scatenato” di Martin Scorsese.
La sceneggiatura è ridotta al minimo, il film è fatto quasi solo di immagini (il libro è pieno di dialoghi). Alcune svolte del racconto ci lasciano troppo soli a domandarci: che sta succedendo?
Mancano i collegamenti tra sequenze molto belle, interpretate da grandi attori, a cominciare da Toni Servillo. Marco D’Amore è spericolato nel sottrarsi a un racconto lineare che avrebbe agevolato lo spettatore nella lettura. Forse cerca di rendere lo stile del libro: non sempre l’operazione riesce.
È spiazzante la lunga sequenza in cui lo scrittore decide di dare ai muschilli (una volta si sarebbero chiamati scugnizzi) la possibilità di godere dei suoi privilegi offrendo loro da mangiare e facendoli entrare di nascosto nell’albergo. È una scena comica, paradossale, inquietante. È vero che omnia munda mundis, però in questo brutto mondo il vecchio ricco sembra alla ricerca dei ragazzini.
Per cinque minuti (al cinema un’eternità) siamo a disagio. Poi c’è la soluzione: lo scrittore è rimasto per giorni chiuso nella sua camera, tanto da suscitare le preoccupazioni del concierge. Il gioco con i ragazzini di strada è avvenuto nella sua mente, quasi persa.
In una scena drammatica lo scrittore, turbato, vaga nei corridoi, non riesce a trovare la sua camera. Ha perso l’orientamento. Spinge una porta e si trova nella casa antica, davanti alla sua libreria, davanti alla scrivania dove, in un tempo passato, ha trascorso ore, davanti ai suoi libri che accarezza con affetto. Viene un groppo in gola.
Sì, però … troppe porte si aprono misteriosamente.
Un’altra volta si trova nella camera oscura analogica (Ermanno Rea è stato fotografo) con la luce rossa e le fotografie appese ad asciugare come si faceva quando si sviluppavano nelle vaschette, si fissavano, si lavavano, si appendevano. Sono scene belle, emozionanti.
Sì, però … alcune porte hanno bisogno di una mano di vernice (si fa per ridere).
Il racconto diventa difficile da interpretare quando interviene il rapporto con gli altri personaggi della memoria, soprattutto con Caracas, sfuggente e multiforme, nonché dotato di una parrucca a volte evidente (guardiamo con curiosità, forse perché siamo abituati a vedere Marco D’Amore con la testa rasata; la parrucca ci distrae).
Molte sequenze, prese singolarmente, catturano e ci lasciano lo stupore per la bravura del regista e degli attori. Manca la guida, che nel libro è svolta dallo scrittore.
Il grande maestro Giordano Fonte, apprezzato da tutti, tornato a Napoli è accolto in un albergo di lusso con tutti gli onori, nei confronti dei quali dimostra un fastidio che rasenta il disprezzo e la cattiva educazione (a Napoli si dice scostumatezza). Conoscendo i napoletani, nella realtà il maestro sarebbe immediatamente buttato giù dalla cattedra e ricambiato con lazzi e pernacchie decorative.
Lo vediamo inseguire in un labirinto di vicoli uno scugnizzo (uno dei muschilli) che gli ha portato via la borsa con i fogli sui quali dattiloscrive un nuovo romanzo, nonostante abbia dichiarato di non voler più scrivere. Anche questa dichiarazione sarebbe accolta, nella realtà, con una serie di pernacchie dal significato evidente: sei un maestro, un nuovo Gustave Flaubert, ti ammiriamo per ciò che hai scritto finora, non per ciò che potresti scrivere. In altri termini: se ti fermi ce ne faremo una ragione. A Napoli è molto facile essere buttati giù dalle cattedre, come essere buttati giù dai troni (san Gennaro e De Laurentis ne sanno qualcosa), salvo poi consentire a chiunque di risalire in cattedra o in trono con la stessa facilità.
A Napoli è tutto un saliscendi, non solo delle strade.
Ultima notazione positiva: la bellissima scena dell’orfanotrofio. La macchina da presa si ferma sui vecchi tavoli, sui corridoi, sui letti degli orfanelli. La governante rimasta sola, che ha lo sguardo e la voce uguali a Pupella Maggio, la nostra indimenticabile Pupella Maggio, racconta la vita che si svolgeva in quel posto: «Qualcuno di quei ragazzi, appena sveglio, veniva da me a prendere un po’ di caffè caldo. Era il nostro segreto». Come ci manca la dolcezza delle vecchie signore!