20 ottobre 2021 h 18.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

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A questo film manca qualcosa.
Immagini drammatiche.
Non ho esperienza di carceri attuali. Mi domando: possibile che siano così?
No, no, un momento! La storia si svolge in un vecchio carcere che sta per essere abbandonato. Le celle, i letti, i servizi (poco) igienici, la cucina, i muri, i corridoi, i cancelli non sono attuali.
Però, che tristezza! Credevamo di vivere in un paese civile e mettevamo uomini e donne colpevoli (alcuni innocenti in attesa di giudizio) nelle condizioni disumane rappresentate nel film. Forse, in parte, li mettiamo ancora.
Anche se ci fosse un solo carcere come quello, sarebbe troppo. È troppo che ci siano state quelle carceri quando credevamo di vivere in un paese civile.

Il film non fa sconti a nessuno.
Il ragazzo ha scippato un povero vecchio, lo ha colpito. Il vecchio è in coma. Però sentiamo che l’unica famiglia che il ragazzo – sembra non avere un nome, è chiamato da tutti per cognome: Fantaccini – ha conosciuto è una casa famiglia. La precedente, l’attuale da cui è scappato: sempre solo di case famiglia si tratta.
Il vecchio carcerato, abbandonato in una cella, respinto dagli altri reclusi, è un pedofilo (un accenno fa pensare che abbia abusato di una figlia), è uno di quegli esseri a cui pensiamo con disgusto quando ne leggiamo sui giornali, ne sentiamo parlare in televisione.
In quella situazione è un uomo che parla da solo, ha quasi perso ogni contatto con la realtà, si piscia addosso ed è aiutato solo dal giovane disperato che ha pensato di ammazzarsi e forse lo farà quando il giudice emetterà la sentenza, la severa sentenza che tutti auspichiamo sentendo le notizie di cronaca nel telegiornale: il vecchio scippato da Fantaccini è passato dal coma alla morte.

Sullo schermo sfilano i corpi dei delinquenti, forse tutti con sentenza definitiva, o colti in flagranza di reato, alcuni abituali: lo scippatore, il pedofilo, l’immigrato che cerca di salvare qualcosa della sua cultura, lo spacciatore che riesce a far entrare in carcere la busta con la dose, e anche il vino per festeggiare un momento in cui c’è un calo di tensione.

Solo un momento, perché l’alta tensione è la costante di questo ambiente, alta tensione che percepiamo dagli sguardi dei personaggi: – l’ispettore Gaetano Gargiulo, disposto a correre dei rischi per risolvere la situazione – il camorrista Carmine Lagioia – l’agente pronto a rimproverare, e forse a denunciare, l’ispettore che mette l’umanità e il buonsenso al di sopra dei regolamenti – gli altri agenti, tutti, uno per uno – gli altri carcerati, tutti, uno per uno – il napoletano Cacace, che nel buio improvviso cerca di allentare la tensione cantando una bellissima, antica canzone: «Fənesta vascia e padrona crudelə / Quanta suspirə m’hajə fattə jettare / Mm’ardə stu corə comm’a na cannelə / Bella quannə tə sentə annommenare / Oj pigli’a spərienzia de la neve / La neve è fredda e sə fa maneare / E tu commə si tant’aspra e crudele / Muortə mmə virə e nun mmə vuó ajutare.» / «Vulessə addəvəntarə nu picciuottə / Cu la langella jennə vənnenn’acqua / Pə mmə nə ji da chisti palazzuottə / “Bell’e ffemmənə mejə a chi vò acqua?” / S’affaccia na nənnella da lla’ncoppə / “Chi è stu ninnə ca va vənnenn’acqua?” / Jə lə risponnə cu parolə accortə / “So’ lacrəmə d’ammorə e nun è acqua”».*

Un pasto conviviale nel buio illuminato dalla fioca luce delle lampade di emergenza. Ritorna la luce e, con essa, la consueta tensione tra questi uomini che, pur conoscendosi da anni, si chiamano per cognome, perché la confidenza, l’amicizia, non è consentita, non solo tra “guardie e ladri”, ma neanche tra i carcerati, che si riferiscono agli altri chiamandoli “colleghi”. Stona questa parola della burocrazia, da ufficio, che forse sostituisce “compagni”, non per motivi politici. Compagni ricorda la scuola, la squadra di calcio, il gioco dei bambini, introdurrebbe un elemento affettivo nel loro rapporto, accomunerebbe il camorrista al piccolo spacciatore all’emigrante fermato perché privo del permesso di soggiorno. Ci sono differenze a cui i detenuti tengono molto. Le guardie si chiamano per nome tra loro, ma per i detenuti sono “ispettore” («ispettó!»), anche nei momenti di emergenza o quando, nel film, si siedono allo stesso tavolo (situazione che non credo si verifichi facilmente).

Non si vedono armi, non si assiste a scene brutali, solo qualche spinta, qualche ordine secco che non ammette replica.
Non ci sono le scene pulp a cui ci siamo abituati; gli attori hanno capito perfettamente l’intenzione del regista: creare la tensione con gli sguardi.
Un concerto di sguardi, di volti tesi; ci aspettiamo che la situazione precipiti in tragedia. Non succede; siamo nel dramma dal primo all’ultimo momento, un dramma costante che, per ora, non sfocia in tragedia.
Anche la tragedia sarebbe, in qualche modo, una liberazione.

Tutti bravi gli attori, fra i quali spiccano Silvio Orlando e Toni Servillo.
Che lo diciamo a fare? S’inseriscono perfettamente nella tradizione dei Gassman, dei Mastroianni, dei tanti attori che hanno costruito il metodo Stanislavskij all’italiana, che possiamo anche chiamare Italian Actors Studio (senza Strasberg ma con Monicelli, Fellini, Dino Risi, eccetera): la perfetta immedesimazione raggiunta con l’apparente improvvisazione.
I grandi attori americani – per esempio Dustin Hoffman, che fu protagonista di un bel film di Pietro Germi – si meravigliavano del modo di lavorare nel cinema da noi.
Eppure, lavorando in quel modo, il cinema italiano faceva grandi cose.
«Pronti, si gira», quale scena? L’ultima, una intermedia, senza un ordine logico, seguendo solo l’ispirazione del regista, le esigenze del fotografo di scena o del tecnico delle luci.
«Pronti, si gira»; gli attori che poco prima parlavano tra di loro del prossimo derby Roma Lazio o Milan Inter, immediatamente si immedesimavano nei personaggi.

Il metodo Stanislavskij originale prevedeva tutta una preparazione psicologica e anche fisica.
Quando girava Il maratoneta (1976, John Schlesinger), Dustin Hoffman faceva arrabbiare Laurence Olivier arrivando sempre in ritardo per impegnarsi in lunghe corse che gli servivano a “entrare nel personaggio”.
Dustin Hoffman dichiarò che aveva studiato un anno per preparare la voce di Dorothy in Tootsie; ho sentito Giancarlo Giannini osservare: «Quale studio? Un po’ di falsetto ed è fatta».
Da noi il talento vale molto più del metodo.
Toni Servillo e Silvio Orlando entrano pienamente in questa tradizione: cambi un po’ la voce (Silvio Orlando non la cambia neanche) e diventi un altro personaggio.

Torniamo ad ARIAFERMA, che sto cercando di commentare, se riesco a non divagare: mi è piaciuto, però mi è sembrato che mancasse qualcosa per essere un grande film.
Manca una trama che trascini, crei sospensione, emozioni.

Non c’è attesa.
I carcerati e gli agenti attendono il trasferimento, ma noi? Che cosa ci aspettiamo che accada in questa bolla chiusa nell’Universo, isolata dal resto del mondo?
Non ci viene raccontata una storia, tranne il dettaglio incollato alla fine con lo scotch: l’ispettore Gargiulo è il figlio del lattaio che il camorrista Lagioia conosceva fin da bambino.
Letteralmente: incollato con lo scotch (Gargiulo non conosceva questo dettaglio? Strano!).

In realtà Lagioia non è un capo camorrista, come ci viene presentato.
È vero, ha ascendente sugli altri detenuti e c’è uno, Cacace, che lo serve, gli porta la valigia, trasmette le sue indicazioni. A volte ha l’atteggiamento di un capo.
Ma non credo che un capo camorrista si prodighi per allentare la tensione mettendosi a cucinare per tutti.
Il personaggio non è un camorrista perché è un buono e si dimostra più ragionevole di tutti, persino più dell’ispettore Gargiulo, in diverse occasioni.
Boss della camorra buono è una contraddizione in termini. Per diventare un boss bisogna essere spietati e non concedere nulla alla tenerezza nei confronti di chiunque (forse è concessa solo nei riguardi dei propri figli, non dei figli degli altri, che si possono bruciare nell’acido se i genitori tradiscono); assolutamente vietata la tenerezza suscitata da un giovane disperato.
Il giovane disperato è per definizione pentito, trasferisce l’odio dalla società a sé stesso, collabora con l’ispettore, è pronto a passare dall’altra parte.

Nel film le guardie sono altezzose nei confronti dei carcerati; nella realtà i camorristi sono altezzosi nei confronti delle guardie e non metterebbero a capo tavola un ispettore carcerario, a meno che fosse colluso con la camorra.
Lo accetterebbero tra di loro, gli offrirebbero un piatto di maccheroni, se fosse uno di loro, se fosse un delinquente mascherato da guardia.
Solo in questo caso interromperebbero per un attimo la guerra continua, senza esclusione di colpi, che hanno dichiarato alla società onesta.

Il personaggio interpretato da Silvio Orlando non è un camorrista; potrebbe essere un ex professore (ha la faccia del professore, ma certamente sono influenzato da altre interpretazioni), figlio di un oste, in galera per avere ammazzato la moglie infedele.
Si spiegherebbe l’ascendenza nei confronti degli altri carcerati e delle guardie con il suo atteggiamento ragionevole, con la sua disponibilità a dare una mano; è servito da Cacace perché ha un po’ di soldi e lo aiuta a scrivere le lettere ai suoi o a parlare con l’avvocato. Potrebbe anche essere un ex terrorista non pentito con la giustizia ma sinceramente pentito con sé stesso, sconvolto dai sensi di colpa e deciso a pagare fino in fondo. Il personaggio è questo: un uomo silenzioso, riflessivo, che accetta il dramma in cui è finito e cerca di rendersi utile. Non è un camorrista.

Questa osservazione nulla toglie alla bravura dell’attore; la discrepanza tra il personaggio come viene presentato (un capo camorrista) e come si dimostra (una persona buona, ragionevole e capace di farsi rispettare perché buona e ragionevole) è nella sceneggiatura del film.

Uscendo dalla sala e dirigendomi verso la stazione di Pisa, mentre mi godevo la passeggiata fra tanta gente (finalmente, dopo le fasi più drammatiche della pandemia), pensavo: un bel film, un film di cui mi dispiace parlare male, ma manca qualcosa.

*Nota

Fenesta vascia è un antico canto risalente al 1500, ritrovato e adattato al gusto dell’epoca (1825) da Guglielmo Cottrau (musica) e Giulio Genoino (testo). Per il testo, in particolare per individuare la presenza della vocale centrale media rappresentata con la schwa (vedi nota nel commento al film Achille Tarallo) mi sono riferito alla versione di Sergio Bruni, che era cantante, ma anche rigoroso studioso degli antichi canti napoletani. Questa versione è facilmente reperibile su YouTube.