25 novembre 2021 h 17.30
Cinema Principe Firenze – Viale Giacomo Matteotti

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Famiglia (genitori e figli)
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Ho capito da dove viene la scena del papa giocoliere, che mi sembrò, e mi sembra tuttora, geniale.
Mi riferisco a The Young Pope (2016); sul sito c’è il commento.
Il giovane papa (Lenny) passeggia nei giardini del Palazzo Apostolico, tra gli aranci da cui le laboriose suorine colgono i frutti maturi.
Sono andato a rivedere l’episodio (comprai la serie su DVD e vidi le dieci puntate in tre pomeriggi).
La macchina da presa trova Lenny in uno dei pochi momenti di serenità: il volto non è rabbuiato e scontroso, gli occhi non sono chiusi per nascondere la tensione e riaprirli inchiodando l’interlocutore. Sorride. È impegnato in una piacevole conversazione col nuovo amico, il cardinale Gutierrez, uno dei pochi che stima, l’unico di cui si fida.
Bevono una spremuta di arancia; Lenny chiede a una delle suore di portargli tre arance (ha già in mente la scena che segue).
Poi il papa americano, abbandonato in orfanotrofio dai genitori hippy, geloso del proprio corpo (nella prima puntata ha messo bruscamente al posto suo la vecchia cuoca che osava toccarlo), prende amichevolmente per un braccio Gutierrez e gli dice: «Sarei contento se anche a me la vocazione fosse arrivata come un fulmine» (Gutierrez gli ha raccontato la sua vocazione). «Non è andata così. Sono diventato prete per mancanza di alternative.»
Dall’orfanotrofio passò direttamente al seminario, sotto la protezione di monsignor Spenser, che poi divenne cardinale.
Tra la fine della scuola e l’inizio del seminario ebbe una settimana di vacanza. Era la prima volta che vedeva il mondo da solo. Andò in California.
Un giorno, in spiaggia, conquistò una ragazza bruttina che a lui, in quel momento, sembrò la più bella ragazza del mondo; gli occhi del papa si chiudono evocando il ricordo.
Gutierrez gli chiede: «Come fece a conquistarla? La prego, me lo dica!» La suora, intanto, ha portato le tre arance al papa.
Lenny si alza, dice: «L’ho conquistata così» e inizia un esercizio di giocoleria con le tre arance.
«Siamo stati insieme una settimana, poi sono entrato in seminario. È la prima volta che racconto questa storia.»
L’episodio, che ho trascritto fedelmente (la fortuna di avere il DVD), mi è rimasto impresso per la bellezza della costruzione. Capii che doveva esserci sotto qualcosa di importante. Da dove arriva la giocoleria in questa lunga, forse troppo lunga, serie?

Con Sorrentino non è facile capire da dove arrivano oggetti (la statuetta della Venere di Willendorf), personaggi che entrano nel film a tradimento, prendendoci di sorpresa. Per esempio, in The Young Pope, da dove arriva il canguro?
Dall’Australia, lo sappiamo. Ma non è questo.
Che ci fa nei giardini del papa? Io non l’ho capito.
Di solito sono animali: una giraffa sparisce ne La grande bellezza, una pecora cade a terra tramortita in Loro.
Forse è sbagliato porsi queste domande, perché è come chiedersi da dove arrivano i sogni, o, nel film che ho visto ieri sera, da dove arriva il munaciello; nell’ultima scena lo vediamo accanto ai binari in una piccola stazione ferroviaria: solleva il cappuccio, mostra la testa ricciuta che prima nascondeva, sorride a Fabio che lo guarda dal treno, fa un gesto di saluto con la mano. Chi avesse dubbi sull’esistenza del munaciello può ricredersi: l’ha visto Fabio, l’abbiamo visto anche noi. Esiste davvero. Me lo immaginavo più brutto e un po’ aggobbito (la gobba, si sa, porta fortuna). Forse ci sono diversi munacielli in giro per Napoli e dintorni.

Riguardo alla giocoleria, in un primo momento pensai che ci fosse un riferimento al regista che Paolo Sorrentino ama di più, oltre ad Antonio Capuano, a cui è legato in modo affettivo, più che artistico.
Mi ricordai che lo stesso esercizio con tre palline lanciate in aria si trova in Amarcord (Fellini, 1973), eseguito con tre coscette di pollo dallo zio fannullone, interpretato da Nando Orfei.
Sorrentino ama spargere simboli personali nei film (personali sono i simboli presenti nei sogni); forse voleva dirci qualcosa che ha a che fare con la giocoleria come opposizione alla legge più grande dell’universo.

La legge più grande di tutte, più grande delle costituzioni dei paesi democratici, più grande della dichiarazione universale dei diritti umani, più grande dei dieci comandamenti, del discorso della montagna, delle sure coraniche, più grande della legge mistica (Nam-Myoho-Renge-Kyo) del Budda Shakyamuni, la legge fondamentale della materia, che nessuno si sogna di infrangere (se qualcuno lo facesse perderebbe tempo), è la seguente: in ogni fenomeno il disordine aumenta. L’universo ha un unico verso: il disordine.

Le palline lanciate in aria dovrebbero cadere, di solito cadono, in modo casuale, disordinato. Se qualcuno riesce a farle cadere rispettando un ordine, come accade in ogni esercizio di giocoleria, anche nel più semplice, stiamo assistendo a un miracolo, non importa chi ne sia l’autore: uno zio fannullone e imbrillantinato o un seminarista in vacanza che cerca di conquistare una ragazza. Ci riesce, perché chi fa un esercizio di giocoleria si fa amare.
Anche chi costruisce una Ferrari o una bicicletta va contro al disordine, però, in questo caso, il miracolo è diviso tra tante persone, non si può attribuire a uno in particolare ed è diluito nel tempo. Cosicché ci abituiamo e l’accettiamo tra le cose normali della vita.
Diverso è il caso della giocoleria: io sono qua, davanti a voi; in questo momento lancio le palline e le faccio scendere in modo ordinato.

Non è un’infrazione alla legge fondamentale, perché da un’altra parte ci sarà un aumento del disordine che compenserà la diminuzione determinata dal giocoliere: il disordine complessivo nell’universo deve aumentare. Chi l’ha stabilito? Faccio un’ipotesi: Dio.

Inferno XII, 40 e seg. «da tutte parti l’alta valle feda / tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo / sentisse amor, per lo qual è chi creda / più volte il mondo in caòsso converso; / …». Alla morte di Gesù, racconta Virgilio, un terremoto scosse la roccia dove si trovano, cosicché egli pensò che il mondo, costituito dalla separazione degli elementi, fosse convertito dall’amore in caos.

Noi poveri uomini, continuamente impegnati a cercare di tenere in ordine il nostro corpo e quello delle persone che amiamo, consideriamo miracoloso riuscire a costringere le molecole, che continuamente si agitano, a comportarsi in modo ordinato.
Così si spiega l’amore viscerale di tanti, non solo napoletani o argentini, compreso il regista, per Diego Armando Maradona.
Molti giocatori hanno suscitato stima e apprezzamento: Platini, Rivera, Gigi Riva, Roberto Baggio, Pelé (per citarne alcuni); Maradona ha suscitato amore, un amore sconfinato, che supera i limiti delle accuse di droga e della trasformazione in un corpaccione disordinato (una vendetta dell’entropia, una specie di contrappasso dantesco) e persiste dopo la morte, ora che i suoi atomi si sono mescolati a tutto il resto.
Perché tanto amore? Perché in campo faceva miracoli. Non belle azioni (è troppo poco): miracoli.
Non a caso quando si parla di Maradona viene sempre fuori la parola Dio.

Questo è il castello (di carte) che mi ero costruito in testa per spiegarmi un episodio marginale di una serie lunghissima, forse troppo lunga, un piccolo episodio che mi aveva riempito di stupore per la sua perfezione.

Nel film che ho visto ieri sera al cinema Principe di Firenze (È stata la mano di Dio) ho scoperto che la giocoleria, inserita in una storia inventata, è estratta da un ricordo vero, cocente, un ricordo che sarebbe allegro, ma, per come sono andate le cose, è divenuto doloroso.
La mamma di Paolo amava fare esercizi di giocoleria, gli stessi del giovane Papa Pio XIII (Lenny); si esibiva volentieri su sollecitazione degli altri componenti di quella famiglia chiassosa e rumorosa, che applaudivano ammirati.
In un momento di grave crisi famigliare, prima di piangere e lamentarsi in un modo che strazia il figlio adolescente fino a causargli quasi una crisi epilettica, la mamma si chiude nella sua stanza e prende a giocherellare in modo parossistico.

« … / e se non piangi, di che pianger suoli?», Inferno, Canto XXXIII, verso 42.
Così risponde Fabietto (Paolino?) alla signora che lo ha invitato a piangere per cominciare a liberarsi dell’angoscia.
Dallo stesso canto dell’Inferno viene il verso che rivolge alla mamma in risposta al suo invito a mangiare in assenza dei genitori (la mamma ha lasciato, mi pare, gli gnocchi in frigorifero).
Il giovane Fabio risponde con il verso 75 dello stesso Canto: «Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno».
La mamma dice: «A volte non ti capisco!». Non capiva il riferimento al canto del conte Ugolino.
Sono le ultime parole che mamma e figlio si sono scambiati.
Un momento di serenità famigliare: la partita di Maradona nello stadio San Paolo (Napoli – Empoli) con l’abbonamento regalatogli dal padre, i genitori riappacificati che vanno a trascorrere un fine settimana nella casa nuova, a Roccaraso.
Persino in quel momento che precede la tragedia, e noi lo sappiamo, ci viene da ridere, come sempre succede a Napoli. Non sappiamo se la madre ignorasse i versi di Dante o avesse, di proposito, fatto una battuta. Amava scherzare e faceva scherzi anche pericolosi; amava ridere e far ridere il marito, i figli.
Straziante è l’immaginazione degli ultimi momenti vissuti dai genitori, basata sulla conoscenza delle loro abitudini e, penso, sulla descrizione di come i due corpi furono trovati: lei appoggiata al marito, lui con la testa reclinata sul petto. Come se dormissero. Fabio, divenuto Paolo, il regista, immagina che poco prima di assopirsi si siano scambiati il fischietto, il loro segnale.

Un artista non si fa indietro davanti alla disperazione o davanti agli aspetti spiacevoli della vita, ma francamente mi sarei risparmiato un utilizzo particolare della spazzola da parte di una nobildonna di là con gli anni.
Anche Fellini ci mostra un’iniziazione al sesso non particolarmente seducente, con una tabaccaia, ma in quel caso è focalizzata esclusivamente sul seno enorme, non è un rapporto sessuale completo.

La prima esperienza sessuale con un’altra persona (diciamola tutta: la prima penetrazione), purtroppo, non è sempre un bel ricordo, ma quella descritta nel film rientra nel novero delle più squallide di cui ho sentito il racconto, o l’ho letto, o l’ho visto al cinema.
Lo squallore dipende dalla forte differenza di età tra i due, dalla inesperienza del più giovane e dal fatto che si tratta della sua “prima volta”. Sembra quasi una violenza: la vecchia, fredda e autoritaria, comanda, il giovane esegue.

Lo squallore è abbondantemente compensato dalla meravigliosa storia d’amore e di sesso desiderato, immaginato e, quindi, vissuto, con una bellissima zia un po’ pazzerella.

Molto efficace la rappresentazione di Antonio Capuano, il regista che fece capire a Paolo Sorrentino che cosa significa essere artista.
Antonio Capuano è un regista particolare: schietto, anarchico, impulsivo; mi riferisco alle caratteristiche che si deducono dai suoi film, non alla persona, che non conosco. La guerra di Mario (2005), con Valeria Golino, mi rimase impresso per la bravura del regista e dell’attrice. Su questo sito c’è il commento a Achille Tarallo (2018).
Dai film e da alcuni interventi sui giornali immaginavo Antonio Capuano come appare nel film.

«La realtà mi delude», dice Fabio, «gli altri mi deludono».
Questo può essere un motivo per fare cinema, per scrivere o per andare al cinema.
La realtà è deludente, la gente è deludente. Persino i santi assomigliano troppo alla monaca sdentata che cena e dorme in casa di Jep Gambardella in La grande bellezza (2013). Non hanno la precisione, la concentrazione, la serietà, la leggerezza di chi si impegna in un esercizio di giocoleria, anche semplice. Si fanno confondere dal desiderio di apparire, di sembrare santi.

Nella realtà si salvano i bellissimi paesaggi di Napoli, che non deludono mai se sono ripresi da un regista capace di guardarli come sono (ogni tanto qualcuno pretende di piegarli a una sua “visione”).

Capuano urla: «Ce l’hai qualcosa da raccontare? Possibile che questa città non ti faccia venire in mente niente da raccontare? Ce l’hai un dolore?»
Evidentemente Paolo Sorrentino un dolore ce l’ha, sempre presente nei suoi film. La perdita dei genitori quando si è adolescenti è uno dei più grandi dolori che possa colpire un uomo o una donna, paragonabile solo alla perdita di un figlio o di una figlia. Non è giusto, non è umano: da giovani i genitori devono esserci, da vecchi i figli devono sopravviverci.
Questa dovrebbe essere la regola. L’eccezione fa parte di quella legge, la solita: il disordine, detto anche entropia, ogni tanto decide di darci delle sorprese, come il munaciello, che poteva portare fortuna o sfortuna, ricchezze o morte.

Paolo Sorrentino si è girato indietro, è andato a ricercare nei suoi ricordi, belli e brutti, come sono i ricordi di tutti.
Ci ha mostrato una specie di seduta psicoanalitica, come ci hanno insegnato i grandi maestri: Fellini, Hitchcock, Bergman.

Si è molto citato Fellini, a proposito di La grande bellezza. Non so se qualcuno ha notato che la scena finale di È stata la mano di Dio è uguale al finale di I vitelloni; entrambi i film ricordano l’adolescenza spensierata, o quasi, un po’ folle, priva di responsabilità, che si conclude con il viaggio, necessario per crescere. C’è anche il saluto dal treno al bambino vestito da munaciello, che ricorda il saluto di Moraldo a Guido, il ragazzo ferroviere (la voce di Franco Interlenghi doppiata, solo per quel saluto, da Fellini); Guido è l’unico degli amici che lo ha visto partire e viene salutato con l’affetto che si associa alla giovinezza.

Per realizzare il sogno bisogna mettersi in viaggio. In treno (che piacere rivedere le carrozze ferroviarie di una volta!).
Si va verso il nord (di poco nel caso di Paolo, che si è fermato a Roma), guardando il paesaggio e tenendo nelle orecchie la musica e le parole – le cuffie perennemente appese al collo, il mangianastri perennemente attaccato alla cintola – di Napul’è, cantata da Pino Daniele.
Napul’è millə culurə
Napul’è millə paurə
Napul’è a vocə de’ criaturə
Chə sagliə chianu chianə
E tu sai ca nun si sulə

Napul’è nu solə amarə
Napul’è addorə e marə
Napul’è na carta sporchə
E nisciunə sə nə ‘mportə
E ognunə aspetta a sciortə

Napul’è na cammənatə
Int’e vichə miezə all’atə
Napul’è tuttə nu suonnə
E a sapə tutt’o munnə
Ma nun sannə a verità

Napul’è millə culurə
(Napule è millə paurə)
Napul’è nu solə amarə
(Napul’è addorə e marə)
Napul’è na carta sporchə
(E nisciunə sə nə ‘mportə)
Napul’è na’ cammənatə
(Int’e vichə miezə all’atə)
Napul’è millə culurə
(Napul’è millə paurə)
Napul’è nu solə amarə
(Napul’è addorə e marə)

Napul’è – Pino Daniele (1977)